A differenza di quanto è avvenuto in precedenza, la presente Rassegna, dedicata al secondo quadrimestre di quest’anno (maggio-agosto 2023), intende privilegiare soprattutto le pronunce della c.d. autorità giudiziaria ordinaria sia in quanto la giurisprudenza che ne emerge rivela aspetti nuovi e di interesse sia perché quella amministrativa non si discosta dal consueto filone sull’ampio potere discrezionale del Ministero dell’interno nel valutare le richieste di cittadinanza degli interessati. Di quest’ultima perciò si dà conto solo per evidenziare una sentenza che censura un cattivo uso di tale potere a proposito appunto del procedimento di naturalizzazione. Viceversa, sul versante dell’acquisto della cittadinanza per discendenza o ancora per elezione o matrimonio sono state emesse decisioni che talvolta contengono elementi di novità.
Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano
a) Cittadini emigrati in Brasile e destinatari dei provvedimenti di naturalizzazione collettiva emessi dall’autorità di quello Stato nel 1889. Attestazione della mancata rinuncia da parte dell’autorità consolare all’estero. Principio di non contestazione ex art. 115 c.p.c. Impossibilità del Ministero dell’interno di ottenere direttamente tale certificazione; effetti. b) Auspicabilità di procedimenti unicamente per via amministrativa. c-d) Costituzione in giudizio del Ministero e mancata opposizione alle ragioni degli attori. e) Irrilevanza di una semplice dichiarazione della ascendente al momento della celebrazione del matrimonio circa il possesso della cittadinanza straniera. Irrilevanza del mancato riconoscimento in Italia di un atto pubblico di adozione redatto all’estero ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana. f) Certificazione anagrafica ai fini del permesso di soggiorno per attesa cittadinanza; requisiti. g) Esclusione del dovere di trascrizione immediata della pronuncia di accertamento della cittadinanza. h) Perdita della cittadinanza da parte dell’ascendente durante la minore età del figlio convivente e conseguente perdita anche da parte di quest’ultimo.
Continua inarrestabile il filone di richieste al giudice ordinario volte al riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano, motivate da un rifiuto dell’ufficiale di stato civile italiano a compiere l’attività di ricognizione dei documenti sottostante; tale rifiuto è a sua volta giustificato dalla carenza delle competenze e dei mezzi istruttori necessari per verificare la validità delle allegazioni fornite dalle parti interessate. Occorre d’altra parte notare che il Ministero dell’interno, convenuto in giudizio, non sempre interviene e ne viene così accertata la contumacia.
Tale non è stato il caso in occasione di due controversie decise dal Tribunale di Brescia riguardo ad usuali plurime ma connesse domande di accertamento della discendenza presentate da cittadini brasiliani. Questa volta infatti il Ministero si è costituito in giudizio e ha chiesto l’accertamento di eventuali cause estintive della cittadinanza italiana rilevando la necessità di vagliare in sede giudiziale la mancata rinuncia alla cittadinanza italiana da parte dei medesimi e di tutti i loro ascendenti secondo le disposizioni che si sono succedute nel tempo (l. n. 91/92, l. n. 555/1912 e, prima ancora, le preleggi al c.c. del 1865), «laddove [nel procedimento amministrativo] unicamente l’Autorità consolare, titolata a interloquire con le competenti autorità locali, è effettivamente in grado di svolgere tali verifiche».
