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Fascicolo 1, Marzo 2018


«Tutti chiedono la stessa cosa. Dove andiamo? Per me non andiamo mai da nessuna parte. Siamo sempre in viaggio. Sempre in cammino. Perché a questa cosa non ci pensa nessuno? Oggi tutto si sposta. La gente si sposta. Sappiamo perché e sappiamo come. La gente si sposta perché lo deve fare. Ecco perché la gente si sposta. Si sposta perché vuole qualcosa di meglio. E quello è l’unico modo per trovarselo».

 (John Steinbeck, Furore, Bompiani ˗ Tascabili ˗, 2013, tr. Sergio Claudio Perroni)

Cittadinanza e apolidia

 
Le pronunce in materia di cittadinanza, sempre nella prospettiva del suo acquisto o riconoscimento, e di apolidia emesse nel periodo qui considerato, settembre-dicembre 2017 (ad eccezione di una sentenza più risalente), mostrano – sia pure in maggiore o minor misura – spunti insoliti in relazione ad orientamenti per lo più consolidati.
Del tutto innovativa risulta invece una rilevante sentenza della Corte costituzionale, dedicata al giuramento di fedeltà alla Repubblica il quale conclude il procedimento di attribuzione della cittadinanza per naturalizzazione.
 
Acquisto della cittadinanza per filiazione.
Il copioso filone giurisprudenziale relativo al diritto al riconoscimento dello status civitatis italiano in capo ai figli di madre ex cittadina si arricchisce di una nuova sentenza del Supremo Collegio (Cass., sent. 3.8.2017 n. 19428). L’usuale ambito di efficacia della sentenza costituzionale 16.4.1975 n. 87 (la quale, unitamente all’altra sentenza costituzionale, 9.2.1983 n. 30, consente appunto di giungere al riconoscimento suddetto ex tunc) è stato qui ulteriormente ampliato al caso di una cittadina italiana che aveva rinunciato nel 1950 allo status originario al fine di poter contrarre matrimonio con un cittadino egiziano, come prescritto dal d.l. n. 19 del 1929 di quello Stato congiuntamente all’adesione alla fede musulmana. Sebbene a stretto rigore la pronuncia costituzionale n. 87/1975 abbia dichiarato illegittimo l’art. 10, co. 3, della legge sulla cittadinanza 13.6.1912 n. 555 nella parte in cui disponeva la perdita automatica della cittadinanza per la moglie che – altrettanto automaticamente – acquistasse la cittadinanza del marito per matrimonio, l’estensione degli effetti di tale sentenza alla fattispecie sottoposta alla Corte di Cassazione ne coglie in modo ineccepibile la ratio, diretta a ripristinare la parità tra i sessi e tra i coniugi.
Sotto questo profilo, il dispositivo della sentenza qui esaminata appare anzi meno dirompente di quello della precedente ord. 5.11.2015 n. 22608 (cfr. questa Rassegna, fasc. 1/2017), nella quale il Supremo Collegio ampliava la suddetta ratio e i suddetti effetti alla fattispecie relativa alla rinuncia di una donna alla cittadinanza, effettuata in base all’art. 8, co. 1, della legge n. 555/1912.
In ogni caso, al di là della svista in cui è incorsa la Corte di Appello di Roma nella sentenza qui impugnata, qualificando il d.l. egiziano quale provvedimento ad hoc nei confronti della cittadina italiana, meritano di essere segnalati due ulteriori aspetti.
Anzitutto, l’immediato riconoscimento della cittadinanza italiana nei confronti dei figli ricorrenti con la conseguente prescrizione delle relative annotazioni agli organi competenti; in secondo luogo, un non trascurabile excursus sul principio iura novit curia in riferimento al diritto straniero e al conseguente obbligo di conoscenza che incombe sul giudice, soprattutto a seguito dell’art. 14 della l. di diritto internazionale privato 31.5.1995 n.218, sia pure avvalendosi anche della (sempre auspicata) collaborazione delle parti.
 
