Art. 3, par. 2, regolamento 604/2013: possibili deroghe al principio di mutua fiducia
La sentenza X contro Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (CGUE, C-362/22, sentenza del 29 febbraio 2024) aggiunge un tassello alla giurisprudenza sul principio di mutua fiducia e ai conseguenti limiti ai trasferimenti dei richiedenti protezione internazionale nell’economia del regolamento 2013/604 (“regolamento Dublino III”). La Corte si è pronunciata a seguito della ricezione di un rinvio pregiudiziale dal Tribunale dell’Aja, presso il quale il cittadino siriano X si era opposto al trasferimento dai Paesi Bassi alla Polonia, Stato membro competente all’esame della sua domanda di protezione internazionale.
Secondo X il trasferimento avrebbe violato i suoi diritti fondamentali perché si riteneva, in particolare, che in Polonia venissero praticati – con frequenza e ai danni di richiedenti protezione internazionale – respingimenti sommari alle frontiere esterne e trattenimenti ai valichi di frontiera. Occorreva dunque interpretare il regolamento Dublino III, segnatamente l’art. 3, par. 2, che dispone quanto segue: «Qualora sia impossibile trasferire un richiedente verso lo Stato membro inizialmente designato come competente in quanto si hanno fondati motivi di ritenere che sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, lo Stato membro che ha avviato la procedura di determinazione dello Stato membro competente prosegue l’esame dei criteri di cui al capo III per verificare se un altro Stato membro possa essere designato come competente». Due erano i punti di attenzione: capire se pratiche come quelle “contestate” alla Polonia possano giustificare la deroga di tale disposizione e fino a che punto debba attivarsi lo Stato membro che ha sollecitato la presa in carico per scongiurare siffatti rischi. Dopo avere ricordato la centralità del principio di mutua fiducia in un’ottica di appartenenza all’Unione e ai fini dello Spazio UE di liberà, sicurezza e giustizia, la Corte rammenta che non si può escludere che a volte la presunzione del rispetto di questo principio da parte di uno Stato membro possa cadere. La Corte specifica poi che pratiche come i respingimenti sommari e i trattenimenti ai valichi di frontiera sono incompatibili con il diritto dell’Unione e costituiscono gravi carenze nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti. Tuttavia, il trasferimento può essere impedito solo se tali pratiche integrano i due requisiti dell’art. 3, par. 2, del regolamento 2013/604. Perciò, il giudice del rinvio deve anzitutto verificare se le carenze sono sistemiche, cioè se perdurano e se riguardano, in generale, la procedura di asilo e le condizioni di accoglienza applicabili ai richiedenti protezione internazionale o, quanto meno, a taluni gruppi di richiedenti protezione internazionale considerati nel loro insieme. Relativamente all’elemento del rispetto dell’art. 4 della Carta, ossia della dignità umana, la Corte aggiunge che il trasferimento non può avere luogo se il giudice del rinvio accerta che sussistono motivi seri e comprovati di ritenere che il richiedente «potrebbe incorrere, al momento del trasferimento o in seguito ad esso, nel rischio reale di essere sottoposto a siffatte pratiche e queste ultime siano (…) atte a porlo in una situazione di estrema deprivazione materiale, di gravità tale da poter essere assimilata a un trattamento inumano o degradante». Dopodiché, la Corte passa al punto successivo e fornisce indicazioni su ciò che lo Stato membro presso cui si trova l’interessato deve fare per evitare alla radice un trasferimento suscettibile di produrre esiti di questo tipo. Lo Stato in questione è tenuto a prendere in considerazione qualunque elemento prodotto dal ricorrente al fine di accertare l’esistenza, nello Stato membro ritenuto competente, di un rischio di trattamento contrario all’articolo 4 della Carta: da questo punto di vista, sono numerose le disposizioni del Dublino III che danno risalto all’importanza della partecipazione attiva del richiedente. D’altro canto, lo Stato ospitante deve pure cooperare all’accertamento dei fatti; allo scopo, ha l’obbligo di valutare l’effettiva sussistenza di tale rischio sulla base di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati circa l’altro Stato membro, e tenuto conto del livello di protezione dei diritti fondamentali garantito dal diritto dell’Unione. Laddove vi siano motivi seri e comprovati di ritenere che esista un rischio reale di siffatti trattamenti nello Stato membro ritenuto competente, non si potrà realizzare il trasferimento, a meno che il primo Stato non ottenga dal secondo garanzie individuali che appaiano al contempo attendibili e sufficienti ad escludere qualsiasi rischio reale di trattamenti inumani o degradanti.