Da parte sua, il giudice di Brescia non può che preliminarmente richiamare le sentenze costituzionali n. 87/1975 e n. 30/1983 che hanno per così dire permesso la trasmissione ai figli dello status civitatis italiano anche da parte delle (ex) cittadine che si erano maritate con un cittadino brasiliano perdendo all’epoca la cittadinanza originaria. Si tratta di un percorso interpretativo ampiamente riportato in tutte le precedenti Rassegne. Meno usuale in quanto oggetto di più recente attenzione da parte appunto del Ministero era la domanda di quest’ultimo circa la eventuale rinuncia degli avi alla cittadinanza italiana a seguito della c.d. Grande Naturalizzazione brasiliana del 1899, ovvero del decreto con il quale a tutti gli stranieri residenti all’epoca in Brasile sarebbe stata imposta la naturalizzazione automatica brasiliana, a meno che avessero manifestato entro sei mesi, dinanzi ai propri Consolati, la volontà di conservare la cittadinanza italiana. A tale proposito, giova ricordare – come ha fatto del resto anche il Tribunale bresciano – che è intervenuta sul punto la Corte di cassazione a Sezioni Unite (sent. n. 25318/2022, in questa Rassegna, fasc. 3/2022) la quale ha perentoriamente escluso in linea generale il verificarsi di tale evenienza sia per la mancata conoscenza di tale onere da parte degli interessati sia per la subitanea modifica di tali norme da parte del governo brasiliano. Il Tribunale ha comunque ritenuto di dover procedere ad una specifica indagine in tal senso presso il Consolato italiano competente territorialmente in Brasile al fine di ottenere una certificazione di mancata rinuncia alla cittadinanza italiana da parte degli ascendenti. Proprio a tale riguardo il giudice di Brescia aveva preliminarmente sollevato una nuova questione. Facendo leva su un dictum della Cassazione nella sentenza citata, secondo il quale a chi chiede il riconoscimento della cittadinanza spetta di provare solo il fatto acquisitivo e la linea di trasmissione, mentre incombe alla controparte, che ne abbia fatto eccezione, la prova dell’eventuale fattispecie interruttiva, è stato rilevato che in base al principio di non contestazione, disciplinato dall’art. 115 c.p.c., il giudice deve porre a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita. Ne deriva che, dinanzi ad un onere esplicitamente imposto, la mancata contestazione costituisce una condotta incompatibile con la negazione del fatto costitutivo della domanda, la cui prova diviene inutile. Ebbene, questo sistema presuppone la conoscenza, ovvero almeno la conoscibilità, da parte di colui su cui grava l’onere di contestare determinati fatti. Il Tribunale ha allora constatato che una rinuncia alla cittadinanza italiana non può essere verificata dal Ministero dell’interno, bensì dalle autorità consolari competenti, le quali a loro volta rilasciano la dichiarazione di mancata rinuncia soltanto a ciascun Comune competente all’accertamento della cittadinanza in via amministrativa ovvero all’autorità giudiziaria su sua richiesta, come è avvenuto in questo frangente ( Trib. Brescia, ord. 19.6.2023 , ord. 21.6.2023 ). Si tratta di un’affermazione di per sé corretta, suscettibile di ripercuotersi su tutti i procedimenti analoghi. Certamente il Ministero potrebbe chiedere lui stesso le certificazioni suddette ai Comuni, ma ciò comporterebbe un ulteriore aggravio delle attività a carico dei relativi funzionari ministeriali e comunali.
Eppure vi sono giudici che affiderebbero a quei funzionari, o comunque a soggetti della Pubblica amministrazione, la gestione di tutti i procedimenti in esame. Tale è il caso del Tribunale di Genova, il quale, dopo aver verificato la linea genealogica dei ricorrenti e prima di iniziare la consueta e qui dettagliata ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale rilevante, afferma incidentalmente che, nonostante le statuizioni della Corte costituzionale (in precedenza anche qui ricordate), attualmente la legislazione italiana esclude ancora oggi per i figli di donna cittadina italiana nati prima del 1948 la possibilità di ottenere in via amministrativa la cittadinanza; e aggiunge che tale legislazione non ha infatti ancora «completamente recepito» i principi giurisprudenziali collegati appunto alle pronunce della Corte costituzionale n. 87/1975 e n. 30/1983 ( Trib. Genova, ord. 14.7.2023 ).