Acquisto della cittadinanza “per elezione”.
L’acquisto volontario della cittadinanza italiana a favore dei cittadini stranieri o apolidi nati e residenti legalmente e ininterrottamente in Italia sino al compimento della maggiore età, previsto dall’art. 4, co. 2., della l. 5.2.1992 n. 91, successivamente modificato ad opera dell’art. 33 della l. 9.8.2013 n. 98, è stato oggetto di due pronunce. Nella prima (Trib. Roma, sent. 27.11.2017 n. 22163, in Banca dati De Jure) il Tribunale, dopo aver accolto la domanda del richiedente, il quale allegava idonea documentazione (certificati scolastici e risultanze anagrafiche) per sopperire alla mancanza del permesso di soggiorno per un certo periodo di tempo, ha tuttavia contestualmente respinto la domanda (inusuale) di risarcimento dei danni derivanti dal rifiuto opposto dal Comune di Roma al riconoscimento della cittadinanza in quanto ritenuta “del tutto generica”.
Di maggior rilievo appare l’altra decisione (Trib. Palermo, sent. 12.9.2017 n. 4606, in Banca dati De Jure), poiché affronta il problema relativo alla retroattività del suddetto art. 33 e lo risolve in senso favorevole all’aspirante cittadino. Quest’ultimo infatti rivendicava il diritto alla cittadinanza pur non avendo emesso alcuna dichiarazione di volontà in tal senso nel periodo compreso tra il diciottesimo ed il diciannovesimo anno di età, come prescritto dalla legge (ed ovviamente essendo in possesso della documentazione sulla ininterrotta residenza in Italia), lamentando la mancanza di una apposita comunicazione da parte del Comune; invero, tale comunicazione non avrebbe potuto essere effettuata in quanto nel periodo sopra indicato la l. n. 94/2013 non era ancora in vigore.
Tuttavia, ad avviso del Tribunale, l’art. 33, oltre ad ampliare la portata dell'art. 4 della l. n. 91/1992, «assolve ad una funzione interpretativa e di regolamentazione delle situazioni regolate dallo stesso art. 4 senza alcuna limitazione temporale in ordine alla relativa area applicativa al fine di evitare che gravino sull'avente diritto eventuali ritardi o omissioni a lui non imputabili». Perciò, alla luce della rilevanza di rango costituzionale dei diritti della persona, «l'art. 33 della l. n. 98/2013 va ritenuto applicabile anche a situazioni antecedenti all'entrata in vigore della suddetta legge, come nel caso di specie (v. in tal senso anche Trib. Firenze 11.12.2015)».
 
