LO STATUS DI RIFUGIATO
Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
Nel periodo in rassegna, molte le decisioni relative al riconoscimento della protezione maggiore in favore di persone straniere, donne o uomini, vittime di tratta degli esseri umani.
La Suprema Corte, con ordinanza n. 16243 dell’8.6.2023 , pronunciandosi sul ricorso proposto da una donna nigeriana, ritenuta vittima di tratta di esseri umani, finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, espressamente richiamando i principi affermati nella sentenza n. 676 del 12.1.2022, sotto il profilo probatorio, ha ribadito che: «al fine di verificare la sussistenza di una condizione di soggezione a tratta a fini di sfruttamento sessuale, poiché alcuni degli elementi caratteristici delle dichiarazioni di chi si trovi in questa situazione sono la contraddittorietà e la frammentazione del contenuto del racconto, anche a causa di una latente condizione di timore, la credibilità della storia (che opera ad un tempo sul piano dell'allegazione e della prova dei fatti) deve essere valutata dal giudice di merito verificando, da un lato, la rappresentazione di una vicenda personale autenticamente riferibile alla richiedente asilo, dall’altro la stretta vicinanza della complessità delle dichiarazioni rese agli elementi distintivi ricorrenti delle vicende di tratta, da valutarsi alla luce dei criteri interpretativi indicati in proposito nelle linee guida elaborate dall’U.N.H.C.R.».
Il Tribunale di Bologna, con decreto dell’8.9.2023 , ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una giovane donna nigeriana vittima di sfruttamento sessuale (nonché di mutilazioni genitali) ed in condizioni di soggezione psicologica. Di particolare interesse la valutazione compiuta dai giudici bolognesi in ordine alla valutazione del rischio che, viene ribadito, va condotta con riferimento al Paese d’origine. L’accurato ed approfondito esame delle fonti di informazione, ha portato il Tribunale a sottolineare come «le donne rimpatriate in Nigeria, salvo il caso in cui abbiano fatto fortuna, sono accolte da atteggiamenti negativi tanto dalla famiglia che dalla comunità di appartenenza; diventano, infatti, oggetto di una vera e propria stigmatizzazione sociale, motivata dal fallimento della loro esperienza migratoria, ancora più esacerbata se rientrano con problemi di salute. Al loro rientro in patria, le donne affrontano anche una situazione di incertezza economica e l’assenza di una rete sociale di riferimento, correlata alla durata della permanenza in Europa, e spesso aggravata dai traumi causati dalle vicissitudini ivi vissute. Inoltre, molte vittime della tratta di esseri umani hanno subito violenze (rapine a mano armata, stupri e/o violenze fisiche) al loro ritorno in patria». Nella decisione in esame, inoltre, proprio alla luce della drammaticità della condizione delle vittime di tratta, è stata fatta applicazione delle ragioni relative alle cosiddette compelling reasons, formulato dall’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati, secondo cui ci sono circostanze nelle quali, per ragioni di straordinaria gravità e nei casi di atroce persecuzione subita o conseguenti durevoli effetti psicologici e traumatici della stessa, la stessa persecuzione passata fonda il presupposto per il riconoscimento della protezione internazionale, ritenuto non ipotizzabile un rientro della ricorrente nel Paese di origine.
Ancora in tema di donne vittime di tratta ai fini di sfruttamento sessuale, si è pronunciato il Tribunale di Messina (in seguito ad una pronuncia con la quale la Corte di cassazione, accogliendo il ricorso proposto dalla ricorrente, aveva rinviato al Tribunale di Messina per provvedere a rinnovare l’accertamento sulla situazione complessiva caratterizzante la Nigeria con riferimento alle donne vittime di tratta nonché sulla valutazione degli atti di violenza subiti dalla richiedente protezione internazionale nel Paese di transito, Libia, al fine di inquadramento della condizione individuale di vulnerabilità) che, con decreto del 20.7.2023 , ha ricondotto i fatti narrati dalla ricorrente al fattore di inclusione relativo al particolare gruppo sociale. Con riferimento al rischio in caso di rimpatrio, il Tribunale ha osservato che il reclutamento forzato o ingannevole di donne per fini di prostituzione integra una forma di violenza legata al genere che sovente costituisce persecuzione. Di conseguenza, ove la persona già vittima di tratta rischi, in caso di rimpatrio, «di essere sottoposta ad atti di grave aggressione alla sua incolumità psicofisica, alla libertà e dignità, fondati sulla appartenenza al genere femminile, e tra essi il rischio di essere nuovamente sottoposta a tratta, o di essere gravemente discriminata dal contesto sociale, o sottoposta a vessazioni per la particolare vulnerabilità conseguente alla tratta, deve concludersi che sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiata».
Il Tribunale di Genova, con decreto dell’11.7.2023 , si è soffermato, in particolare, sul rischio in caso di rimpatrio per una donna nigeriana, vittima di tratta a fini di sfruttamento sessuale e affetta da HIV. Nel provvedimento in esame, viene sottolineato come, alla luce della valutazione positiva di credibilità delle dichiarazioni della ricorrente (sebbene la stessa, dinanzi alla Commissione, non avesse espresso uno specifico timore in merito alla sua condizione di vittima di tratta), debba ritenersi verosimile, in caso di rientro in patria, il pericolo di cadere nuovamente vittima di tratta (c.d. retrafficking) e di essere discriminata e marginalizzata a causa della sua condizione di salute. Le più aggiornate e attendibili fonti di informazione consultate dal Tribunale rivelano che, anche quando l’esperienza della tratta della richiedente fosse ormai conclusa, «la stessa in caso di ritorno nel Paese di origine potrebbe essere esposta a violazioni dei diritti fondamentali, in particolare essere oggetto di stigma e ritorsioni in danno proprio o dei familiari e/o di nuove esperienze di tratta».
L’appartenenza del richiedente (un uomo nigeriano vittima di tratta ai fini di sfruttamento sessuale) ad un particolare gruppo sociale, costituito dalle persone che sono state vittime di tratta, giustifica, ad avviso del Tribunale di Genova – decreto del 22.6.2023 – il riconoscimento della protezione maggiore. In particolare, nella decisione in esame, si osserva che le ex vittime di tratta possono essere considerate come un gruppo di persone che condividono la comune esperienza passata di essere state oggetto di tratta, che può essere considerata una «storia comune che non può essere mutata». L’appartenenza al gruppo sociale può, dunque, ritenersi creata in ragione della propria esperienza di tratta e quindi di persecuzione subita.
Con ordinanza n. 23138 del 31.7.2023 la Suprema Corte ha cassato la decisione della Corte territoriale che, nell’esaminare la domanda volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, proposto da un cittadino nigeriano (fuggito dal Paese d’origine all’età di 15 anni), il quale aveva riferito di essere vittima di tratta, aveva ritenuto che il consenso all’espatrio, da parte del minore costituisse un elemento rilevante per escludere l’esistenza di una vicenda di tratta. Nella decisione in esame, la Suprema Corte ha affermato che il Tribunale, nel valorizzare il consenso prestato dal richiedente, minore di età all’epoca dell’espatrio, al suo trasferimento e sfruttamento lavorativo in Niger aveva omesso di considerare che il consenso della vittima allo sfruttamento è irrilevante in presenza di uno dei mezzi di coercizione previsti nella Direttiva 2011/36/UE, tra i quali figura l’abuso di potere o della posizione di vulnerabilità nella quale si trovava il ricorrente.
Il Tribunale di Bologna, con decreto del 16.6.2023 ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una donna nigeriana, vittima di mutilazioni genitali femminili. I giudici bolognesi, dopo aver ritenuto non credibili le dichiarazioni della ricorrente, nella parte relativa alla fuga dal Paese d’origine in conseguenza della conversione dalla religione cristiana a quella musulmana, ha esaminato quanto riferito dalla stessa in merito alla mutilazione genitale dalla stessa subita prima di partire dal Paese d’origine. In particolare, è stato osservato che il genere (femminile) può essere considerato come una categoria che individua un gruppo sociale, «essendo le donne un chiaro esempio di un sottoinsieme sociale definito da caratteristiche innate ed immutabili, e venendo spesso trattate in modo diverso dagli uomini».
Il particolare gruppo sociale delle persone accumunate da un determinato orientamento sessuale è preso in esame dal Tribunale di Torino che, con decreto del 21.4.2023 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Gambia. I giudici torinesi, all’esito di un approfondito esame delle più aggiornate fonti di informazione, hanno ritenuto che possa ritenersi fondato il timore del ricorrente di essere perseguitato dallo Stato gambiano, dalla famiglia e dalla comunità di appartenenza, senza poter ricevere un’adeguata protezione statale, per motivi legati al proprio orientamento sessuale.
Il Tribunale di Brescia, con decreto del 19.4.2023 si è pronunciato sulla domanda proposta da un cittadino del Gambia, il quale aveva dedotto di aver intrattenuto relazioni omosessuali, sia nel Paese d’origine che in Italia, riferendo altresì di essere attratto da persone transessuali. Con riferimento a tale aspetto, il Tribunale ha affermato che, al di là delle categorie astratte, «si ritiene di dover valorizzare la libertà di esprimere e praticare le proprie preferenze sessuali, che è garantita in Italia, ma non nel Paese di provenienza. In concreto, il ricorrente, in caso di rimpatrio, non potrebbe frequentare né altri uomini né persone transessuali. Si riscontra, dunque, l’esistenza di una discriminazione ai suoi danni, fondata sull’orientamento sessuale e pertanto rilevante ai fini del rifugio». Nella decisione in esame, i giudici bresciani hanno esaminato altresì la questione relativa all’esistenza di cause di esclusione, atteso che dal certificato del casellario giudiziario risultava la commissione di uno dei reati previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a) c.p.p. Compiendo però un vaglio della pericolosità in concreto il Collegio ha ritenuto che, essendo trascorsi ormai molti anni dalla commissione del reato (quasi vent’anni) e non risultando altre condanne a carico del ricorrente, egli non costituisca un pericolo per la sicurezza pubblica.
Il Tribunale di Firenze, con decreto del 3.5.2023 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Bangladesh, vittima di sfruttamento lavorativo, il quale aveva allegato di esser espatriato a causa di una condizione di estrema povertà e precarietà sociale (aggravata drammaticamente dalle continue alluvioni) e di essersi affidato ad una rete di trafficanti. I giudici fiorentini, all’esito delle dichiarazioni del ricorrente e del positivo esito della procedura di referral, dopo un’analitica, attenta ed approfondita disamina delle posizioni UNHCR, EUAA, della dottrina, della normativa nazionale e sovranazionale, delle giurisprudenza e delle fonti d’informazione sul Paese d’origine, considerate le esperienze di tratta subite dal ricorrente e la sua condizioni di estrema vulnerabilità «anche in riferimento alla situazione ambientale del Paese di origine e considerando il cambiamento climatico come fattore di amplificazione di vulnerabilità al fenomeno della tratta di esseri umani» hanno affermato la riconducibilità della fattispecie al particolare gruppo sociale costituito dalle persone che hanno una storia comune a quella delle vittime di tratta finalizzata allo sfruttamento lavorativo.
Anche il Tribunale di Milano, con decreto del 1.8.2023 ha riconosciuto lo status di rifugiato in ragione dell’appartenenza al gruppo sociale delle persone vittime di tratta ai fini di sfruttamento lavorativo. Nel caso portato all’attenzione del Collegio, il ricorrente aveva vissuto come bambino di strada sin dall’età di 12 anni (per aiutare economicamente i genitori), per poi essere stato costretto a lasciare il Bangladesh all’età di 16 anni. Tali elementi hanno portato il Tribunale a valutare la domanda tenendo in considerazione sia le linee guida UNHCR n. 8 (relative alle domande di asilo presentate da minorenni) che la Convenzione sui diritti dei fanciulli.
Il Tribunale di Milano, con decreto del 14.6.2023 , pronunciandosi sulla domanda proposta da un cittadino del Senegal – il quale aveva riferito di aver frequentato la scuola coranica nella quale era stato costretto dal maestro ad elemosinare per strada subendo ripetute violenze ed abusi nel corso dei nove anni vissuti nella madrasa della regione di Kaolack – ha affermato che la figura degli (ex) bambini talibè può essere inquadrata nel «particolare gruppo sociale». Nel caso in esame, il Tribunale, pur ritenendo credibile il racconto del ricorrente, ha escluso la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione maggiore, non rinvenendo alcun rischio in caso di rimpatrio in quanto il ricorrente aveva dichiarato di aver portato, in quella stessa madrasa, i propri figli, così dimostrando di non temere alcun atto persecutorio da parte del maestro né della collettività (nel corso del giudizio era comunque emersa una condizione di sfruttamento lavorativo che ha portato il Collegio a riconoscere la protezione speciale).