Art. 17, par. 1, regolamento 604/2013: natura delle decisioni adottate in forza della “clausola discrezionale”
Con la pronuncia AHY contro Minister for Justice (CGUE, C-359/22, sentenza del 18 aprile 2024) la Corte ha chiarito alcuni contorni dell’applicazione della clausola discrezionale ex art. 17, par. 1, del regolamento 604/2013, che consente a uno Stato membro di esaminare una domanda di protezione internazionale in deroga ai criteri di determinazione dello Stato competente. La richiesta è pervenuta dell’Alta Corte irlandese, adita da un cittadino somalo che si opponeva a una decisione di trasferimento verso lo Stato membro competente all’esame della sua domanda di protezione internazionale e che riteneva, essenzialmente, che vi fosse margine per contestare l’uso del potere discrezionale conferito dalla predetta clausola alle autorità interne. Seguendo le traiettorie derivanti dai quesiti del giudice del rinvio, la Corte puntualizza che la clausola prevista dall’art. 17, par. 1, del Dublino III è sì parte integrante dei meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale previsti dal regolamento, ma al contempo non può, per sua natura, essere equiparata agli altri criteri sanciti dall’atto per tale scopo. È una deroga ai principi dell’art. 3, par. 1, del regolamento e ha natura facoltativa, in quanto volta a salvaguardare le prerogative degli Stati membri nell’esercizio del diritto di concedere una protezione internazionale. Tutto questo comporta, tra le altre cose, che una decisione adottata sulla base della clausola discrezionale ha sostanza diversa da una decisione come quella che impone il trasferimento dell’interessato verso lo Stato membro competente (art. 27, par. 1, del Dublino III). Ne consegue che il Dublino III non può essere interpretato nel senso di obbligare gli Stati membri a istituire ricorsi effettivi contro decisioni adottate in forza della clausola discrezionale e che l’interessato non può vantare – nemmeno alla luce della Carta – alcun diritto rispetto alla libera scelta di ciascuno Stato membro di avvalersene o meno. Inoltre, la decisione di uno Stato membro di non farlo non può avere l’effetto di incidere sulla decorrenza del termine di sei mesi che l’art. 29, par. 1, del Dublino III stabilisce per effettuare il trasferimento del richiedente.
Artt. 33, par. 2, e 46, par. 1, direttiva 2013/32: elementi costitutivi delle domande reiterate e rimedi processuali a favore del richiedente
Il caso A.A. contro Bundesrepublik Deutschland (CGUE, C-216/22, sentenza dell’8 febbraio 2024) concerne sostanza e potenziali effetti procedurali della “domanda reiterata” ai fini della direttiva procedure, n. 2013/32. I punti di diritto oggetto del rinvio pregiudiziale derivavano da un procedimento interno instaurato da un cittadino siriano che in Germania si era visto negare il riconoscimento dello status di beneficiario di protezione internazionale. La domanda da egli proposta era stata giudicata reiterata, in quanto fondata essenzialmente sull’applicazione al caso di specie dell’interpretazione offerta dalla Corte di giustizia in una sentenza. La Grande sezione si trova a statuire su due questioni. La prima si riferisce al concetto di domanda reiterata, in particolare a come considerare gli elementi e le risultanze nuove nelle disposizioni di riferimento della direttiva procedure (art. 33, par. 2, lett. d), e art. 40, parr. 2 e 3). La sentenza della Corte conferma che le ipotesi nelle quali una domanda debba essere considerata ammissibile sono da interpretarsi in maniera estensiva; viceversa, quelle per le quali la domanda risulterebbe inammissibile (ad esempio, perché reiterata) vanno interpretate restrittivamente. In base a ciò, una sentenza della Corte di giustizia può costituire nuovo elemento di diritto da fare valere per motivare una seconda domanda di protezione internazionale; ciò anche perché in questo modo sarebbe possibile ridurre il rischio di un’eventuale applicazione erronea del diritto UE. Solo così l’effetto utile dei diritti fondamentali riconosciuti e garantiti ai richiedenti protezione internazionale potrebbe essere effettivamente assicurato. Tale interpretazione vale indipendentemente dal momento in cui la sentenza in questione è stata pronunciata, nel senso che non si configurerebbe alcuna colpa per l’interessato laddove