Non è dato dedurre con sicurezza da questo provvedimento se il Ministero avesse svolto qualche specifica difesa. Non è raro comunque che il medesimo si presenti in giudizio e dichiari di non opporsi, salvo chiedere la compensazione delle spese, come è puntualmente avvenuto in un procedimento intentato davanti al Tribunale di Roma. Il relativo provvedimento di quest’ultimo nel quale, come in tutti gli altri aventi oggetto analogo, non manca mai il richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 4466/2009 (rectius, alle due decisioni gemelle 25.2.2009, n.4466 e n. 4467) sulla retroattività delle due sentenze costituzionali più volte ricordate, si presenta più sintetico rispetto a quelli finora esaminati ( Trib. Roma, ord. 14.6.2023 ).
Un identico atteggiamento è stato tenuto dal Ministero dell’interno chiamato in giudizio davanti al Tribunale di Messina in una controversia in cui il fittissimo albero genealogico dei ricorrenti risaliva anche qui ad un avo nato nel 1840. In questa occasione tuttavia il giudice si è assai ampiamente soffermato sulla generale evoluzione normativa e giurisprudenziale della disciplina anche internazionale in materia di cittadinanza evocando, da un lato, il correlato principio della effettività (ma trascurando che tale principio appare vanificato nei confronti di una cittadinanza come quella italiana, tramandata nei secoli in capo ad emigrati che ormai hanno perso qualsiasi punto di concreto contatto con lo Stato di origine dei loro ascendenti), dall’altro i concetti alla base della giurisprudenza delle Sezioni Unite sulla naturalizzazione collettiva brasiliana, ricordata più sopra, pur se in presenza di ricorrenti tutti cittadini peruviani ( Trib. Messina, ord. 2.7.2023 ).
Da ultimo, è stata impugnata davanti alla Corte di cassazione una sentenza della Corte d’appello di Roma che rifiutava di riconoscere il possesso della cittadinanza italiana nei confronti di un (asserito) discendente da cittadina italiana sia perché quest’ultima aveva dichiarato, al momento della celebrazione del matrimonio in Brasile, di essere cittadina brasiliana sia perché il di lei figlio ovvero il padre adottivo della ricorrente non aveva fatto riconoscere in Italia l’atto pubblico di adozione nei confronti di quest’ultima.
Riguardo alla censura del primo motivo, la Corte di cassazione, richiamando ancora una volta il diritto soggettivo permanente ed imprescrittibile allo stato di cittadino, azionabile in via giudiziaria in ogni tempo la cui perdita può avvenire solo per rinuncia, ha escluso che nella fattispecie tale rinuncia fosse avvenuta in quanto mancava una dichiarazione espressa in tal senso; né una simile volontà di rinuncia poteva essere fatta derivare dalla dichiarazione di un soggetto titolare di doppia cittadinanza per il semplice fatto di aver dichiarato in uno dei due Stati di appartenenza di essere cittadino di quello Stato.
Passando al secondo aspetto, la Corte, dopo aver ricordato che sia nella precedente legge organica 13.6.1912 n. 555 sia nella attuale l. 5.2.1992 n. 91 l’adozione di un minore straniero vale a conferirgli automaticamente lo status civitatis italiano, rileva anzitutto che l’atto di adozione era stato redatto da un notaio locale in base in base alle norme brasiliane degli anni Sessanta e perciò, non trattandosi di un provvedimento giudiziario, non necessitava di riconoscimento in Italia. D’altra parte risulta inconferente il richiamo all’art. 804 c.p.c. (all’epoca vigente, in seguito abrogato e poi sostituito) in quanto riferito agli atti dotati di titolo esecutivo, carattere mancante e non necessario per quello in esame, poiché invocato ai soli fini probatori e comunque formalmente valido secondo l’art. 26 disp. prel. c.c. Dunque, anche sulla scorta di una circolare del 2020 emessa dal Ministero dell’interno, la trascrizione negli atti di stato civile di un decreto di adozione emesso da un’autorità giudiziaria o altra competente in uno Stato straniero non è condizione costitutiva dello status civitatis italiano, ma, oltre a conferire efficacia ex tunc al provvedimento divenuto definitivo, di per sé attribuisce pubblicità e certezza ad un atto costitutivo del diritto di cittadinanza del minore straniero adottato (Cass., sent. 11.5.2023, n. 12894, in Banca dati DeJure).
