Corte europea dei diritti umani
Art. 2: Diritto alla vita
In Alhowais c. Ungheria (Corte EDU, sentenza del 2.02.2023) un cittadino siriano lamentava varie violazioni della CEDU in seguito all’annegamento del fratello durante il loro tentativo di attraversamento del fiume Tisza, al confine tra Serbia e Ungheria, con il supporto di trafficanti.
Poiché la barca in cui viaggiavano non riusciva a giungere a riva, il ricorrente, il fratello e gli altri migranti a bordo si lanciavano in acqua mentre la polizia di frontiera ungherese, secondo quanto affermato dal ricorrente, lanciava pietre e lacrimogeni intimando loro di tornare in Serbia. Se alcune persone si salvavano grazie a un’operazione di ricerca e soccorso inviata poco dopo dalle autorità ungheresi e altre riuscivano a tornare vivi in Serbia, il fratello del ricorrente scompariva. Il suo corpo, oramai privo di vita, veniva trovato qualche giorno dopo. Le indagini successive non chiarivano quanto era effettivamente accaduto, a partire dall’identità di tutti gli agenti presenti sul luogo dell’incidente e dall’eventuale uso non necessario o sproporzionato della forza contro i migranti. Il procedimento penale veniva dunque chiuso senza accertare eventuali responsabilità. Nel rigettare le obiezioni sull’ammissibilità del ricorso per il mancato esaurimento dei ricorsi interni di natura civile, ritenuti non idonei per rimediare alle possibili violazioni della CEDU lamentate dal ricorrente, la Corte EDU decide di valutare il caso sotto i profili procedurali del diritto alla vita e del divieto di tortura (rispettivamente, artt. 2 e 3 CEDU). In particolare, essa ricorda come l’art. 2 CEDU, letto sotto il profilo procedurale, richieda alla Parti di effettuare indagini effettive per accertare eventuali responsabilità penali anche quando le loro autorità hanno interferito in maniera non intenzionale nel godimento del diritto alla vita di un individuo che muore in circostanze dubbie (cfr. tra le altre Corte EDU, 7.07.2022, Safi e altri c. Grecia, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022; 14.09.2021, M.D. e altri c. Russia, in questa Rivista, XXIV, 1, 2022; 19.09.2017, Ranđelović e altri c. Montenegro, in questa Rivista, XX, 1, 2018). Quando poi la morte di uno o più individui è dovuta all’inerzia di agenti statali che, pur essendo a conoscenza del rischio cui questi sarebbero esposti e avendo il potere di agire, non si sono attivate per prevenirla, il fatto di non perseguire penalmente i responsabili può di per sé dare origine a una violazione dello stesso art. 2 CEDU. Nel caso in esame, lo Stato convenuto aveva ricevuto precise informazioni sul ruolo dei suoi agenti nella serie di eventi che avevano portato alla morte del fratello del ricorrente, il che era sufficiente per attivare gli obblighi procedurali derivanti dagli artt. 2 e 3 CEDU. Ciononostante, oltre a non raccogliere tutte le possibili prove e testimonianze, le autorità investigative si erano concentrate solo sull’eventuale utilizzo ingiustificato della forza contro i migranti in arrivo senza approfondire la condotta degli agenti presenti sul luogo rispetto alla morte del fratello del ricorrente e, in particolare, se essi avrebbero potuto salvarlo. Peraltro, secondo la Corte EDU, un’indagine realmente effettiva avrebbe anche dovuto verificare eventuali responsabilità istituzionali, oltre quelle individuali, al fine di evitare che storture organizzative possano causare incidenti simili in futuro. Tenuto infine conto che il non luogo a procedere era stato deciso solo sulla base delle dichiarazioni di alcuni agenti di polizia coinvolti nell’evento mentre era stata ritenuta irrilevante la testimonianza dello stesso ricorrente, per la Corte EDU lo Stato convenuto è venuto meno ai suoi obblighi convenzionali con la conseguente violazione degli artt. 2 e 3 letti sotto il profilo procedurale. Per quanto riguarda, invece, la violazione sostanziale del diritto alla vita lamentata dal ricorrente nei confronti dell’Ungheria per aver causato la morte del fratello nell’ambito delle operazioni di controllo alla frontiera, la Corte EDU reitera come le Parti debbano attivarsi per adottare le misure necessarie a salvaguardia della vita delle persone che ricadono nell’ambito della sua giurisdizione. Specie quando vi è conoscenza della pericolosità di certe attività per la vita umana, siano esse pubbliche o private, spetta alle autorità competenti pianificare ogni operazione minimizzando i rischi per le persone coinvolte. Così, ad esempio, il rispetto del diritto alla vita comporta l’istituzione di adeguati servizi di ricerca e soccorso in modo che, in situazioni in cui lo Stato parte abbia notizia di un’emergenza, possa intervenire in modo efficace. In relazione alle circostanze del caso in esame, la Corte EDU rifiuta innanzitutto l’argomentazione del Governo convenuto per il quale la responsabilità per quanto accaduto sarebbe da attribuire ai soli migranti per aver tentato di attraversare il fiume in modo irregolare. In secondo luogo, era ben noto alle autorità ungheresi il fatto che il fiume Tisza era utilizzato dai migranti e che vi erano già stati incidenti dello stesso tipo tanto da organizzare operazioni di soccorso nell’area. In terzo luogo, il ricorrente e gli altri compagni di viaggio erano stati avvistati da coloro che monitoravano quella specifica parte del confine tra Ungheria e Serbia. Tutto ciò è sufficiente per la Corte EDU per affermare che lo Stato convenuto era a conoscenza del pericolo reale e immediato per la vita dello stesso ricorrente e di tutte le altre persone coinvolte nell’evento con la conseguente attivazione degli obblighi positivi di cui all’art. 2 CEDU. Ciononostante, la Corte non riscontra elementi per affermare che, dopo l’avvistamento della barca con i migranti a bordo, gli agenti competenti siano intervenuti o abbiano ricevuto istruzioni per condurre un’operazione che li avrebbe messi in sicurezza. Non ci sono nemmeno prove che, una volta salvati alcuni migranti, le autorità interne abbiano tentato di cercare il fratello del ricorrente o altri migranti in pericolo. Se si aggiungono i problemi più generali di organizzazione delle operazioni di soccorso e di assistenza pur emersi dal caso, per la Corte EDU vi è stata violazione del diritto alla vita anche sotto il profilo sostanziale. Invece, non avendo elementi sufficienti per accertare al di là di ogni ragionevole dubbio che fosse stata utilizzata, in modo ingiustificato, la forza contro i migranti, per la stessa Corte non vi è stata violazione sostanziale dell’art. 3 CEDU.
