Recensioni
Fabio Quassoli, Clandestino: il governo delle migrazioni nell’età contemporanea, Milano, Meltemi editore, 2021
di Dario Melossi
In un libro bello e interessante intitolato “Clandestino”, e sottotitolato “Il governo delle migrazioni nell’Italia contemporanea”, Fabio Quassoli, docente di sociologia presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, ha raccolto, in certo senso, il suo iter di ricerca, a partire dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso.
Quassoli è stato uno dei primi ad occuparsi di queste tematiche in Italia, soprattutto delle tematiche concernenti l’interazione tra le varie “figure” marginali dell’immigrazione – dal migrante economico, allo straniero criminalizzato, allo “sbandato” urbano, al richiedente asilo – e le forme di controllo innanzitutto giuridico-politico ma poi anche socio-economico, che quelle figure hanno potentemente contribuito a costruire, tutte raccolte – propone Quassoli – intorno a quella simbolica del “Clandestino”.
Come peraltro non ci ha mai cessato di ripetere, da decenni ormai, la martellante propaganda di una formazione politica chiamata “Lega”, un tempo fieramente nordista, autonomista e financo secessionista, ma nel tempo inopinatamente convertitasi, sotto la guida del suo immarcescibile leader Matteo Salvini, ad una causa fervidamente nazionalista.
Come si notava, il libro ruota intorno alla attività di ricerca empirica dell’autore, il quale associa, e questa è una caratteristica non così comune nel panorama della sociologia italica, a notevoli doti di ricerca empirica, di taglio soprattutto etnografico-qualitativo, anche una spiccata sensibilità e raffinatezza teorica, delle quali fa mostra qui soprattutto nell’introduzione. Tale idea, quindi, ci sembra particolarmente felice perché permette all’autore di ripercorrere le varie tappe della sua ricerca e, al contempo, dello sviluppo della questione migrante nel contesto italiano, sia dal punto di vista dell’assetto strutturale, sia da quello socioculturale, del nostro paese.
Giustamente l’introduzione esordisce con una disquisizione terminologica sull’oggetto dell’analisi, che è di volta in volta l’emigrante, l’emigrato, il migrante, l’immigrato (p. 13), in un rapporto, parecchio instabile, prima con le fasi dell’entusiasmo per il periodo della globalizzazione incessante e senza confini, e poi, più recentemente, apparendo come una sorta di rimbalzo nefasto e imprevisto della globalizzazione (come già accadde nella prima metà del secolo scorso, dopo la cosiddetta Belle Époque) scandito da crisi economiche, populismi nazionalisti, reazioni autoritarie e naturalmente, come sempre in questi casi, il fantasma sinistro della guerra. I migranti sono quindi, di volta in volta, avventurieri guidati dalla loro Wanderlust, come nei romanzi di Jack London, ricchi turisti ed expats, asylum seekers, rifugiati, o, nell’orribile vernacolo dei cosiddetti “giornali” della destra italiana, il “popolo dei barconi”.
La prospettiva di Quassoli è solidamente costruttivista (p. 22 e ss.), con riferimento, ad es., al benemerito contributo del sociologo algerino Abdelmalek Sayad[1]. È, inoltre, e suscitando il notevole interesse di chi scrive, astutamente multidisciplinare, con un interesse per i contributi della sociologia della devianza e del controllo sociale e della criminologia, specie nei suoi risvolti delle teorie del “labelling”, con riferimento ad autori come Howard Becker, Edwin Lemert, Harold Garfinkel, Ian Hacking, e altri.