nella prima procedura di status tale circostanza risultasse omessa. Tanto detto, occorre però che siano rispettati tutti gli altri requisiti che la direttiva procedure stabilisce affinché una simile domanda possa essere valutata nel merito, a cominciare dal fatto che nuovi elementi o risultanze aumentino in modo significativo la probabilità che al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale, elemento che deve potere essere valutato dal giudice del rinvio. Secondariamente, alla Corte viene chiesto se il diritto al ricorso effettivo dell’interessato di fronte alla decisione che qualifica la sua domanda di protezione internazionale come reiterata (art. 46, par. 1, lett. a), punto iii) implichi la possibilità per il giudice interno non soltanto di annullare detta decisione, ma di statuire egli stesso sulla domanda del richiedente. La Grande sezione ricorda la centralità del diritto (fondamentale) ad un ricorso effettivo, ma precisa che quella di cui trattasi è una eventualità correlata al seguito dell’ipotetico annullamento della decisione impugnata. L’importante è che in una situazione come questa una decisione sulla domanda di status venga presa in tempi celeri; che poi la decisione sia assunta direttamente dal giudice (piuttosto che dall’autorità accertante, previo rinvio di questo stesso giudice) è un aspetto procedurale che gli Stati membri possono regolare in autonomia.
Art. 5, par. 3, direttiva 2011/95: rischio di persecuzioni derivante da circostanze determinate dal richiedente fuori dal Paese di origine
Anche il caso Bundesamt für Fremdenwesen und Asyl contro JF (CGUE, C-222/22, sentenza del 29 febbraio 2024) riguarda una domanda reiterata di protezione internazionale, ma nella fattispecie il nodo giuridico da sciogliere consiste nell’interpretazione dell’art. 5, par. 3, della direttiva 2011/95 (“direttiva qualifiche”), che dispone quanto segue: «(f)atta salva la convenzione di Ginevra, gli Stati membri possono stabilire di non riconoscere di norma lo status di rifugiato a un richiedente che abbia introdotto una domanda successiva se il rischio di persecuzioni è basato su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal Paese di origine». Il procedimento principale, svolto presso la Corte amministrativa austriaca, vedeva coinvolti l’ufficio nazionale per il diritto degli stranieri e il diritto d’asilo (BFA) e JF, cittadino iraniano che aveva presentato una domanda reiterata in Austria. Uno dei principali punti di scontro tra le parti verteva sulle conseguenze giuridiche della domanda successiva fondata su un rischio di persecuzioni derivante da circostanze determinate fuori dal paese di origine dal richiedente stesso. Segnatamente, secondo il BFA, per una situazione come questa la normativa interna che traspone l’art. 5, par. 3, della direttiva qualifiche avrebbe determinato, in generale, il diniego dello status di rifugiato; ciò soprattutto a causa dell’apparente assenza di continuità tra le circostanze fatte valere dal richiedente in Austria e la propria situazione personale nel Paese di origine. La Corte amministrativa austriaca chiedeva allora alla Corte di giustizia se tale normativa fosse davvero conforme all’art. 5, par. 3, della direttiva qualifiche. I giudici dapprima spiegano che la disposizione in esame deve avere un significato unitario in diritto UE e che quest’ultimo deve essere ricostruito principalmente sulla base del testo e del contesto. Rilevano che gli Stati membri sono liberi di scegliere se avvalersi della facoltà prevista all’art. 5, par, 3, ma che se ciò accade resta comunque possibile che l’interessato, in talune circostanze, possa vedersi riconoscere lo status di rifugiato: il diniego dovrebbe avvenire “di norma”, dunque non sempre. Inoltre, in considerazione dell’essenza della Convenzione di Ginevra del 1951, che rappresenta il contesto di riferimento per l’interpretazione della direttiva qualifiche, nonché degli obiettivi della direttiva stessa, la Corte dichiara che tale facoltà deve essere interpretata restrittivamente. Tra l’altro, questi parametri normativi non introducono alcuna restrizione a che il timore fondato di essere perseguitato possa basarsi su attività svolte dal richiedente dopo la sua partenza dal Paese di origine e non costituenti l’espressione e la continuazione di convinzioni o di