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione.
Spicca in questo contesto una pronuncia della Corte costituzionale (Corte cost., sent. 7.12.2017 n. 258), la quale era chiamata a giudicare sulla legittimità dell’art. 10 della l. n. 91/92, secondo cui il decreto di concessione della cittadinanza non ha effetto se la persona a cui si riferisce non presta, entro sei mesi dalla notifica del decreto medesimo, giuramento di fedeltà alla Repubblica e di ottemperanza alla Costituzione e alle leggi dello Stato, dell’art. 7, co. 2, del relativo regolamento di esecuzione n. 572/93, che conferma tale prescrizione, e dell’art. 25, co. 1, del d.p.r. 396/2000 sull’ordinamento dello stato civile, il quale dispone che l’ufficiale dello stato civile non può trascrivere il decreto di concessione della cittadinanza se prima non è stato prestato il suddetto giuramento.
Tali questioni erano state sollevate da un giudice tutelare (Trib. Modena, ord. 6.12.2016, in questa Rassegna, fasc. 2/2017) a seguito di un ricorso presentato da un amministratore di sostegno che lamentava l’impossibilità di un simile adempimento da parte di una persona affetta da disabilità a causa della sua condizione patologica, sulla cui ampia motivazione, corredata dalla prassi giurisprudenziale maturata al riguardo, ci siamo già soffermati.
Dal canto suo, la Corte costituzionale, dopo aver riconosciuto, nella fattispecie sottoposta al suo giudizio, la legittimazione del giudice tutelare, ha preliminarmente dichiarato inammissibili le questioni relative ai d.p.r. n. 572/1993 e n. 396/2000, in quanto, avendo come oggetto disposizioni di rango regolamentare, prive di forza di legge, risultano sottratte al sindacato di legittimità.
Essa ha invece dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 10 della legge sulla cittadinanza, «nella parte in cui non prevede che sia esonerata dal giuramento la persona incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di grave e accertata condizione di disabilità».
In particolare, la Corte ha dapprima condiviso con il giudice rimettente la impossibilità di
operare una lettura costituzionalmente orientata della suddetta norma alla luce dell’art. 54, co. 2, Cost., che sancisce appunto il dovere di fedeltà alla Repubblica; d’altra pare, proprio la natura del giuramento di cui all’art. 54 richiama direttamente, a suo avviso, i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
Viene così evocato l’art. 2 Cost., che impone il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili, «letto congiuntamente con l’art. 3, co. 2, Cost., il quale affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono la libertà e l’uguaglianza nonché il pieno sviluppo della persona”.
Poiché tra le condizioni personali che limitano l’eguaglianza si colloca ila condizione di disabilità, a tali norme occorre affiancare l’art. 38, co. 1, Cost. che riconosce il diritto all’assistenza sociale per gli inabili al lavoro, mentre al terzo comma riconosce agli «inabili» e ai «minorati» il diritto all’educazione e alla formazione professionale.
Dopo aver sottolineato l’incisiva rilevanza a tale riguardo della l. 5.2.1992, n. 104, «Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate» (curiosamente, emessa in pari data con quella sulla cittadinanza), ed aver ricordato la propria giurisprudenza garantista al riguardo, i giudici costituzionali hanno constatato che l’inserimento nella comunità nazionale delle persone che, in ragione di patologie psichiche di particolare gravità, siano incapaci di prestare il giuramento è impedito da tale imposizione normativa, qualora siano soddisfatte le altre condizioni previste dalla legge per l’acquisto della cittadinanza.
Ciò può determinare una forma di emarginazione sociale e una ulteriore e possibile forma di emarginazione, anche rispetto ad altri familiari che abbiano conseguito la cittadinanza.
Per di più, l’esonero dal giuramento deve operare a prescindere dal “tipo” di incapacità giuridicamente rilevante. Assume rilievo infatti esclusivamente l’impossibilità materiale di compiere l’atto in ragione di una grave patologia, e non la “precipua” condizione giuridica in cui versa il disabile; resta comunque fermo il potere del Procuratore della Repubblica di impugnare gli atti, le omissioni e i rifiuti dell’ufficiale di stato civile, ai sensi dell’art. 95, co. 2, del d.p.r. n. 396/2000, in caso di distorta applicazione della disciplina sull’esonero dal giuramento. Al termine, un sbrigativo cenno sull’assorbimento delle censure prospettate in relazione ai parametri internazionali e sovranazionali.
A questa rilevante pronuncia si affianca una decisione del giudice amministrativo (Tar Lazio, sez. II, sent. 4.7.2017 n. 7671), nella quale, da un lato, viene ribadito che nell’adozione del provvedimento di rigetto dell’istanza per la naturalizzazione non sussiste alcun limite temporale e che il mancato rispetto del termine di settecentotrenta giorni per la conclusione del procedimento “legittima soltanto il ricorso al giudice amministrativo per la dichiarazione dell'obbligo dell'Amministrazione di provvedere espressamente sulla domanda (Tar Lazio, sez. II - quater, sentenze n. 1171 del 2012; n. 4021 del 2012; n. 4369 del 2013)”; dall’altro, viene però accolto il ricorso contro tale provvedimento negativo del Ministero dell’interno, annullando perciò l’atto impugnato, poiché quest’ultimo si era rifiutato, malgrado i ripetuti inviti del Tribunale amministrativo, di fornire qualsiasi documentazione – sia pure debitamente “depurata” per ragioni di riservatezza – comprovante la sussistenza di gravi motivi per la sicurezza della Repubblica ai fini della concessione della cittadinanza italiana.
La motivazione dei giudici che sorregge la illegittimità di questo totale rifiuto è assai ampia. In sintesi, viene anzitutto richiamata la prassi giurisprudenziale consultiva del Consiglio di Stato sugli obblighi attinenti alla comunicazione delle informative, sia pure con le dovute cautele derivanti dalla necessaria tutela di documenti «classificati da riservatezza»; viene ribadito altresì il dovere della Pubblica Amministrazione di «ottemperare all'ordine del Giudice di rendere disponibile tale documentazione, laddove l'accesso si renda necessario per difendere interessi giuridici di chi ne abbia legittimamente titolo».
Per di più, l’atteggiamento della P.A. viene giustamente definito come controproducente, poiché comporta l'accoglimento del gravame – che costituisce una soluzione processualmente obbligata alla luce del fatto che il provvedimento impugnato è motivato con riferimento a fatti non adeguatamente comprovati in sede processuale – e non consente all'Amministrazione di negare la concessione della cittadinanza. Infine, viene anche evocato l’art. 113 Cost. e la giurisprudenza dei giudici del Palazzo della Consulta, la quale esclude che vincoli derivanti da valutazioni compiute da organi amministrativi possano condizionare la libertà di apprezzamento del giudice sul punto centrale di una controversia e, quindi, compromettere la possibilità per le parti di far valere i propri diritti dinnanzi all'Autorità giudiziaria con i mezzi offerti in generale dall'ordinamento giuridico.
 