Il caso Daraibou c. Croazia (Corte EDU, sentenza del 17.01.2023) riguarda un cittadino marocchino che, dopo essere entrato in modo irregolare nello Stato convenuto, veniva trattenuto in una stazione di polizia insieme ad altri tre migranti in attesa del loro immediato allontanamento in Serbia. Nella stanza in cui si trovavano i quattro migranti scoppiava un incendio che causava la morte di tutti i presenti tranne quella del ricorrente, il quale riportava tuttavia gravi ferite e rimaneva in ospedale per mesi. Seguivano indagini che, nonostante avessero condotto a sanzioni disciplinari per negligenza a carico di alcuni agenti che avrebbero dovuto sorvegliare i migranti trattenuti, si concludevano con l’avvio di un procedimento penale a carico del ricorrente per aver causato l’incendio assieme a coloro che erano poi deceduti. Decidendo di esaminare il ricorso solamente sotto il profilo del diritto alla vita, la Corte EDU reitera che l’art. 2 CEDU impone alle Parti obblighi volti a proteggere la vita di tutti coloro che si trovano nella sua giurisdizione, specie di chi sia privato della propria libertà in quanto ciò lo pone in una condizione di vulnerabilità. In tal senso, le Parti devono adottare le misure necessarie per minimizzare i potenziali rischi per la salute e il benessere delle persone detenute. Su di esse incombe anche l’obbligo di fornire spiegazioni appropriate e convincenti nell’eventualità in cui, durante il loro trattenimento, gli individui posti sotto il loro controllo perdano la vita o siano gravemente ferite. Nel caso del ricorrente, nonostante non ci siano elementi per ritenere che le autorità statali fossero a conoscenza del, o avrebbero dovuto immaginare il, rischio di incendio, per la Corte EDU esse non hanno adottato tutte le misure necessarie per limitare un rischio che era comunque prevedibile. Infatti, l’incendio era stato appiccato con un accendino che non era stato sequestrato ai migranti prima di essere chiusi nei locali della stazione di polizia, il che costituisce il segnale che la perquisizione al loro arrivo non era stata svolta con la dovuta attenzione. Simili negligenze erano emerse già nel corso delle indagini interne anche rispetto al comportamento tenuto da coloro che dovevano sorvegliare i migranti e che, invece, si erano allontanati lasciando questi ultimi liberi di appiccare l’incendio. La stessa struttura in cui il ricorrente era stato trattenuto non era dotata di uscite anti-incendio, né gli agenti sembravano preparati ad affrontare efficacemente lo scoppio di un incendio. Tutto ciò basta alla Corte EDU per affermare che lo Stato convenuto non ha fatto quanto avrebbe potuto per proteggere la vita del ricorrente, con la conseguente violazione dell’art. 2 CEDU letto sotto il profilo sostanziale. Inoltre, nonostante l’immediato avvio di indagini sull’accaduto, queste non erano state poi svolte in modo da chiarire ogni aspetto del caso, ossia andando anche al di là delle singole responsabilità degli agenti interessati, per identificare eventuali lacune nell’organizzazione ed evitare il ripetersi di situazioni simili in futuro. Pertanto, nel caso del ricorrente, vi è stata una violazione dell’art. 2 CEDU letto anche sotto il profilo procedurale.