orientamenti già manifestati in tale Paese. Facendo seguito a questi rilievi, la Corte aggiunge che l’eccezionalità della clausola dell’art. 5, par. 3, non può implicare l’esclusione dell’obbligo, per le autorità nazionali competenti, di procedere, in ossequio all’art. 4, par. 3, ad una valutazione su base individuale di ogni domanda successiva di protezione internazionale. Nello specifico, non sarebbe in linea con il diritto UE una presunzione – come quella di fatto avallata dalla normativa austriaca e dal BFA – secondo cui, qualsiasi domanda successiva fondata su circostanze che il richiedente ha determinato dopo la partenza dal Paese di origine, deriva a priori da un’intenzione abusiva e finalizzata a strumentalizzazione la procedura. Solo a seguito di apposita valutazione si potrà capire se tale intenzione effettivamente sussiste o se, al contrario, l’interessato soddisfa tutti i requisiti che devono condurre al riconoscimento dello status di rifugiato.
Artt. 10, par. 3, e 9, par. 3, direttiva 2011/95: possibilità di concepire le donne come “determinati gruppi sociali” e timore di persecuzione dovuto a soggetti non statuali
La direttiva 2011/95 è al centro di un altro caso, WS contro Intervyuirasht organ na Darzhavna agentsia za bezhantsite pri Ministerskia savet (CGUE, C-621/21, sentenza del 16 gennaio 2024), importante per i chiarimenti che la Corte offre in merito a requisiti costitutivi della qualifica di rifugiato, come l’appartenenza a un gruppo sociale e il timore di essere perseguitato nel paese di origine. La ricorrente nel procedimento principale, tenutosi in Bulgaria, era una cittadina turca, appartenente alla minoranza curdoa, musulmana sunnita e divorziata. Aveva abbandonato la Turchia per sfuggire alle probabili conseguenze negative della fine di un matrimonio forzato. Aveva richiesto – invano – protezione internazionale in Bulgaria, ritenendo che in caso di ritorno in Turchia avrebbe subito persecuzioni dalla sua famiglia biologica, dall’ex marito e dalla famiglia di quest’ultimo; temeva soprattutto di essere vittima di violenza domestica e di delitti d’onore e che lo Stato turco non sarebbe riuscito a difenderla. La Corte suprema amministrativa bulgara sospendeva il giudizio e chiedeva il supporto della Corte di giustizia sull’interpretazione di tre disposizioni della direttiva qualifiche. Per prima cosa, il giudice del rinvio si concentra sull’art. 10, par. 3, della direttiva, secondo cui un particolare gruppo sociale sussiste in particolare quando: a) i membri che ne fanno parte «condividono una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi», e b) «tale gruppo possiede un’identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante». È possibile ricomprendere le donne nel loro insieme all’interno di un gruppo sociale così come configurato dall’art. 10, par. 3? La Corte risponde affermativamente, facendo leva sull’impianto della direttiva qualifiche e su strumenti pertinenti di diritto internazionale: oltre alla Convenzione di Ginevra del 1951, la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979), la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (conclusa a Istanbul l’11 maggio 2011) e documenti emessi dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Per la Corte, le condizioni dell’art. 10, par. 3 sono soddisfatte qualora sia accertato che, nel loro paese d’origine, le donne sono esposte a violenze fisiche o mentali, incluse violenze sessuali e violenze domestiche, a causa del loro sesso: in altri termini, le donne, tanto nel loro insieme quanto parti di gruppi ristretti che condividono una caratteristica comune supplementare, possono essere considerate a un “determinato gruppo sociale”. Il secondo quesito posto dal giudice bulgaro riguarda, invece, l’art. 9, par. 3, della direttiva qualifiche, che riconduce i motivi di cui all’articolo 10 agli atti di persecuzione quali definiti al par. 1 o alla mancanza di protezione contro tali atti. Tale collegamento è necessario anche se il timore di persecuzione nel paese di origine è dovuto a soggetti non statuali? In questo caso per la Corte è sufficiente che il collegamento sussista tra uno di detti motivi di persecuzione e la mancanza di protezione contro tali atti da parte dei soggetti che offrono protezione, di cui all’articolo 7, par. 1, di detta direttiva.