Sempre nell’alveo del tema qui considerato meritano di essere segnalate due ulteriori pronunce. La prima contiene una censura del provvedimento di annullamento dell’istanza di iscrizione anagrafica, presentata da un cittadino straniero allo scopo di ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis lamentando la successiva scadenza del termine di conferma dei requisiti (tra cui il possesso della residenza) ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per attesa cittadinanza.
Secondo il Comune infatti la dichiarazione di residenza sarebbe stata resa al solo scopo di richiedere il riconoscimento della cittadinanza italiana, senza che sussistessero né interessi lavorativi né interessi familiari nel territorio di competenza, difettando perciò l’elemento soggettivo dell’abituale e volontaria dimora, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali, familiari e affettive. L’interessato replicava di non poter lavorare perché impossibilitato in quanto straniero entrato in Italia con visto turistico e di essere ospite di un cittadino italiano. Viceversa, il Tribunale di Firenze accoglie la domanda di accertamento della nullità del provvedimento e quella di iscrizione anagrafica, mettendo in risalto l’elezione del domicilio, la dichiarazione di ospitalità, l’esistenza di un contratto di lavoro a chiamata e la stessa intenzione di vivere in Italia ai fini della domanda di cittadinanza quali elementi indicativi della volontà di risiedere continuativamente nel nostro Stato ( Trib. Firenze, ord. 19.6.2023 ).
In una diversa prospettiva, al settore in esame può inoltre essere ascritta una pronuncia della Corte d’appello di Venezia che riprende e conferma un orientamento giurisprudenziale già esplorato in precedenti Rassegne. Si tratta in particolare delle richieste agli ufficiali di stato civile di immediata trascrizione delle pronunce di riconoscimento della cittadinanza italiana per discendenza, curiosamente avanzate da taluni avvocati difensori e puntualmente respinte in quanto carenti della certificazione relativa al passaggio in giudicato delle medesime. Di qui le domande al giudice di un provvedimento in tal senso. Queste domande vengono però anch’esse puntualmente respinte. A questo risultato era giunto anche il Tribunale di Treviso nei confronti dell’istanza presentata ad un Comune veneto: nella specie, era stata esclusa la legittimazione passiva del Sindaco a favore di quella del Ministero dell’interno e, con una motivazione assai dettagliata, egualmente escluso il diritto ad una trascrizione istantanea di una pronuncia del Tribunale di Roma non ancora munita dell’idoneo certificato di cui sopra.
Dal canto suo, la Corte d’appello veneziana accoglie dapprima il motivo di impugnazione relativo alla legittimazione passiva del Sindaco, a suo giudizio invece sussistente ex art. 95 del regolamento dello stato civile (d.p.r. n. 396/2000), ma poi respinge gli altri motivi di impugnazione. Come già in passato, il punto focale delle opposte tesi verte sull’applicabilità in questa materia dell’art. 282 c.p.c. che prevede l’anticipazione degli effetti della sentenza rispetto al suo passaggio in giudicato, ma che riguarda esclusivamente secondo i giudici l’esecutività della pronuncia stessa; la disciplina dell’esecuzione provvisoria ivi prevista trova infatti attuazione solo con riferimento alle sentenze di condanna. E tali non sono le sentenze relative agli status, in quanto carenti del carattere di titolo esecutivo per l’esecuzione forzata, al di là dell’esortazione finale nel dispositivo all’ufficiale dello stato civile di trascrivere il provvedimento ( App. Venezia, decreto 7.8.2023 ).