Art. 3: Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti
Il caso J.A. e altri c. Italia (Corte EDU, sentenza del 30.03.2023) riguarda quattro cittadini tunisini che, nell’ottobre 2017, venivano condotti nell’hotspot di Lampedusa dopo essere stati soccorsi in mare. Qui venivano identificati, sottoposti a controlli medici, informati, attraverso un volantino, della possibilità di chiedere protezione internazionale e trattenuti per dieci giorni senza contatti con l’esterno. Quando veniva richiesto loro di firmare documenti di cui non capivano il contenuto, venivano immediatamente trasferiti a Palermo, peraltro con l’uso di cinghie prima e dopo il volo, e lo stesso giorno allontanati in Tunisia. I ricorrenti lamentavano quindi la violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti in ragione delle gravi condizioni materiali in cui versava l’hotspot (art. 3), del diritto alla libertà e sicurezza personale per aver subito una detenzione arbitraria, non essere stati informati delle ragioni del trattenimento e non aver avuto a disposizione un mezzo per lamentarne l’irregolarità (art. 5, parr. 1, 2, e 4), e del divieto di respingimenti collettivi per essere stati allontanati in Tunisia senza un esame della loro situazione personale (art. 4, Prot. 4). Dopo aver respinto le obiezioni del Governo, in particolare quella sul mancato esaurimento dei ricorsi interni in ragione dell’inesistenza di un rimedio efficace attraverso cui i ricorrenti – non richiedenti asilo – avrebbero potuto lamentare le violazioni della CEDU, la Corte EDU ritiene che sia le prove fornite dai ricorrenti sia i rapporti interni e internazionali evidenziano le condizioni particolarmente precarie in cui versava l’hotspot di Lampedusa nell’ottobre 2017 (v. Garante nazionale dei diritti delle persone detenuti o private della loro libertà, Report sulle visite ai Centri di identificazione ed espulsione e agli hotspots, 2017; CPT, Report sulla visita in Italia, 2017; Comitato ONU contro la tortura, Concluding observations on the combined fifth and sixth periodic reports of Italy, 2017). Dinanzi a informazioni così precise e dettagliate, il Governo convenuto non ha invece fornito elementi riguardanti le condizioni specifiche di trattenimento riservate ai ricorrenti in grado di dimostrare che gli stessi non hanno sofferto, per un periodo abbastanza lungo, un trattamento inumano e degradante, a causa della grave situazione igienica, del sovraffollamento e della mancanza di spazio e letti, nonché dell’assenza di servizi essenziali. Vi è stata dunque, nei loro confronti, una violazione dell’art. 3 CEDU (diversamente da Corte EDU, Grande Camera, 15.12.2016, Khlaifia e altri c. Italia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Per quanto riguarda la natura del trattenimento, la Corte EDU non condivide la tesi dell’Italia per la quale i ricorrenti avrebbero subito una restrizione della libertà per ragioni di interesse pubblico, ossia per permetterne l’identificazione e la successiva ricollocazione, e che in ogni caso essa fosse prevista dalla legge. Ritenendo applicabile l’art. 5, par. 1, lett. f), ai sensi del quale è permessa una restrizione della libertà personale per prevenire l’ingresso irregolare nel territorio delle Parti purché sia prevista dalla legge (cfr. nuovamente Corte EDU, Grande Camera, Khlaifia e altri c. Italia), la Corte si concentra sulla normativa in materia di hotspots vigente all’epoca dei fatti. A tal fine, evidenzia come, facendo seguito all’Agenda europea per la migrazione del 2015, il Governo italiano avesse identificato il centro di Lampedusa quale uno degli hotspot italiani ai soli fini identificativi e di ricollocamento dei migranti giunti per mare in Europa. Quantomeno nel momento in cui i ricorrenti erano stati trattenuti a Lampedusa, l’hotspot non era (ancora) qualificato come Centro di detenzione. In tal senso, lo stesso Governo non è riuscito a dimostrare quali regole, anche adottate nell’ambito dell’Unione europea, potessero applicarsi a tale detenzione in modo da disciplinarne gli aspetti sostanziali e procedurali, compresa la sua durata massima. Ciononostante, il Centro si configurava di fatto come un’area chiusa, delimitata da barriere interne ed esterne, da cui nessuno poteva allontanarsi liberamente e i ricorrenti erano stati di fatto privati della loro libertà, anche alla luce della sua durata e delle condizioni materiali già ritenute contrarie alla CEDU. Poiché questa detenzione non risultava prevista dalla legge o soggetta alla verifica dell’autorità giudiziaria, non era stato notificato ai ricorrenti il motivo di tale trattenimento e, di conseguenza, era stato per loro impossibile ricorrere dinanzi a un giudice per lamentarne l’arbitrarietà, per la Corte vi è stata violazione dell’art. 5, parr. 1, 2 e 4, CEDU. Infine, nel caso dei ricorrenti è venuto meno anche un esame della loro situazione individuale prima di essere allontanati in Tunisia (cfr. Corte EDU, 5.4.2022, A.A. e altri c. Macedonia del Nord, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022; Grande Camera, 13.02.2020, N.D. e N.T. c. Spagna, in questa Rivista, XXII, 2, 2020; Grande Camera, 23.02.2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia, in questa Rivista, XXIV, 1, 2012, p. 104). Lo dimostrano non solo la loro mancata intervista ma, soprattutto, il testo standardizzato degli ordini con cui si negava ai primi due ricorrenti l’ingresso in Italia lo stesso giorno dell’allontanamento e il brevissimo lasso di tempo tra questa notifica e l’effettivo trasferimento in Tunisia tale da rendere vana ogni possibile opposizione. Alla luce di tutto ciò, per la Corte EDU i ricorrenti hanno anche subito un respingimento collettivo in violazione dell’art. 4, Prot. 4.