Art. 22, par. 3, direttiva 2003/109: tutela rafforzata ed effetti diretti. Art. 15, par. 1, direttiva 2011/95: concetto di “danno grave” ai fini della protezione sussidiaria
Il caso EP contro Maahanmuuttovirasto (CGUE, C-752/22, sentenza del 14 marzo 2024) verte sulla possibilità di allontanare dal territorio dell’Unione un cittadino di Stato terzo che sia al tempo stesso soggiornante di lungo periodo in uno Stato membro e irregolare in un altro. Era il caso di EP, cittadino russo soggiornante di lungo periodo ai sensi della direttiva 2003/109 in Estonia, ma destinatario di un divieto di ingresso in territorio finlandese per ragioni di ordine pubblico e pubblica sicurezza: egli, infatti, cercava ripetutamente di rimanere in Finlandia nonostante ciò gli fosse proibito e senza avere presentato alle autorità competenti una domanda di permesso di soggiorno ai sensi delle disposizioni del capo III della direttiva 2003/109. Sorgeva allora un procedimento che approdava alla Corte amministrativa suprema finlandese. Per decidere la controversia, occorreva, in particolare, interpretare l’art. 22, par. 3, della direttiva, che recita: «(f)ino a che il cittadino di un Paese terzo non abbia ottenuto lo status di soggiornante di lungo periodo e, fatto salvo l'obbligo di riammissione di cui al paragrafo 2, il secondo Stato membro può adottare la decisione di allontanare detto cittadino dal territorio dell'Unione in conformità e in base alle garanzie dell'articolo 12, per gravi motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza». Posto che la Finlandia non ha trasposto l’art. 22, par. 3, della direttiva, la Corte di giustizia veniva investita di un rinvio pregiudiziale avente ad oggetto soprattutto l’interpretazione di questa disposizione per capire se a) essa si applicasse al caso di EP e b) se fosse provvista di effetto diretto invocabile dinnanzi agli organi giurisdizionali dello Stato membro in cui EP non era soggiornante di lungo periodo (bensì, irregolare). La Corte conferma anzitutto che EP ha il diritto di soggiornare in Estonia, dove è soggiornante di lungo periodo. Inoltre, ricorda che il soggiornante di lungo periodo dovrebbe godere di una tutela rafforzata contro l’espulsione, stante il considerando 16 della direttiva 2003/109; da ciò deriva che nel caso di specie occorre applicare la direttiva 2003/109, in luogo della disciplina più pregiudizievole della direttiva rimpatri. Naturalmente, trova applicazione anche l’art. 22, par. 3, della prima direttiva. E poiché tale disposizione prefigura – come si è visto poco sopra – condizioni dettagliate da ricondurre alla tutela rafforzata cui si è appena fatto cenno, detto beneficio spetta anche al cittadino nella situazione di EP, altrimenti si verificherebbe un cortocircuito rispetto alle finalità della direttiva. La Corte precisa poi che l’art. 22, par. 3, così come l’art. 12, par. 3, è formulato in modo da produrre effetti diretti, che l’interessato potrà far valere anche nel secondo Stato membro, ossia nello Stato in cui non è soggiornante di lungo periodo; ciò anche se lo Stato in questione, vale a dire la Finlandia, non ha espressamente trasposto quanto previsto dalla normativa UE di riferimento. Infine, il giudice del rinvio chiede se una situazione come quella prospettata dalla ricorrente possa essere riconducibile a danni gravi come la condanna, l’esecuzione della pena di morte, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante (art. 15, par. 1, lett. a) e b) della direttiva qualifiche). La Corte risponde che il concetto di “danno grave”, come ricostruito in tale disposizione, ricomprende anche la minaccia effettiva di essere ucciso o di subire atti di violenza da parte di un membro della famiglia o della comunità di appartenenza, a causa della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali. Su questa base è quindi possibile ottenere il riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 2, lett. g), della direttiva 2011/95.