Accertamento dell’apolidia.
Riguardo a questo settore, è stata emessa una ampia ed esauriente pronuncia della Corte di cassazione (Cass., 24.11.2017 n. 28153), la quale, anche sulla scorta delle proprie sentenze precedenti, illustra con chiarezza il percorso interpretativo da seguire per l’accertamento del suddetto status.
La fattispecie sottoposta al giudizio della Corte presentava di per sé aspetti inusuali, poiché – a differenza della maggior parte dei casi – era il Ministero dell’interno a ricorrere contro una decisione della Corte di appello di Roma che aveva dichiarato l’apolidia di un individuo. Il Ministero lamentava, da un lato, che tale dichiarazione era stata fondata sulla semplice mancanza di iscrizione anagrafica nello Stato straniero di riferimento (che non è dato conoscere a causa del testo oscurato della sentenza, da cui traspare solo un accenno ad uno Stato sorto dopo la dissoluzione dell’ex Repubblica iugoslava), dall’altro, che la legge di tale Stato consente l’acquisto della cittadinanza anche ai non residenti purché essi si attivino con una richiesta in tal senso. Tale richiesta risultava non essere stata mai presentata.
Da parte sua, il Supremo Collegio distingue anzitutto, sulla base dell'art. 1 della Convenzione di New York del 28.9.1954, due distinte situazioni di apolidia: l'apolidia originaria, condizione in cui il soggetto si trova fin dalla nascita; e, come nel caso di specie, l'apolidia successiva (o "derivata"), consistente nella perdita della cittadinanza di origine cui non segua l'acquisto di alcuna nuova cittadinanza; e rammenta altresì che i fatti costitutivi del diritto al riconoscimento dello status di apolide sono, da un lato, la condizione di soggetto privo di qualsiasi cittadinanza, dall'altro, la residenza nel territorio dello Stato italiano. Riguardo ai primi, l'onere della prova gravante sul soggetto istante è riferibile esclusivamente allo Stato o agli Stati con cui egli intrattenga o abbia intrattenuto rapporti significativi, ovvero, produttivi dell'effetto di acquisizione automatica o a domanda dello status civitatis, ad esempio per nascita o per residenza. D’altro canto, non è necessario che venga allegato un atto formale privativo di tale status, dato che assume rilievo piuttosto la complessiva situazione sostanziale del soggetto rispetto allo Stato o agli Stati di riferimento.
Proprio in questa prospettiva, l'onus probandi che grava sul soggetto interessato deve ritenersi attenuato, nel senso che eventuali lacune o necessità d'integrazione istruttoria devono essere colmate con l'esercizio di poteri-doveri istruttori officiosi da parte del giudice, realizzabili mediante la richiesta di informazioni o di documentazione alle autorità pubbliche competenti dello Stato italiano o dello Stato di origine o dello Stato verso il quale può ravvisarsi un collegamento significativo con il richiedente medesimo. Appare evidente che questa statuizione della Suprema Corte introduce un elemento di novità nell’iter del procedimento in esame.
Riguardo poi al valore probatorio delle certificazioni attestanti l'assenza di iscrizione nei registri anagrafici stranieri, esse non costituiscono, di per sé stesse, prova sufficiente della mancanza dello status civitatis, laddove non venga dedotta alcuna precedente richiesta di iscrizione in tali registri. Dunque, l'omessa registrazione, da attribuirsi all'inerzia del soggetto interessato, non assume valore decisivo in merito al mancato possesso della cittadinanza estera.
