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Fascicolo 1, Marzo 2017


«S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente».
(K. Kavafis, Aspettando i barbari, 1908)

Famiglia e minori

In questa Rassegna, si cercherà di dare conto delle principali questioni trattate nel corso del 2016 dalla giurisprudenza europea e interna in materia di diritto dell’immigrazione con riguardo alle tematiche dell’unità familiare e dei minori.
In relazione a tali temi, la principale novità normativa è stata l’approvazione della l. 20.5.2016, n. 76, «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze».
Tale disciplina introduce in Italia l’unione civile tra persone dello stesso sesso, un istituto che consente alle coppie dello stesso sesso di formalizzare un’unione avente effetti equiparabili al matrimonio.
Tale legge, insieme ai suoi decreti attuativi, ha permesso alle coppie dello stesso sesso di ottenere un diritto alla parità di trattamento in quasi tutti i settori dell’ordinamento. Con riguardo all’unità familiare delle coppie miste, le novità portate da questa legge sono meno rilevanti che in altri settori dell’ordinamento (ad esempio, con riguardo ai diritti previdenziali e assistenziali), dal momento che la giurisprudenza italiana era già giunta a garantire il diritto all’unità familiare. La legge rimane comunque fondamentale anche in materia di ricongiungimento per due ragioni. Da un lato, la certezza giuridica ottenuta tramite una disposizione di legge è sempre maggiore di quella discendente da un orientamento giurisprudenziale che si fondi sui principi fondamentali dell’ordinamento, dall’altro, la giurisprudenza fino ad oggi aveva trattato l’ipotesi del ricongiungimento dello straniero con cittadino italiano, facendo in particolare riferimento alla normativa europea, ma il diritto alla parità di trattamento si impone anche in materia di ricongiungimento al cittadino di Paese terzo regolarmente soggiornante in Italia.
Non risultano precedenti giurisprudenziali di merito che trattino nel 2016 questi temi, mentre la Corte di Cassazione ha già avuto modo di citare la l. n. 76/2016 per escludere la legittimità di un’espulsione a titolo di misura alternativa alla detenzione di persona convivente con cittadino italiano (Cass. pen., sez. I, sent. n. 44182/2016).
Sul fronte europeo, invece, come si vedrà, la Corte europea dei diritti dell’uomo proprio nel corso del 2016 ha formulato principi importanti in materia di diritto all’unità famigliare delle coppie dello stesso sesso che vanno nella stessa direzione di parità di trattamento oggi confermata dalla legislazione italiana.
Oltre a quello indicato, un altro intervento normativo degno di rilievo è quello introdotto dall’art. 10 della legge europea 2015-2016 (l. n. 122/2016) che ha modificato la previgente disciplina del permesso di soggiorno per minori stranieri, prevedendo che «al figlio minore dello straniero con questi convivente e regolarmente soggiornante» venga rilasciato «un permesso di soggiorno per motivi familiari valido fino al compimento della maggiore età ovvero un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo». Viene così abolita la distinzione tra minori infraquattordicenni (per i quali la normativa previgente prevedeva l'iscrizione nel permesso di soggiorno o nel permesso di soggiorno UE di uno o di entrambi i genitori) e minori ultraquattordicenni per i quali era già previsto il rilascio di un permesso di soggiorno valido fino al compimento della maggiore età. Le nuove disposizioni sono state introdotte al fine di dare piena attuazione al regolamento UE n. 380/2008, con il quale è stato modificato il regolamento UE n. 1030/02 che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi terzi.
Oltre a quelli indicati, non vi sono stati altri interventi normativi di rilievo nel corso dell’anno. La giurisprudenza sia interna che europea si è comunque fatta carico di precisare numerose fattispecie normative, disegnandone meglio i contorni e indicando le regole di giudizio da seguire con riferimento a numerose fattispecie normative.
Nella presente Rassegna, si prenderanno in considerazione separatamente la giurisprudenza europea e la giurisprudenza interna, segnalando, di volta in volta, senza alcuna pretesa di esaustività, quelli che appaiono i principali orientamenti emersi nel corso del 2016.