In B.Y. c. Grecia (Corte EDU, sentenza del 26.01.2023) un cittadino turco, il quale sosteneva di essere entrato nello Stato convenuto per chiedere protezione internazionale senza riuscirvi e poi sequestrato dalla polizia greca per essere consegnato agli agenti anti-terrorismo turchi, lamentava una violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti. Per lo Stato convenuto il ricorrente non era mai stato in Grecia e, pur avendo avviato indagini per chiarire le circostanze del caso, negava qualsiasi responsabilità per i trattamenti cui egli sarebbe stato esposto dopo il suo rientro in Turchia. Dopo aver rigettato le obiezioni del Governo convenuto sul mancato esaurimento dei ricorsi interni in ragione della indisponibilità di un mezzo di ricorso effettivo attraverso cui il ricorrente avrebbe potuto sollevare la presunta violazione della CEDU, la Corte EDU esamina innanzitutto se la Grecia abbia rispettato gli obblighi procedurali derivanti dall’art. 3 CEDU (Corte EDU, 6.10.2022, B.Ṻ. c. Repubblica Ceca, in questa Rivista, XXV, 1, 2023). In effetti, le autorità competenti erano state informate dell’avvenuto trasferimento del ricorrente in Turchia ove avrebbe subito trattamenti vietati da questa stessa disposizione convenzionale. Ne derivava l’obbligo di effettuare indagini che potessero chiarire le circostanze e individuare eventuali responsabili. Tuttavia, se è vero che nell’ambito di un procedimento penale a carico di ignoti erano state condotte alcune indagini, le autorità competenti non avevano approfondito tutti gli elementi a loro disposizione. Ad esempio, nonostante fosse evidente che la targa della macchina utilizzata per il presunto sequestro del ricorrente appartenesse all’unità anti-terrorismo della polizia greca, nessuna azione era stata intrapresa per identificare gli agenti coinvolti nell’operazione o per interrogare i poliziotti potenzialmente interessati dal caso, così come non erano stati ascoltati tutti i potenziali testimoni. Per la Corte EDU, ciò risulta sufficiente per affermare che vi è stata una violazione dell’art. 3 CEDU, letto sotto il profilo procedurale. Al contrario, dal momento che il ricorrente non ha avanzato prove concrete e concordanti per dimostrare di essere stato realmente presente in Grecia all’epoca dei presunti fatti, così da poter invertire l’onere della prova a suo favore e imporre allo Stato convenuto di fornire spiegazioni per l’accaduto, non vi è stata violazione sostanziale dello stesso art. 3 CEDU. Infine, non avendo elementi per ritenere che il ricorrente era stato privato della sua libertà personale mentre si sarebbe trovato in Grecia, non vi è stata neppure una violazione del diritto alla libertà e sicurezza (art. 5 CEDU).
Art. 5: Diritto alla libertà e alla sicurezza
Il caso Minasian e altri c. Repubblica di Moldova (Corte EDU, sentenza del 17.01.2023) riguarda una famiglia di cittadini della Georgia (madre, padre e tre figli) che, attraverso l’Ucraina, era giunta legalmente nello Stato convenuto in cerca di protezione internazionale. In occasione di un successivo tentativo di attraversare, in modo irregolare, il confine con la Romania, ne veniva ordinato l’allontanamento in Ucraina e il contestuale trattenimento in ragione del rischio di fuga. Le decisioni adottate a tal fine dalle autorità competenti e convalidate dai giudici interni non facevano diretta menzione dei minori, se non per affermare che la madre fosse accompagnata dai tre figli. Pur sostenendo la necessità di procedere speditamente con l’esecuzione dell’ordine di allontanamento, le autorità interne non prendevano in considerazione misure meno restrittive della libertà personale. Anche dopo la richiesta di asilo presentata dalla prima ricorrente, la possibilità di essere ospitata in un Centro destinato ai richiedenti asilo e alle loro famiglie veniva esclusa per via della condanna subita per violazione delle norme in materia di immigrazione. Dopo aver accertato positivamente che il ricorso a Strasburgo fosse stato effettivamente presentato anche a nome dei minori ai sensi dell’art. 34 CEDU, la Corte EDU conclude velocemente che la detenzione subita da questi ultimi non può qualificarsi come basata sulla legge ai sensi dell’art. 5, par. 1, lett. f), perché nessun ordine di trattenimento era stato adottato nei loro confronti. In effetti, per quanto tale disposizione convenzionale permetta alle Parti di trattenere coloro che sono in attesa di essere allontanati, i minori erano stati privati della loro libertà solo perché accompagnavano la madre. Secondo la giurisprudenza oramai consolidata della Corte, il trattenimento di minori può avvenire solo in via eccezionale, ossia in assenza di misure meno restrittive in grado di raggiungere lo stesso risultato (ad es., Corte EDU, 3.03.2022, Nikoghosyan e altri c. Polonia, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022; 7.12.2017, S.F. e altri c. Bulgaria, in questa Rivista, XX, 1, 2018), non venendo in rilievo l’eventuale accompagnamento dei genitori come elemento volto a giustificare una restrizione della loro libertà (tra le altre, Corte EDU, 12.07.2016, A.B. e altri c. Francia, in questa Rivista, XIX, 1, 2017). Vi è quindi stata, nei loro confronti, una violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza ai sensi dell’art. 5, par. 1, CEDU. Inoltre, in assenza di una decisione basata su una siffatta valutazione, i minori non hanno neppure potuto esercitare il loro diritto a ricorrere contro l’arbitrarietà della loro detenzione, venendo solo incidentalmente considerati nell’ambito dei ricorsi intentati dalla madre contro il suo trattenimento. Ciò ha dato origine, sempre nei confronti dei soli ricorrenti minori, anche a una violazione dell’art. 5, par. 4, CEDU.