Il Tribunale di Firenze, con decreto del 7.5.2023 , si è pronunciato sulla domanda proposta da una persona straniera, nata in Ghana da genitori originari del Burkina Faso, i quali erano emigrati in Ghana prima della nascita del ricorrente, il quale era di fatto privo di un riconoscimento formale della sua nazionalità. Di rilevante interesse quanto affermato dal Collegio in merito alla condizione di apolidia come elemento rilevante ai fini del riconoscimento della protezione maggiore, in quanto riconducibile al particolare gruppo sociale. In particolare, il Tribunale ha osservato che gli apolidi hanno una caratteristica che è tendenzialmente stabile quale è quella dell’assenza di uno status civitatis, e soprattutto vengono percepiti dalla legislazione e dalla comunità ghanese come diversi dalla comunità circostante e per tale ragione vengono limitati nelle loro possibilità di godimento dei più elementari diritti civili e politici. L’accurato ed attento esame delle fonti d’informazione sulla condizione degli apolidi in Ghana ha portato il Tribunale ad affermare che in tale paese agli stessi non viene garantito pieno ed effettivo accesso a diritti fondamentali quali l’assistenza sanitaria, il diritto all’istruzione, il diritto di voto e di partecipazione al processo democratico, diritto di accesso alla giustizia, alla protezione dello Stato e il diritto al lavoro. Sono stati, pertanto, ravvisati i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato.
Religione
Il Tribunale di Brescia, con decreto del 10.1.2023 , ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una cittadina cinese, la quale aveva dichiarato di professare la religione cristiana e di appartenere Chiesa chiamata Zhaohui e al gruppo Hu Han (urlatori). La positiva valutazione di credibilità delle dichiarazioni della ricorrente, anche alla luce delle più aggiornate fonti di informazioni consultate, ha portato il Collegio a ritenere fondato ed attuale il rischio di persecuzione per motivi religiosi e l’impossibilità di poter professare liberamente il proprio credo in ipotesi di rientro in Cina, «ove la semplice appartenenza al culto risulta essere illecito penale con sanzioni incidenti sulla libertà personale».
Opinioni politiche
Il Tribunale di Bologna, con decreto del 19.5.2023 , ha esaminato la domanda spiegata da una cittadina dell’Iran, fuggita dal Paese d’origine per timore di subire le persecuzioni patite dal padre, in ragione dell’opposizione politica dallo stesso manifestata presso l’azienda nella quale svolgeva attività lavorativa – nella stessa data sono stati poi emessi altri due decreti, con i quali il Tribunale ha riconosciuto la protezione maggiore anche alla madre ed al padre della ricorrente. La ricorrente, infatti, aveva riferito che il padre, in Iran, era stato vittima di atti di persecuzione motivati da ragioni politiche, in quanto si era opposto alla vendita/traffico di armi operata dallo Stato a Paesi stranieri tramite la società presso la quale era impiegato. Di particolare interesse quanto osservato dai giudici bolognesi in merito alla situazione di una familiare di una persona perseguitata per opinioni politiche, sulla scorta dei principi affermati dalla Corte di Giustizia nella sentenza della Seconda Sezione della Corte di Giustizia, Ahmedbekova +1 c. Zamestnik predsedatel na Darzhavna agentsia za bezhantsite, del 4 ottobre 2018. In applicazione di tale pronuncia, il Tribunale, valutando la specifica situazione della ricorrente, figlia di un oppositore politico, già arrestato e torturato in quattro occasioni, e il rischio che correrebbe in caso di suo rientro in Iran, ha ritenuto sussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiata. Nella decisione del Tribunale è stata poi specificamente considerata la situazione di palese discriminazione che caratterizza la condizione delle donne in Iran.
Il Tribunale di Milano, con decreto del 23.1.2023 ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino dell’Azerbaijan il quale, dopo aver combattuto nel conflitto del Nagorno Kaarabach, aver preso parte alla fondazione del partito «Fronte del popolo» (nei primi anni novanta), essere stato arrestato e condannato a molti anni di reclusione, era riuscito a fuggire dal Paese d’origine, temendo nuove persecuzioni a causa delle sue opinioni politiche. I giudici meneghini, ribaltando le valutazioni della Commissione territoriale in punto di attualità del rischio, nell’esaminare il requisito del rischio del richiedente di subire nuovi comportamenti persecutori secondo un giudizio prognostico e futuro, hanno ritenuto sussistente tale elemento: le COI consultate in merito al trattamento degli oppositori politici, infatti, hanno rivelato come le proteste organizzate dai partiti politici dell’opposizione, dagli attivisti e dai cittadini comuni ancora oggi non sono tollerate e come l’intervento della polizia durante queste proteste è violento e si traduce in arresti di massa, detenzioni e multe.
Con decreto del 26.9.2023 , il Tribunale di Milano ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino egiziano in ragione del timore di essere nuovamente arrestato a causa della sua attività di avvocato in difesa dei diritti umani, della sua pregressa attività politica nel partito Libertà e Giustizia e per la sua imputata affiliazione ai Fratelli Musulmani. Nella decisione in esame, i giudici meneghini si sono soffermati sulla nozione di opinioni politiche, sottolineando come, ai sensi dell’art. 10, par. 1, lett. d) della Direttiva Qualifiche il termine «opinione politica» debba includere: «un pensiero o una convinzione sulle politiche e sui metodi dello Stato o del partito che controlla lo Stato o una parte sostanziale del suo territorio; un pensiero o una convinzione sulla natura, le politiche e le pratiche di un’entità come uno Stato o un soggetto non statale che esercita poteri analoghi; un pensiero o una convinzione su soggetti non statali nei confronti dei quali lo Stato non può, o non vuole, fornire protezione». La detta definizione ampia consente, ad avviso del Tribunale, di individuare sia opinioni politiche espresse che opinioni politiche imputate. Con riferimento a queste ultime, il Collegio ha precisato che può definirsi opinione politica imputata un’opinione che l’autore non esprime ma che gli viene attribuita: «non è necessario che il richiedente professi davvero o abbia fatto qualcosa per indurre a credere che professi l’opinione politica presunta. È sufficiente che l’autore della persecuzione abbia la percezione che il richiedente professi tale opinione o che gliela attribuisca». Le fonti consultate (dalle quali emerge con chiarezza come attivisti o politici che criticano il regime devono affrontare arresti, dure pene detentive, condanne a morte e altre forme di pressione) hanno poi permesso al Collegio di affermare che in Egitto sussiste una situazione «di sistematica persecuzione da parte dello Stato nei confronti del Fratelli Musulmani che si estende anche a soggetti che non ricoprono posizioni apicali o che non hanno un ruolo particolarmente attivo, comprendendo pertanto anche a coloro che vengono sospettati essere dei sostenitori o di simpatizzare con essi» (come nel caso del ricorrente), così ritenendo sussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione maggiore.
Razza
Il Tribunale di Firenze, con decreto del 30.11.2022 , si è pronunciato sulla domanda di protezione spiegata da un cittadino iraniano di etnia curda. Nella decisione in esame, il Collegio, dopo aver ravvisato una persecuzione da parte del governo iraniano dettata anche da opinioni politiche imputate al ricorrente (per la sua appartenenza alla minoranza curda), si è soffermato sul fattore di inclusione della razza. Ad avviso del Collegio, gli atti di persecuzione legati alle opinioni politiche subiti dal ricorrente appaiono indistricabilmente collegate alla sua appartenenza alla minoranza curda, «che tuttavia sarebbe semplicistico, identificare con una mera etnia». Nella decisione in esame, si osserva come l’art. 8 del d.lgs. 251/2007 chiarisce che il termine «nazionalità» non si riferisce esclusivamente alla cittadinanza, o all’assenza di cittadinanza, ma designa, in particolare, l’appartenenza ad un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, comuni origini geografiche o politiche o la sua affinità con la popolazione di un altro Stato. Premessi tali elementi e sulla base di un approfondito esame delle fonti d’informazione sul Paese d’origine, il Tribunale ha affermato che «nel caso dei curdi non si è di fronte a una mera minoranza o gruppo etnico quanto a una nazione senza stato e ad un popolo ai sensi del diritto internazionale».
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. a) e b)
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 16666 del 13.6.2023 , ha affermato che il rischio effettivo di subire un danno grave, rilevante ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, deve essere considerato in chiave oggettiva, prescindendo dalle ragioni che hanno indotto il richiedente asilo ad emigrare, con riferimento all’attualità, restando irrilevante che detto pericolo sia sorto in un momento successivo alla sua partenza. Nella decisione in esame, la Suprema Corte ha precisato che tale principio trova applicazione anche in presenza di domande reiterate, posto che il fatto nuovo rilevante può consistere anche in una sopravvenuta situazione di conflitto nel Paese d’origine (da accertarsi, in ossequio al dovere di cooperazione istruttoria, anche in presenza di un racconto ritenuto non credibile) che, a prescindere dal riscontro sul rischio individuale, esponga comunque il ricorrente in caso di rimpatrio.
Il Tribunale di Brescia, con decreto del 21.2.2023 , decidendo sulla domanda di un cittadino pakistano che, impossibilitato a far fronte all’ingente debito contratto, in caso di rientro in patria richiederebbe di essere assoggettato ad una forma di schiavitù, ha ritenuto sussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria. Diversamente rispetto a quanto ritenuto dal Tribunale di Firenze e di Milano, nei provvedimenti sopra esaminati, i giudici bresciani hanno escluso che il rischio di essere nuovamente ridotto in schiavitù possa essere ricondotto ai motivi previsti per il riconoscimento dello status di rifugiato ed hanno ravvisato la sussistenza di un rischio di subire un trattamento inumano e degradante, riconoscendo così la protezione sussidiaria.
Il rischio di subire gravi ed inumani trattamenti in carcere, a causa delle condizioni delle prigioni in Tunisia, giustifica, ad avviso del Tribunale di Torino – decreto del 10.5.2023 – il riconoscimento della protezione sussidiaria. Nel caso portato all’attenzione del Collegio il ricorrente, nato e vissuto in una città vicino a Sfax, aveva riferito che, nella sua attività commerciale, aveva dovuto affrontare un momento di difficoltà ed aveva emesso assegni senza provvista, rischiando così di essere arrestato. Il Tribunale, rilevato che le norme del codice di commercio prevedevano una pena detentiva di 5 anni e che le fonti di informazioni consultate rilevano come le condizioni carcerarie delle prigioni tunisine risultino critiche a causa del sovraffollamento, inadeguate, prive di cure mediche, e caratterizzate dalla presenza di abusi fisici e dalla carenza di cibo, ha riconosciuto sussistenti i presupposti di cui all’art 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007.
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. c)
Il Tribunale di Milano, con decreto del 13.6.2023 , nell’esaminare la domanda di protezione spiegata da un cittadino della Colombia, ha affermato che nel dipartimento di Valle del Cauca è presente un «diffuso conflitto armato, tale da mettere a serio repentaglio l’incolumità dei cittadini» ed ha pertanto riconosciuto la protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007.
Il Tribunale di Brescia, con decreto del 19.4.2023 , ha ravvisato la sussistenza di una condizione di violenza indiscriminata ad conflitto armato nello Stato di El Salvador, tale da giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria. Dalle fonti di informazione consultate dal Collegio, infatti, è emerso che in tale stato le bande criminali sono penetrate e si sono consolidate all’interno del Paese, che le loro azioni violente e condotte delinquenziali, oltre a essersi saldamente diffuse in tutto il territorio, sono realizzate con elevata frequenza e che le autorità statuali non riescono a contenere in alcun modo tale fenomeno criminali. Premessi tali elementi, i giudici bresciani hanno ritenuto sussistente una «situazione di “delinquenza radicata”, che ha condotto ad una intensificazione della criminalità e dell’uso/abuso della forza, caratterizzante non solo il conflitto tra bande criminali ma anche quello tra queste ultime e lo Stato salvadoregno» con la conseguenza che «qualsiasi cittadino di El Salvador è una potenziale vittima di tali conflitti interni».
QUESTIONI PROCESSUALI
Sospensione dell’efficacia esecutiva dei provvedimenti emessi nei confronti dei cittadini provenienti da Paesi designati di origine sicura
Con decreto del 13.9.2023 , il Tribunale di Bologna – nell’esaminare l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento che aveva rigettato la domanda di protezione internazionale per manifesta infondatezza, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lettera b-bis) del d.lgs. n. 25 del 2008, a seguito di procedura accelerata (art. 28-bis comma 2 decreto cit.) espletata in quanto il ricorrente proveniva da un Paese designato come di origine sicura dal d.m. del 4 ottobre 2019 e successivo aggiornamento effettuato con il d.m. del 17.3.2023 del Ministero degli affari esteri e della Cooperazione internazionale (il Marocco) – rilevato che la decisione della Commissione territoriale non si era limitata ad una declaratoria di inammissibilità, ma aveva rigettato nel merito la domanda del ricorrente, ha accolto l’istanza cautelare di sospensione.
A medesime conclusioni giunge ancora il Tribunale di Bologna – decreto del 6.7.2023 – con riferimento alla domanda cautelare di sospensione spiegata da una cittadino nigeriano avverso la declaratoria di manifesta infondatezza, osservando come laddove la Commissione territoriale compia un giudizio di non credibilità, la stessa entra nel merito con un provvedimento che, non limitandosi a pronunciare l’inammissibilità della domanda, deve ritenersi automaticamente sospeso in conseguenza della proposizione del ricorso.