La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea

1) Cittadino di uno Stato terzo con un figlio minore a carico, cittadino dell’Unione – Diritto di soggiorno del genitore in caso di precedenti penali – decisione di allontanamento del genitore che comporta l’allontanamento indiretto del minore

Con due importanti pronunce del 13.9.2016 (sentenza C-304/14, CS, e sentenza C-165/14, Rendòn Marìn), la Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione europea ha esaminato due fattispecie che non erano giunte ancora alla sua attenzione. 

La prima riguardava CS, cittadina di un paese terzo madre di un bambino cittadino britannico. In seguito ad una condanna penale, il Regno Unito decideva di espellere CS nel Paese terzo di cittadinanza. La Corte di Giustizia viene chiamata a precisare i principi esposti nella giurisprudenza avviata con la sentenza dell’8.3.2011, Ruiz Zambrano (C-34/09), in cui la Corte aveva affermato che, benché la dir. 2004/38/CE non trovi applicazione ai cittadini dell’Unione che non si siano avvalsi della libera circolazione, un diritto di soggiorno deve, nondimeno, essere accordato a un cittadino di uno Stato terzo, genitore affidatario di un minore cittadino dell’Unione, se, in conseguenza del diniego di tale diritto, il cittadino dell’Unione venisse di fatto costretto a lasciare il territorio dell’Unione complessivamente inteso e, pertanto privato del godimento effettivo del nucleo essenziale dei diritti conferiti da tale status (v. in tal senso, sentenze dell’8.3.2011, Ruiz Zambrano, C‑34/09, punti 43 e 44; del 15.9.2011, Dereci e a., C‑256/11, punti 66 e 67; dell’8.11.2012, Iida, C‑40/11, punto 71; dell’8.5.2013, Ymeraga e a., C‑87/12, punto 36, nonché del 10.10.2013, Alokpa e Moudoulou, C‑86/12, punto 32).
Nel caso di CS, il governo del Regno Unito eccepiva che la commissione di un reato era idonea a sottrarre la fattispecie al campo di applicazione del principio elaborato dalla Corte nella sentenza Zambrano.
In proposito, la Corte di Giustizia ha l’occasione di chiarire che l’art. 20 del TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro che prescriva l’espulsione verso uno Stato terzo di un cittadino di quest’ultimo che abbia subito una condanna penale, anche quando tale soggetto garantisca la custodia effettiva del figlio minorenne in tenera età, cittadino di tale Stato membro e ivi soggiornante senza aver mai esercitato il suo diritto alla libera circolazione, allorché l’espulsione obbligherebbe il minore ad abbandonare il territorio dell’Unione europea, così privandolo del godimento effettivo del nucleo essenziale dei suoi diritti in quanto cittadino dell’Unione. Una simile misura di espulsione può essere adottata solo quando la condotta dell’interessato costituisca una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave che pregiudichi un interesse fondamentale della società dello Stato membro e solo dopo una verifica di tutti gli interessi coinvolti.
Tale pronuncia è particolarmente significativa per quei Paesi membri che, come il Regno Unito, non estendono l’ambito di applicazione della direttiva 2004/38/CE ai familiari dei propri cittadini che non abbiano esercitato il diritto alla libertà di circolazione.
L’ordinamento italiano prevede, invece, espressamente l’applicabilità del d.lgs. n. 30/2007 ai soggetti non aventi la cittadinanza italiana che siano familiari di cittadini italiani e, in ogni caso, la direttiva 2004/38/CE troverebbe ad essi applicazione in forza del principio costituzionale di eguaglianza che vieta “discriminazioni a rovescio”. Pertanto, con riferimento all’ordinamento italiano, la decisione risulta meno significativa, anche se sempre rilevante in quanto conferma l’interpretazione restrittiva di nozioni quali l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale in materia.