In N.M. c. Belgio (Corte EDU, sentenza del 18.04.2023) un cittadino algerino veniva arrestato nel 2015 per aver partecipato ad attività condotte da un gruppo terroristico in vari Paesi, trattenuto applicando un regime di detenzione riservato a persone fortemente radicalizzate e, infine, rilasciato nel 2017. Subito dopo, le autorità competenti adottavano nei suoi confronti un ordine di allontanamento con contestuale trattenimento in attesa che tale misura venisse attuata. Per varie ragioni, comprese le richieste di asilo presentate dal ricorrente, vari ricorsi pendenti e l’indicazione di misure provvisorie da parte della stessa Corte EDU, non era stato possibile allontanarlo in Algeria. Di conseguenza, il ricorrente rimaneva privato della sua libertà personale, sostanzialmente per ragioni di ordine pubblico e di sicurezza nazionale, da settembre 2017 al marzo 2020, quando veniva trasferito in un Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Il sig. N.M. lamentava pertanto la violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 5, parr. 1 e 4, CEDU) e del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti in ragione delle precarie condizioni di detenzione, non compatibili a suo dire con il suo stato di salute e la sua età avanzata. Tenuto conto che, per l’intero periodo, il trattenimento cui era stato sottoposto il ricorrente aveva lo scopo di permettere alle autorità di organizzare il suo allontanamento, la privazione della sua libertà personale rientra tra i casi previsti dall’art. 5, par. 1, CEDU (v. tra le altre, Corte EDU, Grande Camera, Khlaifia e altri c. Italia, cit.). Per la Corte, se è vero che tale trattenimento era previsto dalla legge, le autorità statali avevano cercato di dare esecuzione al suo trasferimento in Algeria con grande diligenza e, al contempo, avevano verificato periodicamente la continua necessità di privarlo della sua libertà. Inoltre, il ricorrente non presentava particolari vulnerabilità tali da richiedere soluzioni alternative alla detenzione pur costituendo un pericolo per la sicurezza nazionale. Per tutte queste ragioni, secondo la Corte EDU non vi è stata violazione dell’art. 5, par. 1, CEDU nel caso del ricorrente. Non vi è stata nemmeno violazione del diritto a un ricorso per lamentare l’irregolarità della detenzione (art. 5, par. 4), poiché il ricorrente aveva avuto modo a più riprese di far esaminare la necessità del suo trattenimento. Infine, per la Corte le sue condizioni di detenzione non potevano qualificarsi come inumane o degradanti considerato che le autorità competenti avevano verificato periodicamente l’esigenza di mantenerlo in regime di isolamento, al quale era stato inizialmente sottoposto alla luce del suo profilo personale e del suo comportamento aggressivo in prigione, e gli avevano garantito l’accesso a cure mediche adeguate al suo stato di salute. Di conseguenza, non vi è stata alcuna violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti.
Art. 8: Diritto al rispetto della vita privata e familiare
Con il caso Kogan e altri c. Russia (Corte EDU, sentenza del 7.03.2023) una coppia, formata da una cittadina statunitense che aveva lavorato in Russia dal 2009 al 2021 e un cittadino russo, entrambi con professioni nell’ambito della difesa dei diritti umani e dell’assistenza legale alle vittime nei loro ricorsi dinanzi la Corte EDU, lamentava una violazione del diritto al rispetto della vita familiare per aver visto revocato il permesso di soggiorno alla prima ricorrente sulla base di non specificate ragioni di sicurezza nazionale. Qualsiasi richiesta di accesso alle informazioni sulle quali si fondava tale decisione veniva infatti negata. Ritenendo tali informazioni coperte da segreto di Stato, per i giudici interni non era possibile sindacare le decisioni adottate nei confronti della prima ricorrente dalle preposte autorità amministrative, essendo le uniche ad avere competenza sui permessi di soggiorno a cittadini stranieri. Alcuni giudici interni avevano anche verificato la possibile interferenza nel godimento del diritto protetto dall’art. 8 CEDU ma avevano rapidamente concluso che tale interferenza fosse giustificata in quanto, nel caso dei ricorrenti, l’interesse collettivo come definito dalle autorità amministrative doveva prevalere. Dopo aver condannato la mancata cooperazione delle autorità russe, le quali non avevano fornito tutte le informazioni richieste dalla Corte stessa in violazione degli obblighi previsti dall’art. 38 CEDU («Esame in contraddittorio della causa»), la Corte EDU ritiene che i ricorrenti abbiano subito un’interferenza non solo nella loro vita familiare ma anche nella loro vita privata, in ragione delle conseguenze che la revoca del permesso di soggiorno alla prima ricorrente e la conseguenza necessità di trasferirsi all’estero hanno prodotto sulle loro vite professionali. Indipendentemente da ogni esame sulla conformità di tali interferenze alla legge interna e dal perseguimento di uno o più fini previsti dal par. 2 dell’art. 8 CEDU, per la Corte EDU esse non possono ritenersi giustificate in una società democratica perché l’intero procedimento a carico della prima ricorrente non è stato caratterizzato da adeguate garanzie procedurali. Infatti, quest’ultima non ha avuto modo di conoscere le ragioni per cui costituisse un pericolo per la sicurezza nazionale, né i giudici interni le avevano fornito una descrizione, anche di ordine generale, sulle prove fornite dalle autorità amministrative a tal fine. In questo contesto, per la prima ricorrente era impossibile confutare le azioni che le venivano attribuite. Lo Stato convenuto è pertanto andato molto al di là delle restrizioni procedurali che sarebbero permesse in situazioni di espulsione legata alla protezione della sicurezza nazionale (v. Corte EDU, 12.06.2018, Zezev c. Russia; 12.06.2018, Gaspar c. Russia, in questa Rivista, XX, 3, 2018), dando così origine a una violazione dell’art. 8 CEDU. A ciò si aggiunge una violazione dell’art. 18 CEDU («Limite all’applicazione delle restrizioni ai diritti»), letto in combinato con l’art. 8 CEDU, perché la Corte accoglie la tesi dei ricorrenti per i quali la ragione preponderante per l’interferenza subita non riguardava realmente la protezione della sicurezza nazionale, nei termini stabiliti dal par. 2 dell’art. 8 CEDU. Sia le notizie pubblicate nei giornali di Stato sulla revoca del permesso di soggiorno alla prima ricorrente, dalle quali emergeva il forte pregiudizio delle autorità nei confronti suoi e della sua attività professionale, sia gli atti intimidatori subiti dall’organizzazione non governativa alla quale era affiliata, dimostravano come, alla luce delle lacune procedurali già emerse, lo Stato convenuto fosse in realtà mosso da una precisa volontà di punire la coppia per il loro lavoro nell’ambito della promozione e della tutela dei diritti umani ponendovi fine.