La questione centrale che è ben posta nell’introduzione al testo, che si pone l’obiettivo di “ricostruire alcuni snodi del processo di clandestinizzazione dell’immigrazione in Italia” (pp. 40-41), e che mi sembra essere la guida portante dello stesso, è appunto quella della costruzione dello spauracchio del “Clandestino”. L’enfasi di questo aspetto esprime la centralità che ha assunto in Italia il punto di vista che potremmo dire “poliziesco” sulla questione migratoria, quello che mi sembra si possa definire come vero e proprio vizio d’origine specificamente italico su tale questione, e che rispecchia profondamente il carattere autoritario-paternalistico della tradizione statale italiana (carattere che non è affatto contraddittorio ad una “cattolicissima” tradizione d’indulgenza, come innumerevoli critici di minoranza della cultura politico-giuridica italiana hanno avuto modo di commentare sin dai tempi di Cesare Beccaria, se ne rileggano le pagine di Dei delitti sulla “licenza” che è tipica degli “uomini schiavi”[2]). La questione migratoria è stata quindi sin dall’inizio, così come peraltro tanti altri aspetti della vicenda storica italiana, vittima di una “politica della pubblica sicurezza”, invece che di politiche socioeconomiche o culturali, come già un altro pioniere di questi studi, Massimo Pastore, faceva risaltare ormai quasi trent’anni fa[3]. Ecco allora che meglio si comprendono, come denunciato da Quassoli, la mancanza di percorsi formali di ingresso così come la precarietà dei permessi di soggiorno e del loro rinnovo, sino ad arrivare all’abbietta vergogna attuale delle scene al di fuori della Questura della “capitale morale” (o immorale?) della melonianissima Nazione! Una serie complessa di fenomeni si tengono ben stretti quindi l’uno all’altro, la complessità farraginosa e per niente trasparente della legislazione, la centralità dell’attività discrezionale di polizia, la costruzione sia sociale sia politico-giuridica della clandestinità, il conseguente efferato effetto criminogeno, la funzione politica dell’invettiva anti-immigratoria e anti-clandestini e le conseguenti “strette” legislative, in un incessante circolo vizioso che diventa vera e propria macchina per la costruzione di consenso dei partiti politici di centro-destra. Inoltre, nel passato almeno, quando un momento di razionalità irrompeva a disturbare questa sorta di orgia dionisiaca intorno alla costruzione del capro espiatorio del Clandestino e qualche pio utilitarista si accorgeva del fatto che l’incremento demografico italiano si sta avviando verso un ben misero destino, si provava a utilizzare, almeno temporaneamente, lo strumento della c.d. “sanatoria”. Ma tali sussulti di improvvisa e subitanea razionalità sono ormai da tempo scomparsi.
Così, il primo capitolo del testo si svolge all’interno delle Questure, soprattutto del centro-nord e più in particolare della Regione Emilia-Romagna, all’inizio del processo qui esaminato, e all’inizio anche, o quasi, della carriera di ricercatore di Quassoli, nell’ambito di una ricerca svolta all’interno del progetto “Città sicure” della Regione Emilia-Romagna, diretta dall’estensore di queste note e che consisteva essenzialmente in una serie di interviste con funzionari di polizia e magistrati, svolte anche insieme alla compianta Milena Chiodi (p. 47 e ss.). Giustamente il capitolo è intitolato, significativamente, “Kafka in questura”. La polizia opera come ciò che Michael Lipsky[4] ha chiamato una vera e propria “street-level bureaucracy” (p. 47), intenta a redigere liste e pagelle che suddividono i migranti in “buoni” e “cattivi”, a volte su basi etniche, più spesso sulla base del contesto giuridico all’interno del quale l’operatore di polizia incontra il migrante in una ricerca, spesso vana, persino della sua stessa identità!