A questo punto, la Corte opera un ampio – e altrettanto innovativo – richiamo alle «Linee guida in materia di apolidia» elaborate dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dalle quali trae ulteriori indicazioni. In primo luogo, il giudizio sull'apolidia è sempre un giudizio in fatto e in diritto: è necessario verificare, da un lato, che cosa preveda la legge straniera nel caso concreto; dall'altro, quale sia l'atteggiamento dello Stato nei confronti di quel determinato individuo o, se ciò non sia possibile, nei confronti delle persone nella sua stessa posizione. Qualora fatto e diritto non coincidano, deve prevalere la posizione di tali autorità rispetto alla lettera della legge.
Riguardo poi alla seconda questione, relativa all'onere del richiedente di dimostrare l'impossibilità di acquistare la cittadinanza di quello Stato, ovvero del rifiuto opposto dalle autorità straniere competenti, sono le stesse Linee guida a chiarire il "fatto" (ad esempio, una certificazione anagrafica) deve essere illuminato dal "diritto" (la legge straniera sulla cittadinanza), allo scopo di verificare quali siano le condizioni cui lo Stato con cui il richiedente ha un collegamento subordina l'acquisto dello status civitatis nonché a distinguere tra il soggetto che potrebbe ottenere lo status di cittadino, da parte dello Stato cui è legato, attraverso semplici adempimenti di carattere burocratico o amministrativo, e il soggetto che, nella medesima condizione, potrebbe tuttavia ottenere tale status soltanto attraverso l'integrazione di condizioni più onerose, quale la residenza.
Dunque, non può essere riconosciuto lo status di apolidia sulla base della mera allegazione della mancanza d'iscrizione nei registri anagrafici del Paese più prossimo.
Viene infine sottolineato che il dovere di cooperazione istruttoria officiosa del giudice del merito – da realizzarsi (come già rilevato) non soltanto sulla base di una rigorosa conoscenza della legge sulla cittadinanza del Paese maggiormente collegato al soggetto interessato, ma anche con una eventuale richiesta di informazioni presso le autorità competenti relativamente ai requisiti ed alle condizioni effettive per il riconoscimento dello status civitatis – non esclude l'onere del richiedente di allegare non solo di non essere cittadino degli Stati di prossimità, ma anche di fornire indicazioni sugli elementi impeditivi al riconoscimento dello status in questione.
Oltre a questa pronuncia, si deve segnalare che, dal canto loro, ancora una volta i giudici di merito hanno accolto una domanda relativa agli effetti della dissoluzione della ex Repubblica socialista federativa di Jugoslavia Si trattava in questo caso di una ex cittadina di tale Stato, dov'era nata, la quale non aveva tuttavia potuto acquistare la cittadinanza della Repubblica di Montenegro, Stato subentrante al primo, per difetto di residenza in quel territorio nel momento previsto a tale scopo dalle norme del nuovo Stato. (Trib. Roma, sent. 18.12.2017 n. 23576, in Banca dati De Jure).
In questa occasione, il Tribunale, vagliando i requisiti necessari per l’accertamento dello status di apolide, prospetta e respinge l’ipotesi per cui l'interessato possa in linea di principio richiedere e così acquistare la cittadinanza dello Stato straniero di riferimento, poiché “una siffatta modalità di acquisto della cittadinanza potrebbe riguardare in astratto qualsiasi Stato”; persiste invece la valutazione, quale parametro suppletivo, della mancata commissione di crimini ai sensi dell'art. 12, par. 3, della Convenzione di New York del 28.9.1954 relativa appunto allo statuto degli apolidi. Come è già stato qui sottolineato riguardo a una precedente sentenza (Trib. Roma, sent. 1.6.2017, n. 11197, in questa Rassegna, fasc. 3/2017), l’articolo in questione (oltre a non recare un par. 3) riguarda lo statuto personale, ovvero di diritto internazionale privato, dell’apolide; e, in linea generale, che un simile criterio non è previsto dalla Convenzione stessa.

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