Il Tribunale di Bologna, con decreto dell’11.6.2023 ha proposto rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, ex art. 363-bis c.p.c., ponendo alla Corte il seguente quesito: «se in caso di soggetto proveniente da Paese di origine sicuro, il provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza ai sensi dell’art. 28-ter, d.lgs. n. 25/2008 emesso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale senza previa adozione di una regolare procedura accelerata di cui agli artt. 28 e 28-bis d.lgs. n. 25/2008, determinata con provvedimento del presidente in seguito a esame preliminare, tempestivamente comunicato dalla Commissione al richiedente asilo, e con rispetto dei termini prescritti dall’art. 28-bis d.lgs. n. 25/2008, dia luogo o meno a sospensione automatica ai sensi dell’art. 35-bis, terzo comma d.lgs. n. 25/2008». Nel caso portato all’attenzione dei giudici bolognesi il ricorrente, cittadino proveniente da Paese designato di origine sicura, aveva proposto istanza di sospensione del provvedimento di rigetto per manifesta infondatezza, adottato ai sensi dell’art. 28-ter, primo comma, lett. b) del d.lgs. n. 25 del 2008, sostenendo che detta decisione doveva intendersi automaticamente sospesa, atteso che il provvedimento non aveva seguito una corretta procedura accelerata, in quanto l’autorità amministrativa non aveva rispettato i termini previsti dall’art. 28-bis del citato d.lgs. (nella versione ratione temporis applicabile). Nell’ordinanza di rinvio, il Tribunale, rispetto agli effetti della deroga della procedura accelerata per i soggetti provenienti da Paese sicuro, ha dato atto dell’esistenza di tre distinte opzioni esegetiche, due delle quali conducono ad assumere che alla proposizione del ricorso giurisdizionale consegua la sospensione automatica del provvedimento amministrativo (seppure in un caso ritenendo che tale regola si imponga sempre; nell’altro che si imponga solo per i paesi sicuri e le inammissibilità), mentre per un’altra opinione la deroga produce effetti solo in relazione al dimezzamento del termine per impugnare, ma non ai fini della sospensione. Ricostruite con precisione le diverse opzioni interpretative offerte dalla giurisprudenza di merito, il Tribunale ha sottolineato l’esistenza di «un quadro normativo nazionale opaco e spesso frutto di stratificazione di interventi legislativi contraddittori tra loro, e sulle quali forse incide pure la preoccupazione derivante dagli abnormi effetti pratici che nel nostro ordinamento derivano dalla decisione sulla sospensione o meno del provvedimento amministrativo impugnato», ed ha ravvisato la sussistenza di tutti i requisiti previsti dall’art. 363-bis c.p.c., invocando un intervento chiarificatore della Suprema Corte.
Sul tema del rapporto tra regolarità della procedura accelerata adottata ed efficacia sospensiva della proposizione del ricorso, si è pronunciato anche il Tribunale di Firenze, con decreto del 26.7.2023 , adottando una delle tre opzioni interpretative ricordate nel rinvio pregiudiziale sopra esaminato. Nel decreto in esame i giudici fiorentini hanno precisato che il legislatore del d.l. n. 130 del 2020 ha espressamente escluso l’operatività della sospensiva automatica nei casi di provvedimenti adottati nei confronti dei richiedenti provenienti da Paesi designati di origine sicura, nei confronti dei quali sia stata adottata e rispettata la procedura accelerata. Laddove, invece, come nel caso portato all’attenzione del Tribunale, il provvedimento è stato adottato all’esito di una procedura ordinaria, il provvedimento sarà da considerare automaticamente sospeso in conseguenza della proposizione del ricorso, per tutta la durata del procedimento.
A medesime conclusioni giunge anche il Tribunale di Catania – decreto del 20.7.2023 – osservando che laddove la decisione di «manifesta infondatezza» non venga adottata nel rispetto dei termini della procedura accelerata, l’impugnazione del provvedimento, adottato all’esito di una procedura ordinaria, comporta l’operatività della sospensione automatica ex art. 35-bis, comma 3, primo periodo, d.lgs. 25 del 2008.
Con riferimento alle «gravi e circostanziate ragioni», necessarie per sospendere l’efficacia esecutiva del provvedimento di manifesta infondatezza emesso dalla Commissione territoriale nei confronti di un cittadino proveniente da un Paese di origine sicura (per errore materiale indicato nel Bangladesh Paese che, com’è noto, non è inserito dal decreto del 17.3.2023 tra i Paesi di origine sicura), il Tribunale di Venezia, con decreto del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale del 25.5.2023 , ha osservato come la condizioni di grave indigenza nel Paese d’origine e la volontà di integrazione in Italia giustifichino l’accoglimento dell’istanza cautelare.
Sospensione dell’efficacia esecutiva dei provvedimenti emessi per manifesta infondatezza
Su un’istanza di manifesta infondatezza si è pronunciato il Tribunale di Bologna – decreto del 7.9.2023 – ritenendo sussistenti le gravi e circostanziate ragioni «alla luce del fatto che il ricorrente risulta stabilmente inserito, almeno lavorativamente, in Italia ed il suo rimpatrio potrebbe costituire una violazione grave del diritto al rispetto della sua vita privata ex art. 8 CEDU».
Esplicito riferimento all’art. 8 della CEDU è contenuto nel decreto del 28.7.2023 , con il quale il Tribunale di Bari ha sospeso l’efficacia esecutiva del provvedimento di manifesta infondatezza di una domanda reiterata. Nel caso portato all’attenzione del Collegio, gli elementi valutati alla luce della norma richiamata si riferivano all’attività lavorativa svolta dal ricorrente, alla disponibilità di un alloggio in Italia e alla difficile situazione economico sociale del Paese d’origine.
Attuazione del provvedimento cautelare di accoglimento dell’istanza di sospensione
Il Tribunale di Brescia, con decreto del 9.5.2023 , si è pronunciato sul ricorso ex art. 669-duodecies c.p.c, proposto da un cittadino della Nigeria per ottenere la determinazione delle modalità di attuazione della sospensiva concessa dal Tribunale e la condanna della Pubblica amministrazione al rilascio di un titolo di soggiorno. Nella decisione in esame, i giudici bresciani hanno osservato come, in presenza di un provvedimento di sospensione dell’efficacia esecutiva del decreto impugnato adottato ai sensi dell’art. 35-bis, comma 4, d.lgs. 25/2008, l’amministrazione è tenuta al rilascio di un titolo di soggiorno ai fini della regolare permanenza del ricorrente sul territorio nazionale per in tempo necessario allo scrutinio della domanda («al richiedente è rilasciato»). Da tale premessa consegue, ad avviso del Tribunale, che in caso di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato (anche nelle ipotesi di cui al quarto comma del citato art. 35-bis), si configura in capo all’Amministrazione un generale dovere di dare attuazione alla sospensiva attraverso il rilascio di un titolo di soggiorno legittimante la permanenza del richiedente in Italia. È stato inoltre osservato che, «a fronte di tale specifico e ben individuato obbligo di facere, non residua in capo alla pubblica amministrazione resistente alcun margine di discrezionalità, trattandosi di attività interamente vincolata, sicché, una volta concessa la sospensiva ai sensi, indifferentemente, dei commi 3 e 4 dell’art. 35-bis d.lgs. 25/2008, la questura è tenuta sic et simpliciter al rilascio dell’invocato titolo di soggiorno, in ipotesi anche in assenza di una formale richiesta da parte del soggetto interessato». In forza dei predetti argomenti, il Tribunale ha ordinato alla questura competente «di rilasciare …senza dilazione alcuna un titolo di soggiorno che consenta al ricorrente di permanere sul territorio nazionale».
Dovere di cooperazione istruttoria
La Suprema Corte, con ordinanza del 4.8.2023 n. 23883 , richiamando i principi affermati nell’ordinanza n. 676 del 2022, ha affermato che, nel caso in cui una richiedente protezione internazionale alleghi di essere stata trasferita dal Paese di origine con la violenza o con l’inganno, abusando delle sue condizioni di vulnerabilità sociale e familiare, a fini di sfruttamento, il giudice è tenuto a valutare la attendibilità del racconto alla luce delle «Linee guida» sull’identificazione delle vittime di tratta elaborate dall’UNHCR e a darne corretta qualificazione, anche a prescindere dalla esplicita ammissione della richiedente di essere effettivamente impiegata nel meretricio, potendo riconoscersi, in caso di positiva identificazione come vittima di tratta, lo status di rifugiato; a tal fine il giudice è tenuto altresì ad assumere informazioni pertinenti ed aggiornate specifiche sul fenomeno della tratta, riguardato come fenomeno transnazionale e pertanto non solo informazioni relative al Paese di origine ma anche al Paese di transito e a quello di destinazione finale.
Ancora con riferimento al contenuto del dovere di cooperazione del giudice, la Corte di cassazione, con ordinanza del 26.7.2023 n. 22658 , ha preliminarmente ribadito che ove la ricorrente alleghi di aver subito mutilazioni genitali femminili e laddove sia accertato che il fenomeno venga praticato, nel contesto sociale e culturale del Paese di provenienza, per motivi di appartenenza ad un determinato gruppo sociale ai sensi del d.lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 ed 8, possono sussistere i presupposti anche per la concessione dello status di rifugiato. Tanto premesso, la Corte ha affermato che, in tali casi, il Tribunale è tenuto ad accertare la fondatezza del rischio in caso di rimpatrio, anche in relazione ai costumi sociali del Paese d’origine e alla possibilità di ottenere protezione effettiva da parte delle autorità locali. Nella decisione in esame è stato altresì precisato che, in presenza di dichiarazioni incongruenti o contraddittorie della ricorrente, il Tribunale è tenuto a fissare l’audizione dell’interessata e compiere ogni altro incombente istruttorio ritenuto necessario.
La Suprema Corte, in merito al dovere di cooperazione istruttoria che si realizza attraverso l’acquisizione di fonti di informazione (COI) aggiornate e pertinenti, con ordinanza del n. 6964 dell’8.3.2023 ha cassato la decisione della Corte territoriale che, nel rigettare la domanda di protezione spiegata da un cittadino del Pakistan, il quale aveva riferito di essere fuggito dal Paese d’origine per dissidi familiari e per sopravvivere in seguito all’inondazione che aveva distrutto la sua abitazione e provocato ingenti danni alla sua famiglia, si era limitato a consultare le informazioni relative alla condizione di sicurezza del Paese d’origine, senza acquisire informazioni pertinenti in merito alle ragioni climatiche dedotte dal ricorrente (ragioni climatiche che il ricorrente aveva anche provato attraverso la produzioni di COI specifiche).
Disapplicazione del d.m. 17.3.2023 nella parte relativa alla designazione della Tunisia come Paese di origine sicuro
Il Tribunale di Firenze, con decreto del 3.10.2023 – decidendo sul ricorso proposto da un richiedente asilo di origine tunisina, il quale aveva contestato che il proprio Paese di origine fosse qualificabile come “sicuro” senza allegare ragioni specifiche, peculiari, riferibili alla sola sua persona, ma facendo riferimento al mutamento del quadro sociopolitico e sicuritario generale della Tunisia riguardante la generalità delle persone –, all’esito di un attento ed approfondito esame della disciplina europea e nazionale e delle più aggiornate e pertinenti fonti di informazione sul Paese d’origine del ricorrente, ha disapplicato il d.m. del 17.3.2023 che aveva inserito la Tunisia tra i Paesi di origine sicuri.
Nella decisione in esame i giudici fiorentini hanno esaminato la complessa questione relativa al potere/dovere del giudice di sindacare il corretto inserimento di un Paese all’interno della lista. Con riferimento a tale aspetto, è stato sottolineato che, nel rispetto del principio della separazione dei poteri, e della discrezionalità attribuita all’Amministrazione nella valutazione delle fonti qualificate poste alla base dell’inserimento di un Paese nella lista (così come declinati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato), il sindacato del giudice sulla valutazione di sicurezza di un Paese, pur essendo «sempre un sindacato di legalità e non di merito amministrativo, è limitato al riscontro della violazione delle regole procedurali e/o alla presenza di sopravvenienze di fatto (la cui rilevanza è prevista espressamente dalle norme di adozione del decreto in esame) che fanno sorgere l’obbligo di revisione previsto dalle direttive e dalla disciplina nazionale, di cui si è dato conto». Tanto premesso, con riferimento all’inserimento della Tunisia nella lista dei Paesi di origine sicura, il Collegio ha osservato come gli stessi elementi che avevano portato l’Amministrazione a ritenere che la crisi del sistema democratico tunisino non fosse talmente grave da determinare la sua esclusione dalla lista Paesi sicuri (così come risultanti dall’appunto n. 181962 del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, che ha trasmesso le c.d. schede Paese), dovevano esser riconsiderati alla luce di alcuni recentissimi e gravi sviluppi che hanno riguardato proprio alcuni degli elementi valorizzati dall’Amministrazione in sede istruttoria. Gli aggiornamenti relativi a fatti già ritenuti rilevanti dall’Amministrazione ha portato il Tribunale a concludere che gli eventi recentemente verificatisi in Tunisia «rappresentino un “cambiamento significativo nella situazione relativa ai diritti umani in un Paese designato da essi come sicuro” in conseguenza dei quali ed in conformità al diritto sovranazionale sorge l’obbligo dello Stato di riesaminare tempestivamente la situazione nei Paesi terzi designati Paesi di origine sicuri». In conseguenza della disapplicazione («parziale e limitatamente agli effetti processuali») del d.m. del 17.3.2023, concludono i giudici fiorentini, torna ad applicarsi la disciplina ordinaria, con il conseguente effetto sospensivo automatico legato alla proposizione della domanda giudiziale.