Il secondo capitolo è invece dedicato all’apparire dei centri di detenzione amministrativa e si basa su di una ricerca che Quassoli portò a termine, nel 2009-2010, con l’aiuto di Adriana Carbonaro, sul famoso, o forse dovremmo dire famigerato, Centro di via Corelli a Milano, prima che fosse chiuso alcuni anni più tardi, anche a causa della continua resistenza dei migranti ivi ristretti. Come anche altri più giovani ricercatori, quali Giuseppe Campesi[5] e Giulia Fabini[6], hanno mostrato recentemente, ciò che spesso è stato definito da certa retorica sociologica, come un fenomeno di “esclusione”, è meglio comprensibile, persino nel caso della detenzione amministrativa, quale fenomeno di “inclusione differenziata” o, più precisamente, “subordinata”. Il più delle volte infatti tale detenzione non prelude affatto alla espulsione del detenuto, che deve essere rilasciato con l’ennesimo foglio di via che gli imporrebbe l’allontanamento dal territorio nazionale. I processi di criminalizzazione dei migranti, dei quali la detenzione amministrativa non è che l’aspetto più estremo, non sono altro quindi che un modo per costringere il migrante ad inserirsi all’interno di un mercato di fatto del lavoro in cui egli finisce per occupare il livello più marginale e subordinato, sia questo all’interno del mercato del lavoro nero o del lavoro tout court illegale (spaccio, prostituzione, ecc.). Quassoli nota fra l’altro la caratteristica altalenante dei massimi legalmente predeterminati dei periodi di detenzione all’interno di tali strutture (pp. 88-89). Se non si trattasse della vita di esseri umani, tale altalenarsi potrebbe dar origine ad un commento mestamente ironico, in quanto l’allungarsi o l’accorciarsi di tali massimi rispecchia inevitabilmente l’orientamento politico del governo del momento e potrebbe persino esser preso a “proxy”, come dicono i sociologi che amano le analisi quantitative, dell’orientamento politico di tale governo, più è lungo tale massimo, più il pendolo si sposta a destra, più è corto più a “sinistra” (ma senza mai annullarsi completamente!). Giustamente Quassoli segnala il carattere di vere e proprie istituzioni totali di tali Centri, spesso ritenuti da coloro che vi sono ristretti peggio delle stesse carceri. Non è un caso che i continui episodi di resistenza alla detenzione che si sono colà sviluppati abbiano portato alla chiusura di molti di questi tra cui anche quello di via Corelli, almeno sino al 2020. Naturalmente, per confermare l’efficacia predittiva del modellino quantitativo appena accennato sopra, si mormora che il governo attuale stia predisponendo le modifiche legislative e amministrative al fine di prolungare il periodo di detenzione massimo in tali Centri e costruirne al tempo stesso di nuovi.
Il terzo capitolo affronta il fenomeno del rapporto tra migrazioni e la cosiddetta “securitizzazione” del problema urbano, basandosi su di una serie di ricerche condotte a Milano intorno al 2010. Sotto la pressione dell’emergere della formazione politica leghista e della (falsa) rappresentazione per cui i sindaci, specie da quando nel 1993 cominciarono ad essere eletti direttamente dalla popolazione, avrebbero un qualche tipo di potere in fatto di sicurezza urbana, anche qui a partire dal pionieristico progetto emiliano-romagnolo di “Città sicure”, in sempre più città si giunse a “ordinanze sindacali” e a “patti locali per la sicurezza urbana”, al fine di “combattere i fenomeni di degrado” nelle nostre città e ristabilire il “decoro”[7] nelle strade cittadine. Spesso i migranti, con ancora una volta la figura al loro interno del “Clandestino” che campeggia, divennero protagonisti di tale narrazione, una narrazione che giunse a tali livelli di assurdità che a un certo punto ci si cominciò a preoccupare della insicurezza “percepita” invece che di quella reale, riconoscendo implicitamente come l’“insicurezza” fosse in gran parte frutto di una costruzione sociale perseguita a fini politici, in quanto tutta questa tematica veniva a costituire uno snodo particolarmente prezioso della egemonia politica della destra, dando vita ad un vero e proprio circolo vizioso della securitizzazione (p. 133). Tant’è che quando, in anni recenti, la preoccupazione dominante e assolutamente realistica, divenne quella per la pandemia legata al Covid, le paure tradizionalmente legate alla criminalità o all’immigrazione quasi si vanificarono (p. 35).