 

Molto più significativa anche per l’ordinamento italiano risulta la sentenza della Corte di Giustizia del 13.9.2016, C-165/14, Rendon Marin. In quel caso, infatti, alcuni dei minori interessati non erano cittadini dello Stato membro di soggiorno (la Spagna), ma cittadini di uno Stato membro diverso (la Polonia); al padre, cittadino di Paese terzo che aveva in affido i minori, lo Stato membro di soggiorno aveva negato il rilascio di un permesso di soggiorno in ragione di una sentenza penale.
Con riferimento a tale fattispecie, la Corte di Giustizia ha avuto l’occasione di precisare i principi espressi nella sentenza del 19.10.2004, Zhu e Chen, C-200/02, dove già era stato osservato che «il rifiuto di consentire al genitore, cittadino di uno Stato terzo che abbia la custodia effettiva di un cittadino dell’Unione minorenne, di soggiornare insieme a tale cittadino nello Stato membro ospitante priverebbe di ogni efficacia il diritto di soggiorno di quest’ultimo, dal momento che il godimento del diritto di soggiorno da parte di un figlio minorenne implica necessariamente che tale minore abbia la facoltà di essere accompagnato dalla persona che ne garantisce effettivamente la custodia e, quindi, che detta persona possa risiedere con lui nello Stato membro ospitante durante tale soggiorno» (v. sentenze del 19.10.2004, Zhu e Chen, C‑200/02, punto 45, e del 10.10.2013, Alokpa e Moudoulou, C‑86/12, punto 28).
Quanto ai precedenti penali, nella decisione in esame, la Corte ricorda come, al fine di valutare se un provvedimento di allontanamento sia proporzionato all’obiettivo legittimo perseguito, nella specie la tutela dell’ordine pubblico o della pubblica sicurezza, «occorre tenere conto dei criteri enunciati all’articolo 28, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE, ossia la durata del soggiorno dell’interessato nel territorio dello Stato membro ospitante, la sua età, il suo stato di salute, la sua situazione famigliare ed economica, la sua integrazione sociale e culturale nello Stato membro ospitante e l’importanza dei suoi legami con il Paese d’origine. Il grado di gravità dell’infrazione deve essere anch’esso preso in considerazione nell’ambito del principio di proporzionalità».
Nel caso concreto, la condanna a pena detentiva da un lato era risalente nel tempo, dall’altra, era stata sospesa: tali indici portavano ad escludere che la persona potesse costituire una «minaccia attuale per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza».

 

2) Ricongiungimento familiare – Direttiva 2003/86/CE – Modalità di valutazione delle risorse economiche ai fini dell’accoglimento della domanda di ricongiungimento familiare

Quanto al ricongiungimento famigliare, alla Corte di Lussemburgo è stato chiesto se fosse conforme alla direttiva 2003/86/CE la legge spagnola in materia di ricongiungimento famigliare, nella parte in cui prevedeva che la domanda di ricongiungimento famigliare sarà negata qualora sia accertato che non sussiste una prospettiva di mantenimento delle risorse durante l’anno successivo alla data di presentazione della domanda (sentenza del 21.4.2016, causa C-558/14, Mimoun Khachab/Subdelegacion del Gobierno en Alava). Tale disposizione indica che la previsione di mantenimento di una fonte di reddito nel corso di tale anno verrà valutata tenendo conto dell’evoluzione delle risorse che il soggiornante ha percepito nel corso dei sei mesi precedenti la data di presentazione della domanda.
In proposito, la Corte di Giustizia ha ricordato come l’art. 17 della direttiva 2003/86/CE imponga una individualizzazione dell’esame delle domande di ricongiungimento (sentenza Chakroun, C-578/08, punto 48 nonché K e A, C-153/14, punto 51) e che le autorità nazionali competenti, nell’attuazione della direttiva 2003/86/CE e nell’esame delle domande di ricongiungimento familiare, devono effettuare una valutazione equilibrata e ragionevole di tutti gli interessi in gioco (v. in tal senso, sentenza O e a., C-536/11 e C-357/11, punto 81).
Quanto alla fattispecie normativa sottoposta alla sua attenzione, la Corte di Giustizia ritiene che «il periodo di un anno, nel corso del quale il soggiornante dovrebbe verosimilmente disporre delle risorse sufficienti, risulta ragionevole e non eccede quanto necessario per permettere di valutare, su base individuale, il rischio potenziale che il soggiornante debba ricorrere al sistema di assistenza sociale di tale Stato una volta ottenuto il ricongiungimento».
Dall’insieme di tali considerazioni, i giudici di Lussemburgo giungono alla conclusione che «l’articolo 7, paragrafo 1, lettera c) della direttiva 2003/86/CE deve essere interpretato nel senso che consente alle autorità competenti di uno Stato membro di fondare il rigetto di una domanda di ricongiungimento familiare su una valutazione in prospettiva della probabilità che il soggiornante mantenga oppure no le risorse stabili, regolari e sufficienti di cui deve disporre per mantenere se stesso e i propri familiari senza ricorrere al sistema di assistenza sociale di tale Stato membro nel corso dell’anno successivo alla data di presentazione della domanda, valutazione questa che si basa sull’evoluzione dei redditi del soggiornante nel corso dei sei mesi che hanno preceduto tale data».