AVVERTENZA. Da molti mesi le pronunce della Cassazione sono in fase di oscuramento dei dati sensibili e pertanto verranno allegate alla Rassegna non gli usuali link ma le copie con i nomi omissati.
Sommario: Visti d’ingresso umanitari dall’Afghanistan (procura alle liti non rituale - responsabilità extraterritoriale); Visto d’ingresso umanitario a seguito di respingimento illegittimo (diritto d’ingresso ex art. 10, co. 3 Cost.); Visto d’ingresso umanitario per MSNA riammesso informalmente in Grecia (respingimenti a catena); Visto di reingresso per motivi umanitari (giurisdizione - cause di forza maggiore); Diritto alla formalizzazione della domanda di protezione internazionale; Diritto alla formalizzazione della domanda di protezione speciale;
Il permesso di soggiorno provvisorio nelle more del giudizio di protezione speciale; La ricevuta di domanda di protezione speciale e il codice fiscale; le domande irricevibili; protezione speciale e Regolamento “Dublino”; I presupposti per il riconoscimento della protezione speciale (minore età - vulnerabilità sanitaria - povertà); applicazione dell’art. 5, co. 6 TU d.lgs. 286/98; Diritti civili (risarcimento danni da ritardo nella formalizzazione della domanda d’asilo); L’accoglienza (risarcimento danni da illegittima revoca delle misure di accoglienza; Obblighi informativi del regol. n. 604/2013.
Visto d’ingresso per motivi di asilo o umanitari
L’ingresso in Italia con visti regolari è la grande questione ignorata dallo Stato italiano e non da oggi, ma all’attualità assume un aspetto imprescindibile, poiché disvela l’ipocrisia della politica migratoria in generale e l’inefficacia del complesso dei dispositivi restrittivi messi in campo dall’odierno Esecutivo nel 2023. Fino a ottobre sono stati emanati ben 9 provvedimenti normativi, i quali hanno riguardato modeste riforme al meccanismo del decreto flussi per gli ingressi lavorativi, il tentativo di abrogazione della protezione speciale o umanitaria (resa certamente più complicata), ma soprattutto la materia della protezione internazionale, in cui le modifiche attuate sono tutte dirette alla restrizione dei diritti dei richiedenti asilo, rendendone più insicura la condizione, oltre a perseguire il tentativo (oggettivamente vano) di eseguire effettivamente le espulsioni. In questo scenario, che sotto vari profili suscita profonda preoccupazione, nessuna nuova norma è stata programmata né disposta per consentire il rilascio di visti di ingresso (anche) per richiesta asilo o per motivi umanitari, al fine di evitare che i/le richiedenti asilo abbiano come unica prospettiva di salvezza diventare vittime del traffico di esseri umani e/o affrontare il rischio morte nelle rotte marine o terrestri.
Questo gravissimo e colpevole vuoto legislativo non può certamente trovare soluzione nel sistema giudiziario, ma è importante che proprio in esso si stiano aprendo spiragli e interpretazioni giuridiche in grado di mettere lo Stato di fronte a precise responsabilità, le quali devono/dovrebbero essere assunte a livello generale legislativo per dare finalmente piena e concreta attuazione al diritto fondamentale di cui all’art. 10, co. 3 della Costituzione.
Il Tribunale di Roma si è nuovamente pronunciato sulla questione dei visti d’ingresso per motivi di asilo o umanitari a persone straniere bisognose di protezione, alle quali le Autorità italiane hanno negato il visto d’ingresso rimanendo silenti rispetto alla loro richiesta o negandola formalmente.
Nelle precedenti Rassegne della Rivista del 2022 si è dato conto dell’orientamento non uniforme del Tribunale di Roma sulla questione e in questa si riportano alcune pronunce che precisano a quali condizioni sia non solo possibile ma necessario il rilascio di visti d’ingresso per ragioni umanitarie o, latamente, per asilo, qualora vi sia stata in qualche forma, anche indiretta, una relazione qualificata con lo Stato.
Rimane aperta la questione della giurisdizione laddove non ci sia stata quella relazione qualificata tra lo Stato e la persona straniera, ma è un percorso che dovrà essere affrontato se si vuole davvero attuare completamente l’art. 10, co. 3 Cost., quale diritto all’ingresso per motivi di protezione.
Visti d’ingresso umanitario dall’Afghanistan - procura alle liti non rituale - responsabilità extraterritoriale
Con ordinanza cautelare 8.6.2023, RG. 17732/2023 , il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso d’urgenza proposto da un nucleo familiare afghano, ordinando al Ministero per gli affari esteri il rilascio di visti d’ingresso per motivi umanitari, ai sensi dell’art. 25 regolamento CE n. 810/2009 (c.d. Codice visti) o comunque di «provvedere urgentemente in altro modo ritenuto idoneo a consentire l’immediato ingresso» in Italia. Il caso ha riguardato un nucleo familiare afghano (coniugi e cinque figli minori), di cui un componente, dopo la presa di potere dei talebani nell’agosto 2021, è stato costretto a fuggire in Tagikistan per sottrarsi al rischio di morte, avendo collaborato fattivamente con le forze Nato presenti per anni in Afghanistan e in particolare con il contingente militare italiano e un altro congiunto (il padre) era stato evacuato con il volo umanitario italiano in quel agosto, mentre la moglie e i figli erano rimasti a Kabul, impossibilitati a uscire dal Paese. La richiesta di visti formulata fin dal luglio 2022 ha incontrato il silenzio dell’Ambasciata italiana in Uzbekistan (competente anche per il Tagikistan), determinando la necessità di ricorrere al Tribunale per vedere accertato il diritto all’ingresso per tutti i componenti del nucleo.
Il giudice romano ha esaminato, in primo luogo, la validità della procura alle liti rilasciata non tanto da colui che viveva in Tagikistan (sottoscritta, anche nell’interesse dei figli minori, davanti a notaio in Uzbekistan, tradotta e con Apostille, dunque formalmente idonea) quanto quella rilasciata dalla moglie rimasta a Kabul e autenticata direttamente dall’avvocata a cui era stata conferita mediante ostensione del documento d’identità in collegamento video on-line. Modalità non ortodossa ma che il Tribunale ha ritenuto sufficiente ai fini della proposizione del giudizio, dopo avere preso atto dell’impossibilità per la ricorrente di rilasciare formale procura in Afghanistan stante l’assenza di rappresentanza diplomatica italiana nel Paese e dell’elevatissimo rischio di recarsi in Uzbekistan a causa del divieto del governo talebano di consentire a una donna di circolare liberamente. Legittimazione attiva della ricorrente espressamente riconosciuta in applicazione del principio di «centralità del diritto di agire, tutelato a livello costituzionale dall’art. 24 Cost., nonché della necessità per l’ordinamento di garantirne l’effettivo godimento anche in circostanze che, proprio per la loro eccezionalità, altrimenti lo impedirebbero di fatto». Il Tribunale ha rigettato le eccezioni dell’Avvocatura di Stato – secondo cui è impossibile derogare alle regole ordinarie poiché sottendono l’esigenza di identificare esattamente chi rilascia la procura alle liti – affermando la prevalenza del diritto alla difesa e la garanzia di poterlo concretamente esercitare e sottolineando che il rischio che comunque la ricorrente incontrerà per recarsi in altro Paese a ricevere il visto non è argomento sufficiente per non consentire la deroga perché «l’esposizione al rischio della propria vita – se può difficilmente giustificarsi nella prospettiva di raggiungere la definitiva salvezza […] – certamente non può giustificarsi all’unico fine di un adempimento di certificazione dell’identità, cui può nel caso provvedersi anche successivamente, in sede di regolarizzazione». A tal proposito, il Tribunale richiama anche la recente pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea del 18.4.2023, causa C-1/23 PPU, che, pur relativa al ricongiungimento familiare ma relativa a domanda di visto non richiesto personalmente dalla richiedente, afferma il dovere dello Stato di essere flessibili a fronte di diritti fondamentali, tenendo conto degli ostacoli concreti che possono intervenire per la presentazione personale della domanda di visto e dunque il dovere di consentire eccezioni alle regole ordinarie in modo da non impedire l’esercizio effettivo del diritto fondamentale.
Per le stesse ragioni di diritto il Tribunale ha ritenuto ammissibile la domanda di visto presentata dal ricorrente che vive in Tagikistan non personalmente presso l’Ambasciata italiana in Uzbekistan bensì a mezzo PEC, non potendosi pretendere che si rechi in detto Paese con il rischio di essere rimpatriato in Afghanistan.
Quanto alle condizioni per il rilascio del visto per motivi di asilo o umanitari, il Tribunale affronta principalmente la questione della giurisdizione, ovverosia quando l’autorità giudiziaria sia tenuta ad esaminare detta richiesta qualora non provveda la pubblica amministrazione. Al riguardo la decisone richiama, in premessa, la propria giurisprudenza, quella della Corte europea dei diritti umani e quella della Corte di giustizia, dall’insieme delle quali emerge che la giurisdizione si radica ordinariamente sulla base del principio di territorialità (cioè all’interno dei propri confini territoriali) ma in via eccezionale anche quando lo Stato abbia esercitato un controllo effettivo sulla persona (ratione personae) o sul territorio o parte di esso (ratione loci) e nel contempo richiama anche l’art. 25 regolamento n. 810/2009, che configura un potere discrezionale dello Stato di rilasciare visti per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali. In altri termini, viene ribadito che va dimostrata una relazione qualificata, anche preesistente, tra lo Stato e il richiedente affinché il primo sia responsabile per quella persona e possa pertanto riconoscersi il diritto preteso: «Ove vi sia una spendita di potere in grado di incidere con effetto sulla sfera giuridica del destinatario, lo Stato non può dichiararsi estraneo rispetto alle richieste che gli vengono rivolte (v. ad esempio Corte Edu, Guzelyurtlu e altri c. Cipro e Turchia, ricorso n. 36925/07, sentenza GC 29.1.2019)».
Rapportati quei principi al caso dei ricorrenti – nucleo familiare afghano – il Tribunale ha accertato l’esistenza della relazione qualificata tale da indurre a ritenere sussistente il dovere dello Stato di rilasciare i visti d’ingresso all’intero nucleo familiare. Per uno dei ricorrenti, infatti, è stato dimostrato che, oltre ad avere vissuto sei anni in Italia (dal 2004 al 2010) ove si è laureato, una volta rientrato in Afghanistan ha collaborato con le forze militari italiane sia in Italia che nel suo Paese, al punto da essere stato inserito tra coloro che dovevano essere evacuati nell’agosto 2021 nell’Operazione Aquila Omnia, senza tuttavia riuscire a raggiungere Kabul (poiché si trovava al confine con l’Uzbekistan per tentare di fermare l’avanzata dei talebani). Vero è che il padre del ricorrente (che faceva parte dell’esercito afghano) è stato evacuato in quell’operazione proprio grazie ai contatti del figlio con i militari italiani, come ha riferito una volta arrivato in Italia e ove è stato riconosciuto rifugiato politico. Dunque, secondo il Tribunale di Roma è comprovata la relazione qualificata tra i ricorrenti e lo Stato italiano in quanto «è stato lo stesso Stato italiano a riconoscere la propria responsabilità sulle persone dei ricorrenti, individuandoli come idonei a fare ingresso e ricevere protezione in Italia alla luce del loro stretto legame col Paese» e pertanto «non può negarsi che lo Stato italiano abbia effettivamente usato la propria autorità per esercitare una forma di potere e controllo sulle persone dei ricorrenti, così intensa da poterli sottrarre al rischio per la loro incolumità e trasferirli dal loro Stati di cittadinanza entro il territorio fisico dello Stato italiano», irrilevante che la sua concretizzazione non si sia potuta avverata per motivi indipendenti da tale assunzione di responsabilità. Relazione qualificata con lo Stato italiano che non può, dunque, essere negata per il ricorrente e i familiari rimasti in Afghanistan.
L’ordinanza merita di essere letta anche per le confutazioni delle varie eccezioni sollevate dall’Avvocatura di Stato, ma è indubbio che la sua valenza principale riguarda l’approfondimento dell’ambito di operatività effettiva della giurisdizione dello Stato e dunque del sorgere della responsabilità nei confronti di persone bisognose di tutela sulle quali ha esercitato o esercita un potere o un controllo, oltre all’importantissima parte relativa al conferimento della procura e della richiesta personale di visto in situazioni nelle quali l’esercizio di quei diritti è oggettivamente impossibile.