In Loukili c. Paesi Bassi (Corte EDU, sentenza dell’11.04.2023) un cittadino del Marocco, residente nello Stato convenuto da più di quaranta anni, subiva la revoca del suo permesso di soggiorno, con contestuale ordine di allontanamento e divieto di re-ingresso per dieci anni, come conseguenza di una serie di condanne per uso e traffico di droga. Contro tale decisione, dinanzi le autorità interne il ricorrente sollevava il rischio di subire, se effettivamente allontanato, un’interferenza ingiustificata nella sua vita familiare tenuto conto che, nei Paesi Bassi, vivevano i due figli nati da una precedente relazione con una cittadina olandese. Tutti i giudici interni che si erano pronunciati sul caso avevano tenuto conto del rischio di una potenziale violazione dell’art. 8 CEDU in caso di allontanamento ma, sulla base di un bilanciamento tra i vari interessi collettivi e individuali in gioco condotto alla luce dei criteri stabiliti dalla stessa Corte EDU (tra le altre, Corte EDU, Grande Camera, 18.10.2006, Üner c. Paesi Bassi; 1.02.2022, Johansen c. Danimarca, in questa Rivista, XXIV, 2, 2022), ritenevano che l’interferenza subita dal sig. Loukili fosse giustificata. La Corte EDU si chiede innanzitutto se il ricorrente avesse effettivamente stabilito una vita familiare con i propri figli meritevole di tutela ex art. 8 CEDU, nel senso della reale esistenza tra loro di legami particolarmente stretti (tra le altre Corte EDU, Grande Camera, 3.10.2014, Jeunesse c. Paesi Bassi, in questa Rivista, XVI, n. 3-4, 2014; 27.09.2022, Otite c. Regno Unito, in questa Rivista, XXV, 1, 2023). A tal fine, la Corte sembra avanzare alcuni dubbi notando, ad esempio, come il ricorrente non avesse mai abitato con i propri figli, dei quali peraltro solo uno era stato legalmente riconosciuto dallo stesso, e non contribuisse al loro sviluppo, avendo vissuto gran parte della loro vita in prigione. Prendendo comunque atto che per le autorità interne il ricorrente avesse stabilito una vita familiare nei Paesi Bassi ai fini dell’art. 8 CEDU, la Corte passa a verificare che l’interferenza subita nel godimento di tale diritto possa dirsi conforme alle condizioni previste dal par. 2 della stessa disposizione convenzionale. In tal senso, la Corte EDU riscontra facilmente come il trattamento riservato al sig. Loukili sia previsto dalla legge e persegua scopi legittimi, quali la prevenzione del crimine e la tutela della sicurezza pubblica. Venendo poi al criterio della necessità in una società democratica, la Corte EDU non rimette in discussione il bilanciamento di interessi già effettuato a livello interno richiamando, in particolare, l’effetto distruttivo che le droghe hanno sulla società e la conseguente gravità dei reati commessi dal ricorrente (cfr. Corte EDU, 24.11.2020, Unuane c. Regno Unito, in questa Rivista, XXIII, 1, 2021). Nonostante quest’ultimo sia un migrante di lungo periodo che ha vissuto gran parte della sua vita nello Stato convenuto e non ha legami specifici con il Marocco, dove può comunque ricollocarsi facilmente quale maschio adulto, esistono «ragioni particolarmente serie» legate alla sua storia criminale e al rischio di continuare a delinquere tali da giustificare un’interferenza nella sua vita familiare. Tenuto anche conto di un divieto di re-ingresso per un periodo tutto sommato limitato, per la Corte l’allontanamento del ricorrente non darebbe dunque origine a una violazione dell’art. 8 CEDU.