  

La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo

1) Art. 8 e diritto all’unità famigliare delle coppie dello stesso sesso

Nel 2016, la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha trattato in ben due occasioni il tema del ricongiungimento famigliare delle coppie dello stesso sesso, affermando che l’art. 8 Cedu osta ad una normativa che non consenta l’unità famigliare.

Con una prima decisione del 23.2.2016 (Pajić c. Croazia), la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha condannato la Croazia per il mancato rilascio di permesso di soggiorno ad una cittadina bosniaca che aveva una relazione stabile da più di due anni con una cittadina bosniaca, nonostante la normativa sull’immigrazione croata consentisse il ricongiungimento anche a favore delle coppie conviventi, con evidente discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale.
La Corte europea ha ritenuto che nella fattispecie vi fosse stata una violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione) congiuntamente all’art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e famigliare). Ha considerato in particolare che la legge sugli stranieri bosniaca avesse previsto una differenza di trattamento tra coppie dello stesso sesso e coppie eterosessuali, riservando la possibilità di fare domanda di permesso di soggiorno solo alle coppie di sesso differente. Nelle proprie difese, il Governo croato non aveva dimostrato che la differenza di trattamento fosse necessaria per raggiungere uno scopo legittimo o fosse giustificata da un’altra ragione convincente.
Nel corso del 2016, la Corte di Strasburgo ha deciso anche il caso Taddeucci e McCall c. Italia (decisione del 30.6.2016). Il caso riguardava l’impossibilità per un cittadino italiano e un cittadino neozelandese di vivere insieme in Italia in ragione del rifiuto delle autorità italiane di rilasciare al cittadino neozelandese un permesso di soggiorno, dal momento che la legge italiana non riconosceva il diritto al ricongiungimento famigliare per le coppie non sposate.
Con questa decisione i giudici di Strasburgo asseverano che il rifiuto del rilascio di un permesso di soggiorno nella fattispecie costituisce una ingiustificata discriminazione, rilevante ai sensi dell’art. 14, congiuntamente all’art. 8 della Convenzione.
La Corte afferma in particolare che la situazione dei ricorrenti, una coppia dello stesso sesso, non era equiparabile a quella di una coppia eterosessuale non sposata. Dal momento che i ricorrenti non potevano sposarsi, né, al momento del ricorso, formalizzare alcuna unione giuridicamente rilevante, essi non potevano essere classificati come “coniugi” ai sensi del diritto interno. L’interpretazione restrittiva della nozione di membro della famiglia non teneva conto dell’impossibilità per una coppia omosessuale di ottenere il riconoscimento della loro unione, circostanza che costituiva, per le coppie dello stesso sesso, un ostacolo insuperabile all’ottenimento di un permesso di soggiorno per motivi famigliari. Per tale ragione, la Corte ritiene che avendo trattato le coppie dello stesso sesso nello stesso modo delle coppie eterosessuali non sposate, l’Italia aveva violato il diritto dei ricorrenti a non essere soggetti ad un trattamento discriminatorio fondato sull’orientamento sessuale nel godimento dei loro diritti ai sensi dell’art. 8 Cedu.