Infine, nel quarto capitolo, dedicato al diritto di asilo, cominciano ad apparire tematiche che riconosciamo come quelle che si agitano ogni giorno nel periodo in cui si scrivono queste note, il periodo del governo “più a destra della storia repubblicana”. Anche sulla base di una ricerca condotta tra il 2012 e il 2014 insieme a Cristina Uboldi[8] (pp. 155-156), basata su interviste con i membri delle Commissioni territoriali incaricate di valutare le domande di protezione internazionale, si esplorano le rotte di coloro che cercano rifugio attraversando il Mediterraneo centrale o viaggiando per mesi con ogni mezzo dal Medioriente o dall’Asia meridionale verso i Balcani, cercando di attraversare l’Italia o, appunto, le zone balcaniche, per raggiungere il cuore dell’Unione Europea oppure il Regno Unito, ove queste persone si aspettano di trovare accoglienza, lavoro, a volte i loro famigliari. Un complesso meccanismo è stato creato dall’Unione Europea e soprattutto dal sistema degli Stati europei, dentro e fuori dell’Unione, per cercare di ostacolarli in tale percorso, sulla base di pregiudizi etnici e razzisti che divennero particolarmente evidenti allo scoppio della guerra in Ucraina quando poche migliaia di richiedenti asilo continuarono ad essere bloccati nelle foreste tra Bielorussia e Polonia allo stesso tempo che milioni di ucraini venivano accolti in Polonia e all’interno della Unione Europea. Quassoli analizza quindi il ruolo del sistema dei visti di Schengen e di apparati di sicurezza quali la stessa Frontex[9], sistema in cui ci si è serviti, ancora una volta, della figura del Clandestino, almeno nel contesto italiano, al fine di rallentare l’accoglienza dei rifugiati, e inserirli in un ruolo (economicamente utile) di inclusione subordinata (pp. 147-148). I confini, quindi, nota Quassoli, ancor più che chiusi sono porosi, una porosità articolata al fine della inclusione subordinata, che alimenta il mercato nero della manodopera marginalizzata e a disposizione della criminalità. Ancora una volta la figura del Clandestino risolve simbolicamente l’impossibile conflitto tra l’immagine del “rifugiato politico” a tutto tondo e quella del “migrante economico” che una cosiddetta Nazione che sta demograficamente vanificandosi non può essere portata a riconoscere (p. 163) poiché, aggiungiamo noi, troppo utile politicamente è lo spauracchio del Clandestino per sacrificarlo sull’altare di ragionamenti di stampo umano e/o razionale.
Le conclusioni, forse troppo brevi, sono riservate al trattamento di fenomeni di costume quali il film di Checco Zalone, Immigrato, e l’episodio di Macerata del quale fu protagonista Luca Traini a proposito del quale episodio Quassoli aveva curato un bel volume insieme a Marcello Maneri[10]. L’interesse e la rilevanza di tali eventi sono indubitabili, tuttavia ci si sarebbe forse aspettati delle riflessioni conclusive che cercassero di portare ad una unità teorica la carrellata di ricerche e momenti della nostra storia nazionale via via affrontati nei quattro capitoli surriferiti, in modo da ricollegarsi alla ricostruzione teorica presentata nell’Introduzione. Il che forse ci sarebbe stato particolarmente utile oggi, quando la tematica del Clandestino riappare violentemente nelle cronache e nelle imprese di un governo che ha forti difficoltà a pronunciare non solo il termine “fascismo”, come da molti notato, ma anche quelli di “xenofobia” e di “razzismo”, una sorta di dislessia concettuale che lavori e ricerche come quelli di Quassoli, cercano di fare del loro meglio per curare. Di ciò gli siamo assai grati.
1. A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano, Cortina, 2002.
2. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. Milano, Feltrinelli, 1991.
3. M. Pastore, Produzione normativa e costruzione sociale della devianza e criminalità tra gli immigrati. Quaderni ISMU. Milano, FrancoAngeli, 1995.
4. M. Lipsky, Street-Level Bureaucracy. Dilemmas of the Individual in Public Services, 30th Anniversary Expanded Edition. New York, Russell Sage Foundation, 2010.
5. G. Campesi, Polizia della frontiera. Frontex e la produzione dello spazio europeo. Roma, DeriveApprodi, 2015.
6. G. Fabini, Polizia e migranti in città. Negoziare il confine nei contesti locali. Roma, Carocci, 2023.
7. T. Pitch, Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza. Roma, Laterza, 2013.
8. F. Quassoli, C. Uboldi, La credibilità del richiedente protezione internazionale tra cultura del sospetto, intuizioni e dilemmi etici. Alcune riflessioni a partire da un’indagine sulle prassi operative delle commissioni territoriali in questa Rivista n. 2.2020, pp. 180-205.
9. G. Campesi, op. cit., supra.
10. M. Maneri e F. Quassoli (a cura di), Un attentato “quasi terroristico”: Macerata 2018, il razzismo e la sfera pubblica al tempo dei social media. Roma, Carocci, 2020.
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