Ancora il Tribunale di Roma, con ordinanza 14.9.2023 RG. 34336/2023 ha accolto il ricorso d’urgenza presentato da due cittadine afghane, le quali hanno chiesto il rilascio di visti d’ingresso per motivi umanitari, ex art. 25 regol. Ce 810/2009, motivato in ragione del loro essere familiari di cittadini afghani già collaboratori del Ministero di sicurezza afghano (padre e fratello maggiore), evacuati dall’Italia nell’agosto 2021 con l’operazione Aquila Omnia, con ricongiungimento familiare in Italia autorizzato alla madre e ai fratelli minori, dopo che l’intero nucleo familiare (nei confronti del quale era stato emanato dai talebani un ordine di arresto) si era rifugiato in Iran con visti provvisori. La richiesta di visto era stata inoltrata all’Ambasciata italiana in Iran che, tuttavia, aveva risposto invitandole a presentarla attraverso un ente italiano che garantisse loro l’accoglienza in Italia (cd. corridoi umanitari individuali) e a fronte di PEC inviata dei legali non aveva più risposto.
Il Tribunale respinge, preliminarmente, l’eccezione dell’Avvocatura di Stato di inammissibilità del ricorso per essere stata la domanda di visto inoltrata via PEC, posto che era stata la stessa Ambasciata a indicare detta modalità. Nel merito accerta la fondatezza del diritto riscontrando il legame qualificato con l’Italia, e dunque la giurisdizione, non solo perché i fatti (cioè l’evacuazione dei familiari) non sono stati contestati dall’Amministrazione dello Stato, ma anche perché il programma di evacuazione Aquila Omnia comprendeva sia i collaboratori dell’esercito sia i loro familiari, senza distinguere tra minorenni e maggiorenni, irrilevante che in quell’operazione non siano stati inseriti concretamente tutti i familiari. Secondo il Tribunale, infatti, «la programmazione dell’operazione di evacuazione cui fa riferimento l’Amministrazione non fa che rafforzare la dimostrazione di una presa in carico da parte dello Stato italiano delle persone nella precisa situazione delle odierne ricorrenti, e dunque di uno stretto collegamento tra queste ultime e lo stesso Stato.». Legame rafforzato dai visti rilasciati a favore dei familiari ricongiunti secondo le regole ordinarie. Quanto all’eccezione della Difesa dello Stato secondo cui il rilascio dei visti non potrebbe prescindere dai controlli di sicurezza, il giudice romano precisa che non può essere di impedimento in quanto l’art. 25 Codice visti lo consente anche per chi risulta segnalato nel SIS, essendo disposizione di natura eccezionale.
Nell’ordinanza viene confutata l’ulteriore eccezione dello Stato, di rischio “scavalcamento” delle persone in lista d’attesa per i corridoi umanitari, non solo perché non è motivo di per sé impeditivo all’accertamento giudiziale di un diritto fondamentale, ma anche perché «Tale timore può piuttosto essere scongiurato dall’Amministrazione stessa, mediante l’effettiva implementazione dei canali previsti nei confronti di persone nella stessa situazione delle odierne ricorrenti.».
Infine, accertati il concreto rischio delle ricorrenti di rimpatrio dall’Iran all’Afghanistan, la situazione di gravissima insicurezza ivi esistente e lo specifico rischio legato al genere, il Tribunale dichiara il diritto ad accedere sul territorio italiano, con ordine alle amministrazioni di provvedere urgentemente ai sensi dell’art. 25 regol. CE 810/2009 o nel modo che riterranno più idoneo.
Visto d’ingresso umanitario a seguito di respingimento illegittimo - diritto d’ingresso ex art. 10, co. 3 Cost.
Con ordinanza 10.6.2023, RG. 18757/2023 , il Tribunale di Roma ha accolto un ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., proposto da cittadino del Sudan che ha lamentato di essere stato illegittimamente respinto nel Mediterraneo nel luglio 2018, chiedendo conseguentemente il rilascio di un visto d’ingresso per motivi umanitari quale rimedio della violazione subita. Nella imprescindibile ricostruzione degli eventi, secondo la prospettazione del ricorrente il respingimento illegittimo è avvenuto quando, a bordo di un’imbarcazione partita dalla Libia e a rischio di naufragio (poi effettivamente avvenuto), insieme ad altri non è stato soccorso dalla Guardia costiera italiana a cui era stata inoltrata la richiesta di aiuto, poiché detta autorità si è ritenuta incompetente per l’area di soccorso (SAR) chiedendo, invece, l’intervento della Guardia costiera libica, a suo dire competente per l’area marina ove l’imbarcazione si trovava. Autorità libica effettivamente intervenuta, salvando 18 superstiti, ma, dopo altre operazioni di salvataggio di ulteriori naufraghi, la nave è andata in avaria e pertanto le autorità militari italiane di stanza nel porto di Tripoli, a cui la Guardia costiera libica aveva chiesto aiuto, hanno chiesto a una nave mercantile italiana (Asso 29) presente nell’area di soccorrere le persone a bordo della nave libica, dando istruzioni di riportarle in Libia. In quel Paese il ricorrente è stato poi detenuto per alcuni mesi e sottoposto a maltrattamenti, abusi e lavori forzati. Il respingimento illegittimo è stato, dunque, motivato in ragione dell’effettivo coordinamento operato dalle autorità italiane sia prima che dopo il salvataggio dei naufraghi, tra i quali il ricorrente. Secondo la difesa dello Stato, invece, l’operazione di soccorso della Guardia costiera libica era avvenuta in SAR di sua competenza e sarebbero state proprio le autorità libiche a chiedere l’intervento della nave militare italiana, e da questa a nave mercantile italiana, che sarebbe dunque intervenuta solo di ausilio ma coordinata dalle autorità libiche e pertanto senza responsabilità diretta (anche se i naufraghi sono stati portati in Libia su una nave battente bandiera italiana). L’Avvocatura di Stato ha contestato anche l’esistenza della prova che il ricorrente fosse effettivamente uno dei naufraghi e che sia stato riportato in Libia. Questione su cui il Tribunale si pronuncia affermando che, nella sede cautelare, le prove non devono avere gli standard processuali del giudizio di merito e comunque quelle offerte dal ricorrente (tesserino rilasciato da UNHCR e fotografie scattate da detta Agenzia ONU al momento dello sbarco dei naufraghi a Tripoli) sono sufficienti per la legittimazione attiva.
Nel merito della controversia, il Tribunale fa un’accurata analisi degli eventi relativi al lamentato respingimento e dopo avere esaminato le prove fornite in relazione al ruolo delle Autorità italiane nelle operazioni di soccorso (i file audio e la sbobinatura degli stessi acquisiti mediante accesso agli atti dalla Marina militare italiana, la cui trascrizione non è stata contestata) e avere constatato che i naufraghi, e dunque anche il ricorrente, sono stati presi a bordo in acque internazionali dalla nave mercantile italiana Asso 29 (circostanza pacifica) su indicazioni delle Autorità italiane e da essa riportati in Libia, notoriamente porto non sicuro, riconosce la responsabilità italiana in quanto «le azioni di coordinamento compiute dalla Marina militare italiana, in particolare le indicazioni fomite ad Asso 29 per il recupero dei naufraghi ed il successivo trasporto degli stessi verso la Libia, unitamente alla circostanza che gli stessi si trovassero in tale frangente a bordo di una nave battente bandiera italiana, siano tali da configurare la responsabilità dell'Italia, nonché fondare una pretesa al ripristino del diritto violato».
Responsabilità nelle operazioni di soccorso che radica la giurisdizione italiana, e, si precisa nella decisione, anche nel caso in cui, come sostenuto dall’Avvocatura di Stato, le autorità italiane abbiano fornito solo un supporto tecnico e non un coordinamento delle operazioni di salvataggio «non può non osservarsi che l’avvenuto contatto qualificato con lo Stato italiano fosse tale da determinare in ogni caso l'applicabilità delle c.d. “obbligazioni positive” elaborate dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo ai fini della piena tutela dei diritti enunciati nella Convenzione europea, anche rispetto a violazioni dell'art. 3 CEDU commesse da attori privati.». Obbligazioni positive che riguardano il divieto inderogabile di cui all’art. 3 CEDU, che impone agli Stati parte della Convenzione di prevenire trattamenti inumani e degradanti o assoggettamento a torture ai quali possa essere esposta una persona soggetta alla sua giurisdizione, anche qualora tali trattamenti siano imputabili a soggetti privati (CEDU, O’Keeffe c. Irlanda, [GC], 2014, Kurt c. Austria [GC], 2021, X. c. Bulgaria [GC], 2021) e nel caso oggetto di giudizio «il ricorrente e gli altri naufraghi soccorsi su una nave battente bandiera italiana e registrata in Italia, e pertanto all’interno della giurisdizione italiana ai sensi dell’art. 1 della Convenzione cosi come interpretato ripetutamente dalla Corte (v. ex mu/tis Bankovic c. Belgio e altri [GC], 2001, Medvedyev e altri c. Francia [GC], 2010 nonche Hirsi Jamaa e altri c. Italia [GC], 2012).».
Per altro verso il principio di non refoulement e l’obbligo di soccorso in mare, derivante da norme internazionali, sono affermati anche dalla giurisprudenza di Cassazione (Cass. penale nn. 6626/2020 2 15869/2022) e il Tribunale chiarisce che il “luogo sicuro” nel quale i naufraghi devono essere condotti può essere provvisoriamente anche una nave italiana fino allo sbarco a terra in un luogo definitivamente sicuro, non certo la Libia dove sono perpetrati trattamenti vietati inderogabilmente dalla CEDU. Era, pertanto, dovere della Asso 29 portare i naufraghi in Italia e non in Libia, come invece avvenuto realizzando conseguentemente un respingimento illegittimo di persone straniere soggette alla sua giurisdizione, che sussiste anche in acque internazionali e nelle zone extraterritoriali (sentenza Corte EDU G.C. Hirsi e Jama c. Italia del 2012).
Il Tribunale, dunque, accertata «la violazione degli obblighi di non refoulement in capo all’Italia negli eventi intercorsi tra il 30 giugno ed il 2 luglio 2018», ha ritenuto fondato il diritto del ricorrente di ottenere il rilascio di un visto di ingresso sul territorio italiano quale «misura idonea alla tutela del suo diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti, pregiudicato dalla condotta dell’Italia», in applicazione dell’art. 10, co. 3 della Costituzione, inteso anche «come diritto di accedere al territorio dello stato al fine di essere ammesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. sent. n. 25028/2005)», trattandosi di diritto pieno e perfetto rispetto al quale il procedimento non incide sull’insorgenza del diritto (Cass. SU 29460/2019 e Trib. Roma sent. n. 22917/2019 confermata da Corte appello di Roma 11.1.2021).
Precisa, altresì, l’ordinanza che la portata immediatamente precettiva dell’art. 10, co. 3 Cost. e la sua piena attuazione attraverso le tre forme di protezione internazionale (status di rifugio politico, protezione sussidiaria e protezione umanitaria) afferisce «al contenuto del diritto di asilo e non alle condizioni per la presentazione della domanda, quali la necessaria presenza sul territorio nazionale che nella norma costituzionale non è prevista».
Quanto allo strumento utilizzabile per consentire l’ingresso del ricorrente, la decisione richiama l’orientamento non conforme della giurisprudenza sui cd. “corridoi umanitari”, precisando che «non può certo ritenersi, in uno stato di diritto, che la possibilità o meno di utilizzare un istituto previsto dall’ordinamento (il regolamento europeo e normativa di diretta applicazione nell’ordinamento italiano), sebbene non specificamente regolato dalla normativa interna, sia rimesso alla sola discrezionalità della pubblica amministrazione senza che sia possibile alcun sindacato giurisdizionale in merito o alcuna applicazione giurisprudenziale di tale istituto.».
Conclude affermando che sono rimesse all’autorità competente le determinazioni circa le modalità e gli strumenti più idonei per consentire l’ingresso in Italia al ricorrente, tra i quali il visto di cui all’art. 25 regol. CE 810/2009, cd. Codice visti, «fermo restando che dovrà comunque consentire l’immediato ingresso sul territorio italiano del ricorrente medesimo quale richiedente asilo e provvedere a registrare la sua domanda di protezione internazionale.».
Visto d’ingresso umanitario per minore straniero non accompagnato riammesso informalmente in Grecia - respingimenti a catena
Sempre il Tribunale di Roma, con ordinanza cautelare 7.7.2023 RG. 21667/2023 ha accolto il ricorso con cui un minore afghano, solo e richiedente asilo, ha lamentato di essere stato illegittimamente respinto alla frontiera marittima di Brindisi nel marzo 2023 e rinviato informalmente in Grecia (da dove proveniva e ove aveva presentato domanda di asilo), senza alcun provvedimento scritto e motivato e nonostante le segnalazioni della sua condizione, anche minorile, effettuate tempestivamente da operatrice e avvocata ASGI, oltre che da UNHCR, disattese dalla polizia di frontiera. In conseguenza di tale riammissione informale, il ricorrente è stato accolto in Grecia in un Centro per adulti e in condizioni totalmente inadeguate. Il Tribunale ricostruisce nel dettaglio, anche documentalmente, la vicenda e a conclusione accerta plurime violazioni di norme, costituzionali internazionali e nazionali, operate dalla polizia di frontiera con l’informale riammissione, non contestata in fatto dall’Amministrazione dello Stato, che si riteneva però estranea all’accadimento perché la nave era partita per la Grecia prima che la polizia potesse intervenire.