 

2) Art. 8 e diritto al soggiorno del figlio di un cittadino straniero naturalizzato

Con la decisione dell’8.11.2016, caso Ustinova c. Russia (ric. 7994/14) la Corte europea ha affermato che il rifiuto, da parte delle autorità nazionali, di concedere un permesso di soggiorno al figlio di un cittadino straniero naturalizzato, senza operare un corretto bilanciamento tra il benessere del minore (che deve considerarsi prevalente) e l’interesse pubblico legato al controllo dei flussi migratori, determina una violazione dell’art. 8 Cedu.
La decisione non ha effetti innovativi per l’ordinamento italiano, dal momento che, da un lato, la legge italiana prevede che il minore convivente con il genitore divenuto italiano acquisti a sua volta la cittadinanza, dall’altro, ai famigliari dei cittadini italiani è applicabile il d.lgs. n. 30/2007 (come previsto dall’art. 22 del medesimo decreto legislativo) e, in ogni caso, l’art. 19, d.lgs. n. 286/1998 prevede il divieto di espulsione sia dello straniero convivente con parenti entro il secondo grado o con il coniuge, di nazionalità italiana, sia dello straniero minore di diciotto anni.
La decisione è comunque rilevante, dal momento che è espressione dell’emergere di un principio di ordine pubblico europeo di tutela del minore straniero, idoneo a imporsi in tutti gli Stati facenti parte del Consiglio d’Europa.

 

La giurisprudenza interna

Permesso di soggiorno per minori stranieri

Come si è visto, l'art. 10 della legge europea 2015-2016 (legge n. 122/2016) ha modificato la previgente disciplina del permesso di soggiorno per minori stranieri, prevedendo che «al figlio minore dello straniero con questi convivente e regolarmente soggiornante» venga rilasciato «un permesso di soggiorno per motivi familiari valido fino al compimento della maggiore età ovvero un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo». Viene così abolita la distinzione tra minori infra-quattordicenni (per i quali la normativa previgente prevedeva l'iscrizione nel permesso di soggiorno o nel permesso di soggiorno UE di uno o di entrambi i genitori) e minori ultraquattordicenni per i quali era già previsto il rilascio di un permesso di soggiorno valido fino al compimento della maggiore età. Sempre in tema di permesso di soggiorno per minori stranieri, si segnala la sentenza del Consiglio di Stato n. 2096/2016, con la quale è stata confermata in appello la pronuncia con cui il TAR Emilia Romagna-Bologna ha ritenuto l'illegittimità del diniego di rilascio del permesso di soggiorno per minore età nei confronti di minore straniero non accompagnato, sottoposto a tutela, la cui domanda di permesso di soggiorno è stata depositata pochi giorni prima del raggiungimento della maggiore età. La decisione del Consiglio di Stato è fondata sul principio per cui la condizione del minore straniero sottoposto a tutela deve essere assimilata a quella del minore in affidamento (Corte cost., sent. n. 128/2003), con la conseguenza che il rilascio del permesso di soggiorno, in un caso come quello in esame, rientra nelle previsioni di cui all'art. 31, TU e deve pertanto considerarsi come un atto dovuto, non residuando alla Questura alcuno spazio di valutazione discrezionale della relativa domanda di permesso di soggiorno.