Oltre alle fattispecie relative a casi di conservazione della cittadinanza da parte degli avi possono tuttavia (raramente) presentarsene altre relative alla perdita della cittadinanza da parte dei medesimi. In particolare, è stato sottoposta al vaglio della Corte di cassazione una controversia relativa alla contestata perdita della cittadinanza da parte di un cittadino italiano emigrato in uno Stato di cui aveva chiesto e ottenuto la cittadinanza. Trattandosi di una vicenda risalente nel tempo, trovava applicazione la l. n. 555/1912. Tuttavia, il ricorrente rifiutava l’applicazione sia dell’art. 8 n. 1 sulla perdita della cittadinanza in seguito all’acquisto volontario di uno status civitatis estero accompagnato dalla corrispondente residenza sia dell’art. 12, co. 2 che estendeva tale perdita ai figli minorenni conviventi, poiché a suo avviso, il figlio aveva acquisito la cittadinanza italiana sin dalla nascita per derivazione paterna, prima cioè che il padre la perdesse. La Cassazione respinge tuttavia questa tesi, come quella fondata sull’applicazione dell’art. 7 della medesima legge, relativo all’acquisto di due cittadinanze alla nascita (iure sanguinis e iure soli) e alla possibilità di rinunciare a quella italiana al raggiungimento della maggiore età; vengono poi esaminate altre norme sul riacquisto della cittadinanza, anche successive a quelle contenute nella legge citata, per escludere la sussistenza della cittadinanza italiana in capo all’all’avo. Le motivazioni sono ineccepibili; stupisce il ripetuto (e forse tralaticio) richiamo al co. 3 dell’art. 12, destinato al caso della perdita della cittadinanza da parte della madre, sopravvissuta al padre e divenuta titolare della “patria potestà” sui figli (Cass., sent. 15.6.2023, n. 17161, in Banca dati DeJure).
Acquisto della cittadinanza per elezione
Individuo nato e residente in Italia; irrilevanza dell’interruzione della residenza per quattro anni.
Il Tribunale di Roma ha accolto la domanda di riconoscimento della cittadinanza italiana fondata sull’art. 4, co. 2, l. n. 91/1992, avanzata da un individuo nato e residente dalla nascita in Italia, ma allontanato illecitamente dal nostro Stato ad opera dei genitori. Dalle risultanze probatorie emerge infatti non solo la nascita e la frequenza scolastica, ma anche i ripetuti interventi degli assistenti sociali a favore del ricorrente sino ad arrivare ad una sentenza del Tribunale dei minorenni sulla decadenza dei genitori dalla responsabilità genitoriale e l’inserimento del minore in una casa famiglia. Malgrado ciò questi ultimi avevano condotto con sé il figlio in Germania, dove questi aveva vissuto per ben quattro anni sino a riuscire a ristabilire un contatto con i servizi sociali italiani e a chiedere e ottenere il rientro nel nostro Stato con successivo ricollocamento alla casa famiglia. La lunghezza del periodo di interruzione della residenza in Italia aveva motivato il rifiuto di riconoscere la cittadinanza da parte del Comune interessato. Viceversa, la causa di tale interruzione viene inquadrata dal Tribunale capitolino come un caso di sottrazione internazionale di minore il quale può essere ricompreso nella nozione di inadempimenti riconducibili ai genitori di cui all’art. 33 d.l. n. 69/2013, in virtù di una lettura orientata di questa norma, al fine di perseguirne la ratio: quella appunto di non permettere che azioni od omissioni altrui possano impedire l’esercizio del diritto alla cittadinanza italiana da parte del titolare di un diritto soggettivo all’acquisto della medesima. Si tratta di un precedente degno di interesse, anche se evidentemente motivato da un caso del tutto particolare ( Trib. Roma, ord. 17.7.2023 ).