Nell’ordinanza, dopo avere dato atto della persistente prassi di riammissioni informali verso la Grecia, supportate da precise fonti di informazione, si contesta la validità e l’efficacia dell’Accordo di riammissione Italia-Grecia del 1999 perché non ratificato dal Parlamento e pertanto in contrasto con l’art. 80 della Costituzione e che comunque non può mai derogare a leggi italiane o di derivazione europea o internazionali. In particolare, il Tribunale evidenzia che il riaccompagnamento alla frontiera rappresenta, innanzitutto, una limitazione della libertà personale (accertata in fatto nel caso esaminato) che, in quanto tale, deve essere disposta con provvedimento scritto, motivato e convalidato dall’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 13 della Costituzione, come affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 105/2001), oltre che dalla giurisprudenza di merito. Inoltre, l’assenza di un provvedimento formale impugnabile (artt. 2 e 3 legge n. 241/90) impedisce l’esercizio concreto del diritto difesa e a un ricorso effettivo (art. 24 Cost., art. 13 CEDU e art. 47 Carta UE - Corte EDU Abdolkhani e Karmimnia c. Turchia 22.9.2009, causa n. 30471/08). Disposizioni di rango primario, costituzionale e sovranazionale, che non possono essere derogate da un Accordo bilaterale, peraltro non ratificato con legge.
È stata rigettata anche l’eccezione dell’Avvocatura di Stato secondo cui la direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri) consentirebbe la riammissione informale in presenza di un Accordo con lo Stato di rinvio, poiché nessun accordo può violare le norme costituzionali né quelle sovranazionali, oltre al fatto che lo stesso Accordo italo-greco richiama il dovere di rispetto degli Accordi internazionali e della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati.
Ricorda, altresì, il Tribunale che il diritto a un ricorso effettivo e all’esame individuale della propria condizione è strumentale alla garanzia di cui all’art. 3 CEDU, che rappresenta un obbligo assoluto di non respingimento a fronte del rischio concreto di assoggettamento a trattamenti inumani e degradanti (Corte EDU, Hirsi Jama c. Italia 23.2.2012 causa) e non ammette né deroghe né eccezioni (Corte EDU, Chahal c. Regno Unito 77,1996). Nell’ordinanza si precisa che la responsabilità dello Stato parte della Convenzione sussiste anche quando sia consapevole che tali trattamenti siano perpetrati non solo o non tanto nel Paese di primo respingimento ma in uno successivo e definitivo con i cd. respingimenti a catena (Corte EDU Abdolkhani e Karmimnia c. Turchia cit. e Corte EDU G.C. M.S.S. c. Belgio e Grecia 21.1.2011), richiamando sul punto ampia giurisprudenza della Corte di Strasburgo e l’art. 3 regol. n. 604/2013, che, in punto di divieto d respingimento, ha trovato attuazione anche nell’art. 19, commi 1 e 1.1. TU d.lgs. 286/98 (Ca
ss. SU n. 8044/2018).
Nel caso del ricorrente il Tribunale ha, dunque, riconosciuto una precisa responsabilità dello Stato italiano che non ha accertato l’effettiva condizione del minore richiedente asilo rinviandolo informalmente in Grecia (ciò che comunque non può mai avvenire nei riguardi di un minore), in tal modo impedendogli di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale. Conseguentemente ha accertato il suo diritto alla presentazione della domanda di asilo con ordine alle amministrazioni di «consentire il suo immediato ingresso nel territorio dello Stato italiano attraverso lo strumento che sarà ritenuto idoneo, tra cui il visto ex art. 25 regol. n. 810/2009 (cd. Codice visti).
Visto di reingresso per motivi umanitari - giurisdizione - cause di forza maggiore
Il Tribunale di Roma, ordinanza 14.2.2023 RG. 55527/2022 , ha riconosciuto a cittadino del Togo, titolare di permesso di soggiorno umanitario, il diritto al rilascio di un visto di reingresso, dopo che gli era stato negato su parere contrario della questura poiché, recatosi alla fine del 2019 nel suo Paese per ottenere il passaporto (propedeutico alla conversione del titolo di soggiorno in motivi di lavoro), a causa della pandemia da Covid-19 non era rientrato in tempo per chiedere il rinnovo del suo permesso di soggiorno entro 60 gg. dalla sua scadenza (art. 8, co. 3 d.p.r. 394/99). In giudizio è stato accertato che il ricorrente aveva un biglietto aereo di ritorno antecedente la scadenza del suo permesso ma il rientro è stato impedito a causa della nota pandemia e del ritardo nel rilascio del passaporto da parte delle Autorità del suo Paese, circostanze che hanno consentito al Tribunale di ritenere giustificato il ritardo, anche se non rientranti nei casi eccezionali indicati dalla disposizione regolamentare.
Interessante è la parte della pronuncia in cui, preliminarmente, il Tribunale rigetta l’eccezione dell’Avvocatura di Stato, secondo cui la controversia era di competenza del Giudice amministrativo, affermando invece la giurisdizione ordinaria poiché il visto di reingresso ha elementi di connessione con le materie attribuite dal d.l. n. 13/2013 alla competenza delle sezioni specializzate del Tribunale.
Il diritto alla formalizzazione della domanda di protezione internazionale
o di protezione speciale
Continuiamo anche in questo numero della Rivista la pubblicazione delle pronunce che riguardano varie problematiche connesse al diritto alla presentazione della domanda di protezione internazionale o di protezione speciale, che nella prassi ha modalità e tempi incompatibili sia con il diritto in sé che con il giusto procedimento amministrativo.
Le decisioni qui pubblicate si riferiscono, quanto alla protezione speciale, alla disciplina previgente la riforma dell’istituto della protezione speciale attuata con il d.l. n. 20/2023 e dalla sua legge di conversione n. 50/2023, ma assumono rilievo perché afferiscono, per l’appunto, ai tanti ostacoli che la burocrazia questorile frappone, sempre di più, all’acquisizione di uno status giuridico che legittimi la presenza della persona straniera sul territorio nazionale. Mala-organizzazione che riguarda non solo le richieste di primo permesso di soggiorno (per protezione speciale o per protezione internazionale) ma anche le procedure ordinarie di rinnovo, costringendo migliaia di persone a rimanere per mesi e mesi con in mano la sola ricevuta di richiesta permesso o suo rinnovo, con il concreto rischio di perdere il lavoro, di non riuscire a stipulare un contratto di locazione, di aprire conti correnti, di beneficiare delle misure di welfare, in generale di esercitare i diritti sociali sottesi alla titolarità di un permesso.
Disorganizzazione per la quale il nuovo governo in carica dal settembre 2022 non pare voler rimediare, concentrato nella pervicace produzione legislativa finalizzata solo a impedire gli arrivi in Italia e a restringere i diritti dei/delle richiedenti asilo.
La domanda di riconoscimento della protezione internazionale
Il Tribunale di Catania è intervenuto, con due provvedimenti, su una vicenda accaduta nel novembre 2022 quando con decreto 4.11.2022 del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture, era stato autorizzato alla nave umanitaria Humanity 1, che aveva soccorso un gruppo di naufraghi in acque extraterritoriali, l’ingresso e la sosta in acque territoriali italiane limitatamente alle operazioni di assistenza alle persone che versavano in condizioni di emergenza sanitaria. Dopo lo sbarco, a Catania, di un limitato gruppo di naufraghi, altri 144 rimanevano a bordo e 35 di loro avevano manifestato la volontà di chiedere il riconoscimento della protezione internazionale. Ciò nonostante, alla nave Humanity veniva notificato il divieto di sosta in acque territoriali, a cui si opponeva il comandante rifiutandosi di lasciare il porto di Catania prima dello sbarco di tutti i naufraghi. Nel frattempo, 35 naufraghi proponevano ricorso d’urgenza al Tribunale di Catania chiedendo il riconoscimento del diritto alla presentazione della domanda d’asilo davanti alla questura catanese. Nelle more del giudizio le autorità italiane consentivano lo sbarco di tutte le persone soccorse, dopo una valutazione psichiatrica effettuata da un’equipe del Servizio di salute mentale.
In sede giudiziale, con il primo giudizio cautelare – ordinanza 6.2.2023 RG. 14232/2022 – veniva concordemente chiesta la cessazione della materia del contendere, tenuto conto che tutti i naufraghi erano stati fatti sbarcare, ma i ricorrenti chiedevano la condanna delle Amministrazioni dello Stato al pagamento delle spese di giudizio, richiesta accolta dal Tribunale dopo avere accertato la fondatezza della domanda ai fini della soccombenza virtuale (Cass. 24234/2016, n. 1098/2021 e n. 31643/2021).
Interessante è, dunque, la verifica di tale presupposto operato dal Tribunale siciliano, che accerta, l’illegittimità del decreto ministeriale poiché in contrasto con la normativa internazionale sul soccorso in mare, che non distingue il dovere di soccorso in base alle condizioni di salute dei naufraghi (art. 8, capitolo 2 della Convenzione SAR e legge di ratifica n. 147/1989, e considerato che tutti i naufraghi devono essere portati in un luogo sicuro dove esercitare i loro diritti basilari (Cass. pen. n. 6626/2020).
Nell’ordinanza l’illegittimità del decreto ministeriale viene accertata anche in relazione all’impedimento all’esercizio del diritto alla presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, richiamando sul punto le varie disposizioni normative nazionali ed europee (art. 10-ter TU d.lgs. 286/98 - art. 6 d.lgs. 25/2008 - artt. 2 e 4 d.lgs. 142/2015 - art. 6 direttiva 2013/32/UE) «che non consentono alla Pubblica Amministrazione di introdurre divieti o di discriminare, fra i migranti, in forza della ricorrenza di presupposti diversi e che impongono tempi brevi per l’inoltro della domanda e per l’accertamento del diritto alla protezione richiesta, proprio in considerazione della particolare vulnerabilità di chi, soccorso in mare, riesca ad approdare sul territorio di uno dei Paesi membri dell’Unione.». Constatato che i ricorrenti avevano manifestato la volontà di chiedere la protezione internazionale, il Tribunale afferma che sorge l’obbligo per lo Stato di registrare detta domanda, evidenziando anche che la sua violazione confligge con il divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 CEDU e con il divieto di espulsioni collettive di cui all’art. 4 Protocollo n. 4 alla CEDU, per il quale l’Italia è già stata condannata dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU G.C. n. 27765 del 23.2.2012).
La sopra descritta ordinanza è stata impugnata con reclamo dal Ministero dell’interno, dal Ministero della difesa e dal Ministero delle infrastrutture e il Tribunale di Catania, in composizione collegiale, l’ha rigettato con ordinanza 15.6.2023 RG. 2538/2023 . Secondo la difesa dello Stato il ricorso era stato notificato successivamente all’autorizzazione allo sbarco di tutti i naufraghi e il decreto ministeriale era motivato in conformità alle previsioni della Convenzione ONU di Montego Bay sul diritto del mare, che vieta il passaggio non inoffensivo attraverso il mare territoriale, tale essendo stato quello della Humanity 1 che perlustra le acque territoriali libiche e soccorre i naufraghi portandoli in Italia senza alcun coordinamento con le autorità preposte. Il Tribunale, come detto, ha respinto il reclamo affermando che il decreto ministeriale viola l’art. 1, co. 2 secondo periodo del D.L. n. 130/2020 che ritiene inapplicabile il divieto di ingresso e sosta in acque territoriali a fronte di obblighi internazionali in materia di diritto del mare e di quelli previsti dalla Convenzione europea dei diritti umani. Precisa, altresì, il Tribunale che nonostante la nave Humanity 1 abbia comunicato immediatamente ai Centri per il coordinamento per il soccorso marittimo di Malta e dell’Italia le operazioni di soccorso dei naufraghi, non ha ricevuto risposta da alcuno di essi, ciò che confuta la tesi esposta dalla difesa dello Stato e, in ogni caso, i diritto dei ricorrenti, naufraghi, di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale sussiste anche in caso di eventuali comportamenti irregolari dei soggetti che prestano soccorso. Richiamato il percorso argomentativo dell’ordinanza reclamata – che conferma integralmente –, il Tribunale afferma che «non può ritenersi che la mancata assunzione del coordinamento da parte dell’autorità SAR competente (libica o maltese) legittimi le Autorità di uno Stato Parte – che sia stato informato delle operazioni di soccorso quale Stato costiero e richiesto della indicazione del POS – all’adozione di un’autorizzazione allo sbarco dei soli naufraghi in precarie condizioni di salute, con sostanziale, contestuale respingimento degli altri in acque interazionali.».
Precisa, altresì, che «il divieto di sosta in acque territoriali se non per il tempo necessario per l’evacuazione medica appare incompatibile con il principio di effettività dell’accesso alla procedura di asilo e con i corrispondenti obblighi informativi gravanti sull’amministrazione – considerando 26) e 28) e art.8 e 19) della direttiva 2013/32/UE; considerando 21) e art. 5 della Direttiva 2013/33/UE) – alla luce dei quali va interpretata la corrispondente normativa interna in materia di protezione internazionale e diritto di permanere sul territorio dello Stato senza essere trattenuti se non nei casi e modi previsti dalla legge (d.lgs. 25/2008 e d.lgs. 142/2015), non essendo controverso che i naufraghi abbiano ricevuto solo per iniziativa del predetto legale le necessarie informazioni sul loro diritto a richiedere la protezione internazionale.». Trattenimento a bordo della nave che sarebbe stato legittimo, una volta manifestata la volontà di chiedere protezione internazionale, solo a fronte di provvedimento scritto e motivato nei casi e nei modi di cui all’art. 8 direttiva 2013/32/UE e dell’art. 6 d.lgs. 142/2015. Nel caso di specie non adottato.