 

Ricongiungimento familiare e unioni civili tra persone dello stesso sesso

Come si è visto, una novità di grande importanza anche per la disciplina della tutela dell'unità familiare dei cittadini stranieri in Italia è stata introdotta a seguito dell'entrata in vigore della legge Cirinnà, n. 76/2016, recante disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e delle convivenze di fatto. L'articolo 1, co. 20 della legge prevede infatti che qualsiasi tipo di disposizione che si riferisca al matrimonio e che contenga le parole «coniuge», «coniugi», o termini equivalenti si applica anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, al fine di assicurare l'effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile. Rientrano dunque appieno nella previsione tutte le disposizioni del testo unico immigrazione e del regolamento di attuazione che fanno riferimento al matrimonio ed al coniuge. Tra queste, in particolare, devono certamente annoverarsi quelle che prevedono il diritto dello straniero al ricongiungimento e alla coesione familiare con il coniuge, così come quelle che prevedono il divieto di espulsione dello straniero convivente con il coniuge cittadino italiano.

La legge non prevede invece analoga equiparazione per le convivenze di fatto. Ciononostante, la I sez. pen. della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 44182/2016, ha ritenuto che anche la nuova convivenza di fatto riconosciuta debba considerarsi come condizione d’inespellibilità (sul punto, cfr. la Rassegna di giurisprudenza su allontanamento e trattenimento).

 

Espulsioni e tutela del diritto alla vita privata e familiare

Di particolare interesse risulta essere nel 2016 l'evoluzione della giurisprudenza di merito e di legittimità riguardante l'estensione alla disciplina dell'espulsione (art. 13, co. 2bis, TU) dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 202/2013, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità dell'art. 5, co. 5, TU, nella parte in cui prevede che l'Amministrazione, nelle decisioni riguardanti il titolo di soggiorno, debba tener conto della natura ed effettività dei vincoli familiari, della durata del soggiorno e dell'esistenza di legami con il paese di origine solo nei confronti dello straniero che abbia esercitato il diritto all'unità familiare o che ne abbia beneficiato, e non invece nei confronti di qualsiasi straniero che abbia “legami familiari” in territorio italiano. Rinviando alla Rassegna di giurisprudenza su allontanamento e trattenimento per una più diffusa trattazione delle ragioni e degli effetti dell'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 13, co. 2bis, di cui all'ordinanza n. 14176/16, si evidenzia in questa sede come la Corte di Cassazione sia pervenuta a risultati analoghi, pur senza menzionare l'art. 13, comma 2bis, già con l'ordinanza n. 3004/2016, riguardante un caso di espulsione di genitore straniero che, avendo usufruito di un periodo di autorizzazione alla permanenza in Italia ai sensi dell'art. 31, comma 3, TU, non ne aveva chiesto tempestivamente il rinnovo. Richiamando l'analogo principio di diritto già espresso con l'ordinanza n. 12006/14, l'illegittimità dell'espulsione, consistente nel non aver in alcun modo enunciato per quale motivo il provvedimento «non contenga alcun riferimento alle ragioni per cui non è stata presa in considerazione la sua situazione familiare», viene ritenuta per «violazione della clausola di salvaguardia della coesione familiare di cui all'art. 5, co. 5, e 31, co. 3» del TU.

 

Questioni processuali

Con l'ordinanza n. 13815/2016, la Corte di Cassazione ha affrontato il tema del rito applicabile all'impugnazione in appello avverso l'ordinanza pronunciata dal Tribunale in composizione monocratica a seguito di ricorso ex art. 20 d.lgs. 150/2011 e art. 30, co. 6, TU., che si svolge con rito sommario, contro le decisioni dell'amministrazione in materia di diritto all'unità familiare. Con la decisione citata, la Suprema Corte ribadisce l'orientamento già espresso in proposito con le ordinanze n. 14502/2014 e n. 26326/2014, pervenendo alla conclusione che l'appello in questione debba essere proposto con atto di citazione ex art. 702quater c.p.c., e non con ricorso. Pertanto, la tempestività dell'impugnazione va accertata con riferimento al termine di trenta giorni dalla data di comunicazione o notificazione dell'ordinanza appellata.

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