Acquisto della cittadinanza per matrimonio
Rigetto dell’istanza da parte della prefettura per mancanza di documenti. Esclusione della sua esclusiva natura di atto endoprocedimentale
L’ordinanza del Tribunale di Bologna qui esaminata muove da una fattispecie spesso ricorrente giungendo ad un inquadramento innovativo. Si tratta in particolare di un ricorso, presentato da una cittadina straniera maritata ad un cittadino italiano, contro il rigetto della propria istanza di acquisto della cittadinanza ad opera della prefettura locale, motivato dalla mancata esibizione di alcuni documenti, quali ad esempio il certificato penale del Paese di origine e la mancanza del titolo attestante la conoscenza della lingua italiana. Tale rifiuto, pur non debitamente notificato, era giunto a conoscenza della ricorrente, la quale si era successivamente trovata nell’impossibilità di provare la correttezza delle proprie allegazioni a causa di una sorta di sbarramento da parte del sistema telematico che da tempo presiede a tutta la procedura. Veniva perciò impugnata la comunicazione della prefettura contenente l’atto di rigetto al quale il Ministero dell’interno, intervenuto in giudizio, attribuiva la natura di atto endoprocedimentale e come tale non soggetto ad autonoma impugnazione. Il Tribunale, contestando i vari motivi esposti dal Ministero stesso, giunge invece a conclusioni opposte, ovvero alla qualificazione dell’atto come provvedimento espresso di conclusione del procedimento ai sensi dell’art. 2 della l. n. 241/1990, in quanto pienamente e immediatamente lesivo della sfera giuridica della destinataria. A sostegno di questa tesi, si cita il consueto avviso dell’Amministrazione relativo alla possibilità di ripresentare nuovamente l’istanza di concessione anche il giorno successivo a quello del rifiuto, integrando opportunamente la documentazione richiesta. Un simile invito ad una nuova istanza, senza possibilità di integrare quella precedentemente presentata, dimostra la presenza di un atto amministrativo definitivo, come tale soggetto all’impugnazione davanti all’autorità giudiziaria ordinaria (identificata nella competente sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE), in quanto relativo all’acquisto della cittadinanza per matrimonio, ovvero a un diritto soggettivo perfetto, da accertare in base alla sussistenza dei presupposti di legge. D’altro canto, la tempestività del ricorso viene – audacemente – giustificata dalla mancata decorrenza del termine, non essendo mai stato notificato l’atto di rigetto. Dopo aver esaminato la sussistenza dei requisiti prescritti dagli artt. 5 e 6 nonché dall’art. 9.1 (sullo specifico aspetto della conoscenza della lingua italiana) della l. n. 91/1992, il giudice dispone l’acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio a favore dell’interessata ( Trib. Bologna, ord. 19.9.2023 ).
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione
Presunta esistenza di procedimenti penali e di partecipazione a manifestazioni di piazza. Insussistenza.
Come preannunciato all’inizio merita di essere qui segnalata una decisione del Tar Lazio la quale riscontra un cattivo uso del potere discrezionale da parte della Pubblica amministrazione. Si trattava in particolare del rigetto di una istanza di naturalizzazione fondato, da un lato, sulla esistenza di due procedimenti penali e, dall’altro, su una informativa della Digos riguardo alla partecipazione dell’istante ad una manifestazione di piazza. Entrambe le motivazioni sono tuttavia censurate dal Tribunale amministrativo: la prima, poiché, al termine di una istruttoria supplementare disposta dai giudici, il Ministero dell’interno esibiva la prova dell’avvenuta archiviazione dei suddetti procedimenti. Quanto alla seconda, relativa ad una manifestazione di protesta contro un licenziamento collettivo, coordinata da organizzazioni sindacali e attuata nei pressi dei locali dell’azienda datrice di lavoro, una volta richiamato il diritto costituzionale a intraprendere azioni di tutela dei diritti sindacali e constatata l’assenza di profili penalmente rilevanti, si dichiara che un simile comportamento non può dunque di per sé indicare una personalità incline a violare le norme di civile convivenza (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 24.7.2023, n. 12459).