Art. 10, par. 3, direttiva 2003/86: aspetti sostanziali e procedurali del ricongiungimento familiare a favore di rifugiato minore non accompagnato
In CR, GF, TY contro Landeshauptmann von Wien (CGUE, C-560/20, sentenza del 30 gennaio 2024) è stato interpretato l’art. 10, par. 3, della direttiva 2003/86 in ordine all’intensità della tutela da accordare al rifugiato minore non accompagnato nel quadro del diritto al ricongiungimento familiare. Il rifugiato in questione era RI, cittadino siriano giunto in Austria tempo addietro come minore non accompagnato. Dopo che RI aveva ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato, i suoi genitori e la sorella presentavano all’ambasciata austriaca in Siria richieste di permesso di soggiorno in Austria ai fini di ricongiungimento familiare; la sorella, tra l’altro, soffriva di una grave malattia che la rendeva totalmente dipendente dai genitori. Per la precisione, le domande dei genitori si fondavano sulla direttiva 2003/86 e quella della sorella sull’art. 8 CEDU. Tutte domande venivano però rigettate con provvedimenti che gli interessati impugnavano. Nel corso del procedimento amministrativo emergevano soprattutto due possibili criticità: da un lato, RI era minorenne quando era stato riconosciuto come rifugiato ma era diventato maggiorenne nel corso della procedura di ricongiungimento familiare; dall’altro, le domande di ricongiungimento non erano state presentate entro tre mesi dalla data in cui RI aveva ottenuto il riconoscimento dello status. Pertanto, il Tribunale amministrativo di Vienna si rivolgeva alla Corte di giustizia sull’interpretazione dell’art. 10, par. 3, della direttiva 2003/86 da più angolature. I profili interpretativi e le argomentazioni della Corte possono essere riassunti come segue. Intanto, la disposizione introduce una tutela rafforzata per una categoria particolarmente vulnerabile e impone agli Stati membri precisi obblighi che corrispondono a condizioni più favorevoli per il diritto al ricongiungimento familiare dei rifugiati minori non accompagnati. La stessa disposizione va letta alla luce della Carta, nello specifico degli artt. 7 e 24, relativi, rispettivamente, alla tutela della vita privata e dell’interesse superiore del minore. Da queste premesse, la Corte continua il proprio ragionamento spiegando che l’interessato è da considerarsi minore, e dunque beneficiario di questa tutela rafforzata, indipendentemente dal tempo che l’autorità competente impiega per riconoscere lo status di rifugiato o, a fortiori, per decidere su una richiesta di ricongiungimento familiare: rileva solo il momento della presentazione della domanda di asilo, non già un momento successivo che dipende dalla condotta delle autorità interne. Non può essere quindi conforme al diritto UE alcuna normativa interna che faccia dipendere da limiti temporali di sorta il ricongiungimento familiare in un caso come quello in analisi: l’effetto utile dell’art. 10, par. 3, e gli obiettivi cui la direttiva 2003/86 mira non potrebbero essere adeguatamente assicurati se non fosse consentita la presentazione di una domanda di ricongiungimento familiare a un rifugiato che in quel preciso momento sia ancora minore (non accompagnato). In secondo luogo, l’art. 10, par. 3, della direttiva 2003/86, interpretato conformemente ai già menzionati articoli della Carta, ha carattere incondizionato e non ammette che uno Stato membro possa negare il ricongiungimento familiare a causa dell’assistenza richiesta dalla sorella di RI. In altre parole, se i genitori di RI non potessero essere ricongiunti al figlio in Austria per via di un eventuale diniego della richiesta dell’altra figlia (bisognosa di cure costanti), l’effetto utile dell’art. 10, par. 3, della direttiva sarebbe illegittimamente pretermesso. Di conseguenza, l’Austria deve rilasciare il permesso di soggiorno a TY, perché altrimenti i genitori dovrebbero rimanere per forza in Siria ad accudirla. Da ultimo, la Corte riconosce che l’art. 10, par. 3, della direttiva esclude che gli Stati membri godano dello stesso margine di manovra che avrebbero, in linea generale e teorica, circa la fissazione dei requisiti ex art. 7, par. 1, della direttiva stessa a carico del soggiornante. Ciò, naturalmente, laddove gli Stati abbiano deciso di avvalersi della facoltà che tale disposizione gli accorda. Infatti, i beneficiari dell’art. 10, par. 3, rappresentano una categoria eccezionale di persone, che ha diritto a un trattamento preferenziale a causa degli specifici elementi di vulnerabilità, ragion per cui non possono essere trattati alla stregua dei richiedenti “standard” che ricadono nel campo di applicazione dell’art. 7, par. 1.