Con il caso Kilic c. Austria (Corte EDU, sentenza del 12.01.2023) la Corte Edu esamina il ricorso presentato da una coppia di cittadini turchi di fede musulmana che lamentava la violazione del diritto al rispetto della vita familiare (art. 8) e della libertà di religione (art. 9), la quale sarebbe stata originata dalla decisione delle autorità austriache di non porre fine all’affidamento dei due figli più piccoli e per averli affidati a famiglie che non fossero di origine turca e non professassero l’Islam minandone così la loro identità linguistica, culturale e religiosa. Valutando il caso solamente sotto il profilo dell’art. 8, letto in combinato con l’art. 9 CEDU (in linea con Corte EDU, Grande Camera, 10.12.2021, Abdi Ibrahim c. Norvegia, in questa Rivista, XXV, 1, 2023), la Corte ricorda come ogni affidamento debba, in linea di principio, essere temporaneo e mirare al ricongiungimento con la famiglia di origine, mentre una totale rottura dei rapporti tra minori e famiglia di origine risulta giustificata solo in circostanze eccezionali (v. anche Corte EDU, Grande Camera, 10.09.2009, Strand Lobben e altri c. Norvegia). Posto che il principio guida in questi casi deve essere il preminente interesse dei minori coinvolti, la valutazione da parte delle autorità statali richiede in ogni caso un delicato bilanciamento tra tutti gli interessi in gioco. In tal senso, assume particolare importanza come le autorità statali abbiano raggiunto le loro decisioni e se la famiglia di origine sia stata adeguatamente coinvolta in modo da portare avanzare i loro interessi. Nella specifica situazione dei ricorrenti, tenuto conto che l’affidamento ha certamente prodotto un’interferenza nella loro vita familiare, non vi sono dubbi che siffatta interferenza sia prevista dalla legge e abbia perseguito uno dei fini legittimi previsti dal par. 2 dell’8 CEDU, ossia la protezione dei diritti altrui. Per quanto riguarda la correttezza del bilanciamento di interessi condotto a livello interno, la Corte EDU nota innanzitutto che il caso dei ricorrenti è stato esaminato in tre diversi gradi di giudizio, durante i quali questi ultimi hanno avuto la genuina possibilità di presentare le loro ragioni per porre fine all’affidamento e hanno avuto accesso ai quattro rapporti richiesti dai giudici interni a vari esperti. Inoltre, è proprio sulla base dei riscontri di psicologi e di uno psichiatra che i giudici interni hanno ritenuto opportuno mantenere in affidamento i due figli più piccoli, aventi bisogni specifici, di limitare i contatti con i ricorrenti, specie dopo che il padre aveva cercato di sequestrare uno di essi in occasione di un incontro protetto. In effetti, tenuto conto che ai ricorrenti era stato permesso di avere rapporti regolari con i figli sin dal momento in cui erano stati allontanati dalla loro casa per grave negligenza, gli incontri erano stati limitati solo a causa del comportamento tenuto dagli stessi ricorrenti e delle ripercussioni negative che tali incontri avevano prodotto sul benessere dei due bambini. Infine, proprio per facilitare un possibile ricongiungimento, le autorità interne avevano anche considerato la possibilità di affidare tali minori ai loro familiari più prossimi e, soprattutto, avevano già posto fine all’affidamento degli altri tre figli più grandi nel momento in cui si erano concretizzate le condizioni necessarie per un loro rientro sicuro in famiglia. In relazione alla conservazione dei legami con la lingua, la cultura e la religione della famiglia di origine, la Corte EDU ritiene che la tutela dell’interesse dei minori affidati non si concretizzi unicamente con la loro collocazione in famiglie “omoculturali”, anche se le Parti devono comunque dimostrare di aver fatto il possibile per tutelarne l’identità. Nel caso dei ricorrenti, per quanto lo Stato convenuto avesse in generale tentato di accrescere la diversità etnica e religiosa delle famiglie disponibili per l’affidamento, a Vienna non era disponibile alcuna famiglia turca e/o musulmana in cui collocare i loro due figli più piccoli. Non essendo possibile affidarli ai membri della famiglia, i servizi competenti avevano comunque identificato nuclei familiari particolarmente aperti ad altre culture e religioni tanto che, diversamente da altri casi già esaminati dalla Corte EDU (Corte EDU, Grande Camera, Abdi Ibrahim c. Norvegia, cit.), non vi è stato alcun tentativo da parte loro di indottrinamento cristiano. Inoltre, gli stessi giudici interni avevano evidenziato la necessità che le famiglie affidatarie rispettassero il background culturale e religioso dei figli dei ricorrenti e, se non nei periodi in cui gli esperti si erano pronunciati in senso contrario, avevano garantito ai genitori contatti regolari anche al fine di conservarne le tradizioni (es. possibilità di incontro nel giorno di celebrazione del Bayram). Se si tiene anche conto che erano disponibili corsi di lingua turca gratuiti che i bambini avrebbero potuto frequentare su richiesta, per la Corte EDU l’Austria non è venuta meno ai suoi obblighi positivi decidendo di non ricongiungere i minori con i ricorrenti sulla base di un corretto bilanciamento di tutti gli interessi rilevanti per il caso concreto (cfr. diversamente Corte EDU, 23.06.2020, Omorefe c. Spagna, in questa Rivista, XXII, 3, 2020). Nel loro caso, pertanto, non vi è stata violazione del diritto al rispetto della vita familiare letto alla luce della libertà di religione.