Rigettato il reclamo, il Tribunale condanna le Amministrazioni dello Stato all’ulteriore pagamento delle spese legali.
In un caso in cui in discussione era il diritto alla formalizzazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, il Tribunale di Roma, con ordinanza 30.8.2023 , prendendo atto che alla richiesta della richiedente asilo del 7 luglio 2023 la questura di Roma ha dato appuntamento per il 4 giugno 2024, afferma che alla manifestazione di volontà di chiedere il riconoscimento della protezione internazionale (art. 2, co. 1 lett. a) d.lgs. 142/2015) deve conseguire l’attivazione del procedimento amministrativo secondo la scansione temporale prevista dalla legge (art. 6 direttiva 2013/32/UE e art. 26 d.lgs. 25/2008). Pur essendo fatto notorio l’enorme afflusso di migranti in Italia e dovendosi dunque guardare «con una ragionevole indulgenza a contenuti ritardi, addebitabili a difficoltà organizzative cui può (magari solo temporaneamente) andare incontro l’amministrazione», in ogni caso «nulla può giustificare un’attesa di circa un anno, specialmente per soggetti evidentemente vulnerabili (una madre e due figli minori). Invero, ricade nel perimetro delle responsabilità dell’amministrazione pubblica dotarsi di risorse (umane e strumentali) sufficienti e di procedure adeguate, al fine di assicurare una gestione almeno ragionevolmente tempestiva (se non rigorosamente rispettosa dei termini di legge), se non altro dei casi che richiedono maggior attenzione, come quello di che trattasi».
La domanda di riconoscimento della protezione speciale
Con ordinanza 17.7.2023 RG. 11030/23 il Tribunale di Torino , in sede di reclamo, ha annullato la decisione con cui il Tribunale in composizione monocratica aveva rigettato il ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., proposto da richiedente il permesso per protezione speciale per ottenere, dopo molteplici vani tentativi, il diritto alla formalizzazione della domanda. Nell’ordinanza il ricorso è stato accolto affermando, in via preliminare, che a fronte della natura di diritto soggettivo va riconosciuto il diritto alla formalizzazione della domanda, in quanto «l’agire della amministrazione pubblica si pone come mera attività materiale, non potendo la stessa rifiutare la presentazione della domanda, al di là di ogni successiva valutazione di merito della medesima.» (Cass. SU n. 599/2005). Anche nel caso della richiesta di permesso per protezione speciale (pacificamente qualificato diritto soggettivo e fondamentale) non vi è alcuna discrezionalità amministrativa «nell’attività di ricezione, formalizzazione e registrazione delle domande, con la conseguenza che si è in presenza di una attività amministrativa vincolata e questo anche alla luce della circostanza per cui la PA competente non è chiamata ad operare alcuna valutazione di merito.». Secondo il Tribunale, pur non potendosi rivendicare il diritto alla formalizzazione immediata della domanda, i suoi tempi debbono rimanere all’interno di un perimetro di ragionevolezza, che non può essere dilatato al punto da impedire di fatto l’esercizio del diritto stesso. Quanto ai pregiudizi per il richiedente, in assenza di formalizzazione, il Tribunale evidenzia il rischio espulsivo ma anche l’impedimento all’esercizio di diritti sociali connessi alla regolarità di soggiorno, tra i quali il diritto al lavoro.
In termini analoghi il medesimo Tribunale, ordinanza 19.7.2023 RG. 11586/2023 , evidenzia l’assenza di discrezionalità amministrativa nella ricezione della domanda di permesso per protezione speciale, non potendo opporre ostacoli all’esercizio del diritto per le modalità della richiesta (ndr: si trattava di domanda inoltrata con kit postale).
Con ordinanza 21.7.2023 il Tribunale di Roma afferma il diritto alla formalizzazione della domanda di permesso per protezione speciale, dopo avere accertato l’inutilità dei vari tentativi da parte del richiedente fin dal giugno 2022 e verificato che solo dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 20/2023 la questura di Roma ha dato un appuntamento per novembre 2023, peraltro per protezione internazionale, mai richiesta dall’interessato. Il Tribunale dichiara, innanzitutto, che la domanda è assoggettata alla disciplina previgente la riforma 2023 (art. 7, co. 2 d.l. n. 20/2023) e censura il comportamento della questura, che, pur già stigmatizzata in varie pronunce del Tribunale per le lunghissime attese per la formalizzazione delle domande, «non ha mai predisposto alcuna misura organizzativa, neppure dopo la fine dell’emergenza da COVID 19, volta a rendere possibile in una situazione dignitosa la formalizzazione delle domande di protezione internazionale o speciale ai sensi dell’allora vigente art. 19, co. 1.2 secondo periodo, con conseguente violazione dell’obbligo di provvedere ai sensi dell’art. 2, comma 1, l. 241/90». Stante, dunque, l’illegittimità del comportamento questorile, il Tribunale ordina alla questura di indicare un appuntamento urgente per la formalizzazione della domanda, che dovrà essere datata giugno 2022 (data del primo tentativo), ordinando «altresì, per l’effetto, di rilasciare un permesso di soggiorno temporaneo in attesa dell’esame della documentazione e della conseguente decisione nel merito».
Il giudice romano, tuttavia, rigetta la domanda di risarcimento del danno poiché, pur incontestabile il comportamento illegittimo della questura, la prova del danno deve essere fornita secondo le regole generali di cui all’art. 2697 c.c. (Cass. n. 25541/2022), «non potendosi esso ritenere in re ipsa.».
Sempre il Tribunale di Roma, con ordinanza 17.9.2023 RG. 25020/2023 ha esaminato l’ennesimo ricorso d’urgenza finalizzato al riconoscimento del diritto a formalizzare la domanda di protezione speciale, dopo che la ricorrente aveva tentato di avere un appuntamento fin dal febbraio 2022, dapprima personalmente e poi a mezzo reiterate PEC del difensore, riscontrate dalla questura solo dopo la riforma di cui al d.l. n. 20/2023 e con avvertimento che la domanda sarebbe stata esaminata secondo la nuova normativa. Il giudice, pur affermando che la domanda presentata via PEC non risponde a una vera formalizzazione della domanda, il suo inoltro manifesta chiaramente la volontà di presentarla e afferisce a un diritto assoluto, che rientra nell’ambito della garanzia di cui all’art. 10, co. 3 della Costituzione. Per questa ragione non possono ammettersi trattamenti differenziati nella procedura, pena la violazione dell’art. 3 Cost. e pertanto la domanda va formalizzata in tempi ragionevoli, come per la protezione internazionale.
Quanto all’avvertimento della questura, secondo cui la domanda sarebbe stata trattata secondo la nuova disciplina modificata dal d.l. n. 20/2023, il Tribunale lo censura radicalmente, richiamando l’art. 7, co. 2 di detto decreto legge, avendo accertato che fin da un anno prima della sua entrata in vigore la ricorrente aveva cercato di formalizzare la domanda senza riuscirci a causa dell’illegittima inerzia della pubblica amministrazione. In conclusione, la manifestazione di volontà di chiedere il riconoscimento della protezione speciale è di per sé sufficiente perché la domanda rientri nella previgente disciplina di cui all’art. 19 TU d.lgs. 286/98.
Il permesso di soggiorno provvisorio nelle more del giudizio di protezione speciale
Con ordinanza 1.8.2023 RG. 15857/2023 il Tribunale di Napoli ha affermato il diritto del ricorrente, avverso diniego di protezione speciale, di ottenere il permesso di soggiorno provvisorio nelle more del giudizio, per assicurare gli effetti del giudizio di merito «in particolare quelle ulteriori utilità traibili dal fascio dei diritti accessori derivanti dal rilascio del permesso di soggiorno definitivo, tra i quali vi è quello allo svolgimento di attività lavorativa, che si giustappone a quello di rimanere sul territorio nazionale». Il Tribunale partenopeo richiama, a fondamento della decisione, l’ordinanza del Tribunale di Bologna 4.2.2023 (in questa Rivista n. 1.2023), di cui riporta ampi stralci, secondo cui la natura del permesso di soggiorno per protezione speciale, nell’attesa della definizione del giudizio, è analoga a quella di richiedente asilo e dunque applicabile in analogia l’art. 4, co. 1 d.lgs. 142/2015, trattandosi in entrambi i casi di tutele che afferiscono al complessivo sistema asilo.
La ricevuta della domanda di protezione speciale e il codice fiscale
Il Tribunale di Lecce, con ordinanza cautelare 24.7.2023 RG. 2232/2023 ha accolto il ricorso d’urgenza proposto da ricorrente avverso il diniego di protezione speciale, al quale la questura aveva rilasciato nelle more del giudizio la ricevuta del permesso di soggiorno priva di attribuzione del codice fiscale, asserendo l’assenza di applicativo ministeriale. In mancanza di codice fiscale il ricorrente lamentava di non potere svolgere attività lavorativa ed esercitare altri diritti civili. Il Tribunale, pur dando atto che a differenza del procedimento di protezione internazionale in quello per protezione speciale non c’è una specifica disciplina, richiama l’unitarietà del sistema costituzionale d’asilo, di cui anche questa tutela fa parte. Secondo l’ordinanza, dunque, «a fronte di tale pacifica comunanza di ratio sottostante alle diverse forme di tutela della persona, è irragionevole ritenere che la questura possa rilasciare il C.F. solo nell’ambito della procedura, più ampia, di richiesta della protezione internazionale, non apparendo tale limitazione sorretta da alcuna motivazione giuridica. Trattasi, infatti, a giudizio del Tribunale, unicamente di un’assenza di coordinamento normativo.». Conseguentemente viene ordinato alla questura il rilascio della ricevuta di permesso di soggiorno munita di codice fiscale.
L’inammissibilità della domanda di protezione speciale e l’assenza di parere della Commissione territoriale
Il Tribunale di Torino, ordinanza 26.4/3.5.2023 RG. 1111/2023 ha riconosciuto la protezione speciale in un caso in cui la questura aveva ritenuto inammissibile la domanda perché trasmessa con kit postale e pertanto non aveva inviato gli atti alla Commissione territoriale per il parere previsto dall’art. 19, co. 1.2. TU d.lgs. 286/98, ratione temporis applicabile.
Il Tribunale ritiene irrilevanti le reciproche eccezioni di violazioni procedurali, perché il giudizio di protezione è giudizio sul rapporto e non sull’atto (Cass. n. 26480/2011; n. 18632/2014; n. 7385/017; Cass. SU n. 29460/2019). Importante è la confutazione della tesi dell’Avvocatura di Stato, che lamentava l’errata presentazione della domanda secondo modalità non conformi all’organizzazione della questura, invocando dunque la giurisdizione amministrativa, con riguardo alla quale il giudice richiama quanto affermato dalla Corte di cassazione n. 9791/2023, ovverosia «la giurisdizione si determina in base alla domanda e, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione (cfr. Cass. SU 31 luglio 2018 n. 20350; Cass. SU 16 maggio 2008 n. 12378)». Nel caso esaminato il ricorrente aveva chiesto il riconoscimento della protezione speciale e dunque, in ragione della sua natura di diritto soggettivo fondamentale, la giurisdizione è senza dubbio quella ordinaria. Nel merito, il ricorso è accolto avendo il ricorrente dimostrato la sua ottima integrazione sociale e lavorativa.
Protezione speciale e pendenza procedimento Dublino (Regol. n. 604/2013)
Il Tribunale di Venezia, ordinanza 5.9.2023 RG. 8008/2022 , ha esaminato il ricorso proposto da richiedente la protezione speciale al quale la questura aveva dichiarato irricevibile la domanda perché pendente una procedura di rinvio “Dublino” (regol. n. 604/2013), secondo quanto affermato dalla circolare del Ministero dell’interno n. 400/B/2021/1^ Div./1^ sez. Il giudice veneziano censura detta irricevibilità affermando che «Nel caso in cui, infatti, nelle more della definizione del procedimento relativo all’individuazione dello Stato UE competente a vagliare la domanda di protezione internazionale, lo straniero “dublinante” abbia maturato un’integrazione sul territorio nazionale, la sua domanda di riconoscimento della protezione speciale non può essere dichiarata tout court irricevibile per il sol fatto che “se uno Stato membro rilascia al richiedente un titolo di soggiorno, gli obblighi previsti all’articolo 18, paragrafo 1, ricadono su detto Sato membro”», trattandosi, infatti, di due procedure diverse e tenuto conto che lo stesso art. 19 Regol. n. 604/2013 consente allo Stato non formalmente competente per la protezione internazionale di rilasciare un permesso di soggiorno ad altro titolo.
Il Tribunale entra nel merito della richiesta del ricorrente di riconoscimento della protezione speciale, accertandone il diritto alla luce del percorso sociale dimostrato in giudizio.