Art. 20 TFUE: limiti alla revoca del diritto di soggiorno di un cittadino di Stato terzo, familiare di cittadino dell’Unione che non si è spostato dal proprio Stato membro
La sentenza NW e PQ contro Országos Idegenrendészeti Főigazgatóság, Miniszterelnöki Kabinetirodát vezető miniszter (CGUE, C-420/22 e C-528/22, sentenza del 25 aprile 2024) ha ad oggetto gli artt. 20 TFUE e 47 della Carta dei diritti fondamentali, in rapporto alla revoca del diritto di soggiorno in uno Stato membro di cittadini stranieri, familiari di cittadini dell’Unione. NW e PQ sono cittadini di Stati terzi che risiedono legalmente in Ungheria, sono sposati con cittadine ungheresi e hanno la potestà sui propri figli, anch’essi cittadini ungheresi. Entrambi divenivano destinatari di decisioni della polizia nazionale degli stranieri con le quali si stabiliva che il loro soggiorno arrecava pregiudizio agli interessi dell’Ungheria in materia di sicurezza nazionale. Le due decisioni si basavano su pareri vincolanti ma non motivati emessi da organi specializzati dello Stato. Il giudice ungherese competente rivolgeva alla Corte di giustizia una serie di quesiti di interpretazione del diritto primario rilevante. La Corte dapprima rievoca la propria giurisprudenza sui diritti derivati dei cittadini di Stati terzi che siano familiari di cittadini dell’Unione e che siano soggiornanti nel territorio di uno Stato membro senza avere esercitato il diritto di libera circolazione. Annota che in situazioni molto particolari, caratterizzanti casi come quelli in discussione, l’art. 20 TFUE non si limita semplicemente a vietare l’allontanamento dello straniero, ma impone di concedergli un diritto di soggiorno. Ciò deve accadere quando tra i due familiari sussiste una relazione di dipendenza tale per cui se il cittadino di Stato terzo fosse costretto ad abbandonare il territorio dell’Unione nella sua integrità, lo stesso toccherebbe al cittadino UE, che quindi non riuscirebbe a godere nemmeno del contenuto essenziale dei diritti conferitigli da tale status. Se una simile eventualità si verificasse, l’art. 20 TFUE sarebbe privato del suo effetto utile. Le autorità competenti a decidere in merito al soggiorno dell’interessato non sono obbligate ad esaminare sistematicamente di loro iniziativa detto rapporto, ma dovranno considerare tutti gli elementi che eventualmente saranno loro forniti, compiendo ulteriori ricerche solo se ve ne è l’esigenza. In ogni caso, l’art. 20 TFUE così interpretato non si applica se al cittadino di paese terzo possa essere concesso un diritto di soggiorno in applicazione di un’altra disposizione applicabile nello Stato membro ospitante. Passando agli aspetti procedurali, la Corte nega che un provvedimento di revoca del diritto di soggiorno nei confronti di uno straniero che sia familiare di un cittadino dell’Unione possa essere legittimamente basato su pareri non motivati. È vero che il diritto dell’Unione non contiene norme che definiscano con precisione le modalità concrete dell’esame da svolgere in applicazione dell’articolo 20 TFUE e che gli Stati membri beneficiano del principio di autonomia processuale. Tuttavia, occorre sempre che la normativa nazionale di attuazione del diritto UE sia conforme ai diritti fondamentali sanciti nella Carta, ivi compreso il diritto ad un ricorso effettivo ex art. 47. In concreto, ciò significa che l’effettività del controllo giurisdizionale garantito dall’articolo 47 della Carta presuppone che l’interessato possa conoscere la motivazione di una decisione adottata nei suoi confronti. Ciò serve anche a verificare se l’autorità competente ha adempiuto al proprio obbligo di valutare tutte le circostanze pertinenti del caso di specie, alla luce del principio di proporzionalità, dei diritti fondamentali e, se del caso, dall’interesse superiore del figlio del cittadino interessato di un Paese terzo. Considerazioni analoghe valgono per il diritto di accesso al fascicolo, che