Art. 14: Divieto di discriminazione
Con il caso Szolcsán c. Ungheria (Corte EDU, sentenza del 30.03.2023) si ripresenta alla Corte EDU il problema della segregazione scolastica dei minori di etnia Rom (cfr., tra le più recenti, Corte EDU, 13.12.2022, Elmazova e altri c. Macedonia del Nord, in questa Rivista, XXV, 1, 2023). Nell’anno scolastico 2013/2014, il ricorrente di etnia Rom e con una lieve disabilità si era iscritto nella scuola elementare di Jókai Mór, unica scuola statale del suo distretto di residenza già chiusa in passato perché, per le stesse autorità interne, era diventato un luogo di segregazione razziale con un’offerta formativa qualitativamente molto bassa. Dopo la sua riapertura, la scuola continuava ad essere frequentata soprattutto da alunni di etnia Rom nonostante nel distretto interessato non vivessero un gran numero di persone appartenenti a tale gruppo. Il ricorrente chiedeva di poter frequentare un altro istituto scolastico anche per poter accedere a un’istruzione migliore date le sue difficoltà nell’apprendimento. La sua richiesta veniva rigettata in ragione del fatto che l’istituto alternativo si trovava in un distretto diverso da quello in cui il ricorrente risiedeva e, come poi confermato in sede giudiziaria, non sarebbe stato nel suo preminente interesse viaggiare quotidianamente per raggiungerlo. In ogni caso, per i giudici interni, nella scuola di Jókai Mór non era riscontrabile alcuna forma di segregazione. Per queste ragioni, il ricorrente lamentava dinanzi la Corte EDU la violazione del divieto di discriminazione (art. 14 CEDU, su cui M. Balboni (a cura di), The European Convention on Human Rights and the Principle of Non-Discrimination, Napoli, 2017) nel godimento del suo diritto all’istruzione (art. 2 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU). La Corte EDU rigetta innanzitutto le obiezioni sull’ammissibilità del ricorso sollevate dallo Stato convenuto, in particolare ritenendo che non fosse necessario per il ricorrente intentare gli specifici rimedi interni previsti dalla legislazione in materia di eguaglianza e non discriminazione per soddisfare il requisito del previo esaurimento dei ricorsi interni se la lamentata violazione della CEDU era comunque stata sollevata dinanzi i giudici che si erano pronunciati sulla legittimità della negazione del trasferimento ad altra scuola richiesto dal ricorrente. Dopo aver reiterato la giurisprudenza consolidata in materia, con la quale la Corte aveva già condannato la discriminazione per origine etnica quale grave negazione dei diritti in società democratica basata sul pluralismo e sul rispetto per la diversità culturale e affermato obblighi positivi per le autorità statali (oltre le sentenze già richiamate, v. Corte EDU, Grande Camera, 13.11.2007, D.H. e altri c. Repubblica Ceca; Grande Camera, 16.03.2010, Oršuš e altri c. Croazia), essa evidenzia nuovamente la condizione di vulnerabilità vissuta dal gruppo Rom e la particolare tutela che gli Stati parte della CEDU devono garantire loro sia a livello normativo sia nei casi specifici in cui il problema viene sollevato. Anche per questa ragione, per poter riscontrare un trattamento incompatibile con l’art. 14 CEDU non è necessario identificare un intento discriminatorio se la situazione controversa generi di fatto forme di segregazione scolastica (v. anche, con riferimento all’art. 1, Prot. 12, Corte EDU, 31.05.2022, X e altri c. Albania, in questa Rivista, XXIV, 3, 2022). Nel caso del ricorrente, se è vero che la legge interna non prevede l’accoglimento automatico delle richieste di trasferimento da una scuola a un’altra, è anche vero che le autorità competenti non avevano fornito ragioni appropriate per rigettare la sua richiesta, ossia ragioni che tenessero conto dei dati sull’eccessivo numero di persone di etnia Rom nell’istituto di Jókai Mór. Peraltro, non potendo essere confutati dallo Stato convenuto, tali numeri non erano motivati nemmeno dalla composizione etnica della popolazione residente nel distretto del ricorrente. Posto comunque che una diversa concentrazione di persone di etnia Rom non avrebbe rappresentato per la Corte EDU una giustificazione oggettiva per forme di segregazione scolastica nella scuola del ricorrente, le autorità statali si sarebbero dovute attivare per correggere una situazione che di fatto lo discriminava per la sua origine etnica. Non avendo adottato alcuna misura a tal fine, lo Stato convenuto ha dato origine a una violazione del divieto di discriminazione letto in combinato con l’art. 2 del Primo Protocollo addizionale. Per la Corte EDU, esso deve dunque porvi fine ai sensi dell’art. 46 CEDU, in particolare con l’adozione di una politica contro la segregazione scolastica delle persone di etnia Rom in linea con le rilevanti raccomandazioni elaborate dalla European Commission against Racism and Intolerance (ECRI) (ECRI, Report on Hungary (fifth monitoring cycle), 2015).
In un altro caso riguardante anch’esso ricorrenti di etnia Rom (Corte EDU, M.B. e altri c. Slovacchia (II), sentenza del 7.02.2023), i quali sarebbero stati umiliati e discriminati da agenti di polizia in ragione della loro appartenenza etnica durante il loro trattenimento dopo un presunto furto, la Corte EDU non riscontra la lamentata violazione del divieto di discriminazione, in combinato con il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU), letto sotto il profilo sostanziale. Infatti, nonostante testimonianze video avessero dimostrato come i ricorrenti, all’epoca dei fatti minori, fossero stati costretti da agenti in divisa a denudarsi, schiaffeggiarsi e baciarsi a vicenda in presenza di cani abbaianti senza museruole, con la conseguente esposizione a un trattamento lesivo della loro dignità in violazione del solo art. 3 CEDU (cfr. Corte EDU, 1.12.2020, R.R. e R.D. c. Slovacchia, in questa Rivista, XXIII, 1, 2021), secondo la Corte EDU non si può affermare che le autorità statali fossero mosse da motivi razzisti. In assenza di elementi ulteriori rispetto all’utilizzo di epiteti anti-Rom, la sola denuncia di una presunta discriminazione istituzionalizzata da parte dei ricorrenti e dalla terza parte intervenuta nel caso non risulta sufficiente per poter invertire l’onore della prova a loro favore con la conseguente richiesta allo Stato convenuto di dimostrare che le azioni degli agenti non fossero motivate da razzismo. Tuttavia, avendo già riscontrato una violazione dell’art. 3 CEDU letto sotto il profilo procedurale in ragione della lunga e immotivata durata dei procedimenti interni (oltre dieci anni) per accertare eventuali responsabilità a carico degli agenti di polizia coinvolti nel caso, la Corte EDU nota come i giudici interni non abbiano tentato di accertare se all’origine dei maltrattamenti vi fossero motivi legati all’odio interetnico. Considerando tale inerzia anche alla luce del clima generale di intolleranza contro l’etnia Rom nello Stato convenuto, nel caso dei ricorrenti vi è stata una violazione del divieto di discriminazione, in combinato con il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, letto sotto il profilo procedurale.