I presupposti per la protezione umanitaria e la protezione speciale
La minore età all’avvio del percorso migratorio
La Corte di cassazione, ordinanza n. 6185/2023 , ha annullato la decisione del Tribunale di merito che aveva negato la protezione umanitaria a richiedente protezione internazionale del Gambia, che ha lasciato il Paese nel 2016 all’età di quindici anni, ha subito violenze nei 7 mesi trascorsi in detenzione in Libia ed è entrato in Italia ancora minorenne nel 2017. La Corte ribadisce, innanzitutto, che il richiedente asilo non ha l’onere di allegare specifiche COI per attivare il dovere istruttorio dell’Autorità giudiziaria «essendo sufficiente l’indicazione del luogo di provenienza nonché delle vicende e delle criticità che attingono alla sua sfera personale (Cass., n. 17185/2020; Cass., n. 6736/2021)». Quanto alla riconoscibilità della tutela complementare, la Cassazione afferma che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, è irrilevante il giudizio di credibilità del narrato e, con riguardo a richiedente asilo entrato in Italia durante la minore età, l’attenzione va posta alla vulnerabilità soggettiva che per un minorenne è ex lege (Cass. n. 22771/2020).
La vulnerabilità sanitaria
Con ordinanza 27831/2023 la Corte di cassazione, ha censurato la sentenza della Corte d’appello di Perugia che aveva negato il riconoscimento della protezione umanitaria a richiedente asilo del Gambia, pur affetto da grave patologia psichica. Secondo la Corte, infatti, non è stato fatto buon uso dei principi espressi in più occasione dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui «ai fini della verifica dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie l’essere affetto da gravi malattie o da disturbi mentali costituisce una condizione di vulnerabilità normativamente tipizzata dall'art. 2, comma 11, lett. h) bis, d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, e impone all'organo giudicante un'attenta e dettagliata disamina dei rischi eventualmente configurabili a carico del ricorrente in caso di rimpatrio (cfr. Cass. 17 luglio 2020, n. 15322)». Pertanto, è dovere dell’Autorità giudiziaria verificare se, data la gravità della condizione sanitaria del richiedente e la necessità di cure urgenti, nel Paese di origine vi sia un sistema sanitario adeguato, richiamando sul punto precedenti giurisprudenziali (Cass. n. 27544/2022, n. 17118/2020 e n 13765/2020).
La povertà
L’ ordinanza n. 15645/2023 della Corte di cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal Ministero dell’interno avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano che aveva riconosciuto a richiedente asilo del Bangladesh la protezione umanitaria valorizzando il percorso di integrazione sociale in Italia che lo affrancava dalla condizione di estrema povertà in cui versava nel suo Paese e dal rischio, in caso di rimpatrio, di essere minacciato dai debitori. Secondo il Ministero la condizione di povertà afferisce a bisogni economici e non di protezione internazionale o complementare. La Corte ricorda, invece, che la povertà (ineliminabile indigenza) può essere un elemento rilevante per il riconoscimento della protezione umanitaria, poiché è una tutela che l’ordinamento (art. 19, commi 1 e 1.1. TU d.lgs. 286/98) appresta per evitare che la persona abbia condizioni di vita al di sotto del nucleo ineliminabile dei diritti umani (Cass. n. 15961/2021, n. 16119/2020).
L’applicazione dell’art. 5, co. 6 TU immigrazione d.lgs. 286/98 - diritto al permesso di soggiorno nelle more del giudizio - condanna al risarcimento in caso di ritardo della PA
Con ordinanza cautelare 2.10.2023 RG. 16073-3/2023 il Tribunale di Roma ha esaminato il caso di ricorrente che, diniegato dalla questura il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, aveva impugnato il provvedimento nella parte in cui era stata omessa la valutazione dei presupposti per l’applicazione dell’art. 5, co. 6 TU d.lgs. 286/98 e dunque per il rilascio di un diverso titolo di soggiorno. Dopo avere ottenuto la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato, la ricorrente (in Italia da venti anni) si era nuovamente rivolta al Tribunale, ex art. 669-duodecies c.p.c., al fine di ottenere nelle more del giudizio un permesso di soggiorno. Pur accolta quest’istanza cautelare, la questura si era espressamente rifiutata di rilasciare il permesso provvisorio perché, a suo dire, non previsto dalla legge, preannunciando l’intenzione di proporre regolamento di giurisdizione per essere di competenza del Tar. Proposto un ulteriore ricorso cautelare, il Tribunale di Roma l’ha accolto ricordando che la protezione speciale fa parte dell’unitario sistema d’asilo di cui all’art. 10, co. 3 della Costituzione, che può essere riconosciuta anche nell’ambito di una procedura di protezione internazionale, dando luogo in tal caso al rilascio di un permesso di soggiorno per richiesta asilo (art. 11 co. 1 lett. a) d.p.r. 394/1999) e «pertanto se la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento di rifiuto non comportasse il rilascio di un permesso di soggiorno per richiesta di asilo, si avrebbero trattamenti differenziati in situazioni sostanzialmente uguali a seconda della procedura prescelta per azionare il proprio diritto, in violazione dell’art 3 della Costituzione, determinandosi una disparità di trattamento del tutto irragionevole.»
Quanto alla giurisdizione ordinaria il Tribunale precisa che oggetto del giudizio non è il provvedimento nella parte in cui il questore ha negato il rinnovo del permesso per lavoro ma in quella in cui si lamenta l’omessa applicazione dell’art. 5, co. 6 TU d.lgs. 286/98, che è di competenza del giudice ordinario.
Interessante la parte dell’ordinanza in cui, dopo avere riconfermato l’ordine di rilascio del permesso provvisorio nelle more del giudizio, «Condanna, ai sensi dell’art 614-bis c.p.c., l’amministrazione resistente in caso di inadempienza al pagamento della somma di € 50,00 in favore dell’altra parte, per ogni giorno di ritardo nell’adempimento dell’ordine di rilascio del suddetto permesso a decorrere dal settimo giorno successivo alla comunicazione del presente provvedimento».
DIRITTI CIVILI
Risarcimento danni da ritardo nella formalizzazione della domanda di protezione internazionale
Un’innovativa pronuncia del Tribunale di Roma, 6.6.2023 RG. 12187/2020 ha condannato al risarcimento dei danni il Ministero dell’interno, a favore di un titolare di status di rifugio politico che, entrato minorenne in Italia nel 2016 in condizioni di forte vulnerabilità, a partire dal gennaio 2018 aveva tentato più volte inutilmente di accedere in questura per chiedere il riconoscimento della protezione internazionale, fino a quando, all’esito di un giudizio cautelare proposto nel 2018, il Tribunale aveva ordinato, nel febbraio 2019, di consentire la formalizzazione di detta domanda, cui era poi conseguito il riconoscimento dello status. Egli ha, dunque, proposto una nuova azione giudiziaria per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa dell’attesa di 14 mesi per la formalizzazione della domanda d’asilo, non avendo potuto in quel lungo periodo esercitare il diritto all’assistenza sanitaria, all’accoglienza e allo svolgimento di attività lavorativa, con il concreto rischio di espulsione stante l’assenza di titolo legittimante il soggiorno.
Il Tribunale afferma, innanzitutto, la giurisdizione ordinaria trattandosi di azione risarcitoria connessa alla condizione giuridica di diritto soggettivo e a natura fondamentale (Cass. SU n. 5059/2017). Quanto al merito dell’azione risarcitoria, provato anche documentalmente e con testimonianze, gli infruttuosi numerosi tentativi di formalizzare la domanda di protezione internazionale, il Tribunale richiama numerose notizie di stampa che in più occasioni hanno denunciato i gravi ritardi della questura (non solo romana) e afferma che «il ritardo con cui l’Amministrazione competente (nella specie la questura di Roma) procede a ricevere le persone che intendono chiedere protezione internazionale – formalizzando la loro domanda nel previsto modello C3 a distanza di mesi dalla manifestazione di volontà, tramite fissazione di appuntamenti molto lontani nel tempo, ovvero, come esattamente esemplificato nel caso di specie, solo dopo che gli interessati abbiano tentato di accedervi senza successo per giorni o addirittura per mesi, tramite attese anche notturne e lunghe file improvvisate, in assenza di qualsiasi preordinato meccanismo di prenotazione o di organizzazione delle convocazioni e in presenza invece di criteri in base ai quali alcuni sono ricevuti e altri allontanati, del tutto discrezionali e non comunicati – si risolve in una pratica illegittima sotto molteplici profili.».
L’accesso alla procedura, infatti, è «momento strumentale essenziale all’esercizio del diritto assoluto, costituzionalmente garantito dall’art. 10, co. 3 della Costituzione» e il procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale, scandito da precise disposizioni di legge, non può avere modalità organizzative tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto (CGUE sent. Evelyn Danqua, C-429/15). Nella pronuncia si censurano anche le modalità organizzative adottate dalla questura di Roma successivamente al caso esaminato (appuntamenti a mesi di distanza), richiamando precedenti del medesimo Tribunale, e, poiché l’attesa di mesi è irragionevole, oltre che in contrasto con il diritto interno e quello internazionale, mancando misure idonee per garantire un effettivo accesso alla procedura asilo, viene riconosciuta da responsabilità da fatto illecito dell’Amministrazione dell’interno. Infatti «La descritta omissione di misure minime – quali la semplice predisposizione di un sistema telematico di prenotazione per l’accesso agli uffici, con la fissazione di appuntamenti vicini nel tempo – è circostanza idonea a configurare l’elemento soggettivo di dolo o colpa richiesto dall’art. 2043 c.c. ai fini del riconoscimento di una responsabilità da fatto illecito: l’inadempimento degli obblighi di diritto internazionale risulta dipendere infatti dal negligente mancato attivarsi dell’Amministrazione per risolvere inefficienze perfettamente prevedibili e non inevitabili.».
Affermata, dunque, la responsabilità dello Stato, il Tribunale esamina la questione della quantificazione del danno, ritenendo che la prova possa essere data presuntivamente quanto al danno non patrimoniale, stimato in via equitativa in € 14.000 (per le privazioni e le sofferenze anche psicologiche nei lunghi mesi di attesa), mentre per il danno patrimoniale viene preso a riferimento l’importo giornaliero del pocket-money riconosciuto ai richiedenti asilo ospiti nel sistema pubblico di accoglienza (€ 2,50 die) e quantificato per tutti i giorni di ritardo nell’accesso alla procedura.
ACCOGLIENZA
Il Tar per la Campania, Napoli, con sentenza n. 4353/2023 ha condannato l’Amministrazione dello Stato al risarcimento dei danni per avere dapprima illegittimamente revocato le misure di accoglienza a richiedente asilo con provvedimento sospeso dal Tar (a cui l’Amministrazione non ha dato esecuzione) e poi definitivamente annullato, senza che la prefettura abbia preso in considerazione tale annullamento. Il Giudice amministrativo ha ritenuto sussistente gli elementi costitutivi dell’illecito dell’Amministrazione innanzitutto perché «Il provvedimento di revoca delle misure di accoglienza è stato, infatti, riconosciuto illegittimo da questo Tar con sentenza passata in giudicato, con la quale, oltre a rilevare il mancato rispetto delle garanzie partecipative, si è ritenuto che la revoca fosse in contrasto con il principio di proporzionalità “poiché il provvedimento di revoca può essere emanato quando la condotta – posta in essere in contrasto con le regole del Centro di accoglienza – risulti ragionevolmente incompatibile con la prosecuzione della permanenza dello straniero, la cui interruzione va considerata l’extrema ratio, andando ad incidere in misura marcata sulle sue esigenze e sulle stesse esigenze della comunità locale, che sarebbe di conseguenza chiamata a risolvere le relative problematiche sociali”. Nella sentenza si è rilevato che dalla documentazione acquisita e non contestata, “il responsabile del Centro ha esposto che il ricorrente ha ripetutamente introdotto nell’edificio alcuni materassi, indumenti vecchi e superalcolici” ma “non ha posto in essere condotte violente nei confronti delle persone, né nei confronti delle cose”.». Quanto alla colpa è stata ravvisata nell’inottemperanza dell’Amministrazione sia alla sospensiva del primo giudizio che a seguito dell’annullamento, senza addurre alcuna giustificazione.
La quantificazione è stata parametrata all’importo del pocket-money (€ 2,50 die) relativamente al danno patrimoniale, mentre il danno non patrimoniale è stata determinato in € 3000, oltre alla condanna dell’Amministrazione al pagamento delle spese legali.
REGOLAMENTO n. 604/2013 (Dublino)
Il Tribunale di Venezia, ordinanza 8.6.2023 RG. 210/2022 ha annullato un provvedimento dell’Unità Dublino, di rinvio di richiedente asilo in Norvegia, accertando la violazione degli obblighi informativi poiché non era stato fornito al richiedente l’opuscolo di cui all’art 4 Regol. n. 604/2013, in violazione anche dei principi contenuti nel Regolamento stesso. Secondo il giudice veneziano «L’assolvimento degli obblighi informativi non può desumersi dalla compilazione del modello C3, che risponde ad una diversa funzione, cioè la registrazione della domanda di protezione internazionale, in esito alla quale viene avviata anche la procedura di determinazione dello Stato membro competente.» e la dicitura generica in calce al modello C3, di consegna dell’opuscolo, non prova che esso sia quello previsto dall’art. 4 e non, invece, quello generale di cui all’art. 10.