dovrebbe consentire all’interessato di poter prendere posizione in merito nell’arco del procedimento. Tale diritto non può essere completamente pretermesso nemmeno qualora sia necessario omettere la divulgazione di elementi del fascicolo per ragioni di sicurezza nazionale. In tal caso, i diritti di difesa dell’interessato possono essere limitati, ma egli deve essere messo nelle condizioni di conoscere, se del caso tramite il proprio rappresentante, almeno il contenuto essenziale della decisione su cui si fonda la decisione che lo investe. Quanto ai poteri del giudice in una situazione come quella lamentata dai ricorrenti nel procedimento principale, la Corte chiarisce i limiti dell’interpretazione congiunta degli artt. 47 della Carta e 20 TFUE. Il giudice chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di una decisione relativa al soggiorno in uno Stato membro del cittadino di Stato terzo familiare di cittadino dell’Unione non deve essere necessariamente obbligato, attraverso il diritto nazionale, a pronunciarsi anche sulla legittimità e sulle conseguenze di una eventuale classificazione di informazioni, fino addirittura a declassificarle. Dovrà però avere il potere di trarre le conseguenze della decisione delle autorità competenti di non comunicare in tutto o in parte i motivi di e gli elementi di prova pertinenti.
Art. 20 TFUE: limiti al margine di manovra degli Stati membri di determinare la perdita ipso iure della cittadinanza nazionale in caso di ottenimento della cittadinanza di Stato terzo
L’art. 20 TFUE è stato interpretato pure nel giudizio S.Ö. e al (CGUE, cause riunite da C-684/22 a C-686/22, sentenza del 25 aprile 2024), questa volta però in tema di tutela rispetto alla perdita della cittadinanza dell’Unione. In Germania pendevano tre cause presentate da ricorrenti che si trovavano nella stessa situazione: erano cittadini turchi che tempo addietro avevano chiesto e ottenuto la cittadinanza tedesca, accettando di perdere quella turca; successivamente, avevano riottenuto la cittadinanza turca, ma a causa di ciò avevano perso automaticamente quella tedesca. Vale la pena sottolineare che dall’inizio del 2000 in Germania vige una normativa che determina la perdita ipso iure della cittadinanza tedesca per chi sia diventato cittadino di uno Stato terzo, a meno che l’interessato ottenga la previa autorizzazione delle autorità nazionali competenti, a seguito di un esame individuale della situazione che tega conto di una ponderazione degli interessi pubblici e privati, a conservare la cittadinanza. I ricorrenti nei procedimenti principali non ricadevano nel campo d’azione di questa deroga. La Corte si trovava dunque a decidere, in base all’interpretazione dell’art. 20 TFUE, se la normativa tedesca fosse conforme al diritto dell’Unione. La sentenza si apre con il richiamo all’obbligo per gli Stati membri di rispettare il diritto dell’Unione, in particolare il principio di proporzionalità, nell’esercizio delle loro competenze in materia di cittadinanza nazionale. Ciò implica che autorità e giudici competenti devono considerare le conseguenze sulla situazione dell’interessato e dei suoi familiari sotto il profilo del diritto UE e, se del caso, consentirgli di conservare la propria cittadinanza o di riacquistarla ex tunc. Occorre dunque eseguire un esame individuale, ma alla luce del contesto di riferimento e delle informazioni rilevanti ricevute dalle autorità competenti. Nella fattispecie, per comprendere se la perdita della cittadinanza tedesca, e quindi dell’Unione, non sia una conseguenza sproporzionata, l’esame individuale deve fondarsi anche su elementi quali le tempistiche e le condizioni sussistenti quando i ricorrenti hanno chiesto e poi riacquistato la cittadinanza turca, nonché le prospettive di effettività dell’esercizio della facoltà che consente di avviare la procedura di autorizzazione con cui si attiva la deroga della normativa tedesca oggetto di causa.