Nel secondo quadrimestre del 2018 sia la Corte costituzionale, sia la Corte di Cassazione sono intervenute richiamando il rispetto dei precisi obblighi assunti dallo Stato nel contesto dell’Unione europea, in tema di trattamento dei cittadini stranieri sottolineando che il legislatore nazionale deve agire nei limiti imposti dal principio di non discriminazione e di ragionevolezza, più volte enunciati dalla Corte costituzionale.
Tuttavia ancora nel corso del secondo quadrimestre del 2018 i giudici di merito sono nuovamente dovuti intervenire sia per affermare la diretta applicabilità dell’art. 12 della direttiva 2011/98/UE con conseguente disapplicazione delle norme nazionali sulla base delle quali l’INPS rifiuta la erogazione delle prestazioni sociali, sia per evidenziare la presenza di requisiti discriminatori inseriti nei bandi di concorso per l’accesso all’impiego pubblico o alla formazione.
Requisiti di residenza
La Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi su un rinvio della Sezione lavoro della Corte di Appello di Milano in una causa promossa per far accertare il carattere discriminatorio della deliberazione della Giunta della Regione Lombardia «n. X/3495» del 30 aprile 2015, nonché delle determinazioni del Comune di Milano «PG n. 264079» dell’8 maggio 2015 e «n. 68/2015 - prot.» del 12 maggio 2015, nella parte in cui fissano i requisiti necessari per l’accesso al Fondo «sostegno affitti» (recte: «sostegno alla locazione 2015 per i cittadini in grave disagio economico»). Nell’ordinanza di rimessione era stato evidenziato che l’impugnata delibera della Giunta della Regione Lombardia era frutto di una iniziativa regionale finanziata dal fondo di cui alla legge n. 431 del 1998 a cui sono aggiunte risorse regionali, confluite nel «Fondo Sostegno “Grave Disagio Economico 2015”» e che, quanto ai criteri per l’accesso a tale fondo, la stessa ricalcava quelli previsti dal legislatore statale, come modificati nel 2008 ed in particolare che, nel caso in cui i richiedenti non fossero cittadini italiani o di altro Stato dell’Unione europea, era condizione di ammissione la certificazione della residenza almeno decennale nel territorio nazionale ovvero quinquennale nel territorio della Regione Lombardia. Tale requisito trovava fondamento nell’art. 11, co. 13, d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella l. n. 133 del 2008 e quindi, a giudizio del remittente, tale norma offriva una base legale al provvedimento amministrativo discriminatorio oggetto del giudizio. La Corte costituzionale, ritenuta ammissibile la questione, dopo un’accurata disamina della normativa nazionale ed europea, ha affermato che «la certificazione della residenza almeno decennale nel territorio nazionale ovvero quinquennale nel territorio della Regione Lombardia … introduce una irragionevole discriminazione a danno dei cittadini di paesi non appartenenti all’Unione europea», sia in quanto «il censurato art. 11, comma 13, prevede, solo per gli «immigrati» una certa durata della residenza, tanto a livello nazionale quanto in territorio regionale; per i cittadini italiani ed europei tale requisito non è richiesto…», sia in quanto «trattandosi di una provvidenza che, alla luce della scarsità delle risorse destinabili alle politiche sociali nell’attuale contesto storico, viene riservata a casi di vera e propria indigenza, non si può ravvisare alcuna ragionevole correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni abitativi primari della persona che versi in condizioni di povertà e sia insediata nel territorio regionale, e la lunga protrazione nel tempo di tale radicamento territoriale (sentenze n. 222 del 2013, n. 40 del 2011 e n. 187 del 2010)».
Pertanto con sentenza del 20 giugno 2018, n. 166 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, co. 13, del d.l. 25.6.2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella l. 6.8.2008, n. 133 per violazione dell’art. 3 Cost.
Pensione di invalidità civile
La Corte di Cassazione con ord. n. 23763 del 1.10.2018 (in Banca dati ASGI) è intervenuta affermando che ai fini del riconoscimento delle prestazioni sociali, volte a rispondere a bisogni primari della persona non è consentita nel nostro ordinamento, ai sensi degli artt. 2 e 3 Cost., nessuna differenziazione tra cittadini italiani e stranieri che hanno titolo al soggiorno nel territorio dello Stato italiano. L’erogazione della pensione di invalidità civile a uno straniero non può dunque essere subordinata al possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo.
Bonus bebè
In relazione al c.d. bonus bebè previsto dall’art. 1, co. 125 della l. n. 190/14, si richiama l’ord. 1.8.2018 del Tribunale di Monza (in Banca dati ASGI) nella quale si afferma che l’eliminazione della condotta discriminatoria non si consegue solamente attribuendo la prestazione ai soggetti legittimati, ma nel contempo ordinando all’INPS di darne pubblicità sul sito istituzionale e di adeguare i moduli online di richiesta della prestazione, aderendo all’indirizzo giurisprudenziale del Tribunale di Bergamo che già si era espresso in merito alla necessità di imporre all’istituto un comportamento conforme alla legge, sottolineando l’obbligo per l’INPS di dare corretta informazione al pubblico.
Si ribadisce nel testo del provvedimento in esame quanto già evidenziato dalla giurisprudenza di merito maggioritaria e cioè che l’art. 1, co. 125, l. 190/2014, nella parte in cui riconosce il bonus bebè ai soli cittadini stranieri titolari di permesso di soggiorno UE per i soggiornanti di lungo periodo, contrasta con quanto disposto all’art. 12 della dir. 2011/98/UE che riconosce ai titolari di permesso unico lavoro la parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro di soggiorno in materia di sicurezza sociale nella quale rientra il beneficio in questione riconducibile alle prestazioni familiari di cui all’art. 3, co. 1, lett. j) del reg. 883/2004/CE.
Assegno di natalità
L’esclusione della prestazione prevista dall’art. 1, co. 353, l. 232/2016 alle cittadine extra UE titolari di un permesso unico lavoro istituita tramite circolare INPS 39/2017, che ha esteso a suddetto beneficio i medesimi requisiti previsti per il bonus bebè, è stata reputata dai giudici di merito comportamento discriminatorio, sia in quanto non sussiste alcun potere in capo all’Istituto di restringere i potenziali beneficiari della prestazione, sia perché una tale limitazione contrasta con il principio di parità di trattamento di cui all’art. 12 della dir. 2011/98/UE che, in quanto sufficientemente chiaro preciso e incondizionato, è dotato di efficacia diretta. Al riguardo si richiamano le ordinanze della Corte di Appello di Milano in data 15.5.2018 e del Tribunale di Treviso in data 30.5.2018 (in Banca dati ASGI).
Assegno per il nucleo familiare
Il Tribunale di Pavia con ord. 6.6.2018 (in Banca dati ASGI) si è pronunciato sul comportamento discriminatorio posto in essere dall’INPS, in relazione alla mancata concessione ai cittadini di paesi terzi, titolari di permesso di soggiorno a fini lavorativi o lungo soggiornanti, i cui familiari a carico risultino residenti all’estero, dell’assegno per il nucleo familiare di cui all’art. 2, l. 153/1988 aderendo all’orientamento del Tribunale di Alessandria (vedi nella rubrica n. 2/2018 il richiamo all’ordinanza del 1.3.2018 in Banca dati ASGI), che già aveva evidenziato che tale comportamento costituisce una discriminazione collettiva per ragioni di nazionalità per violazione del principio direttamente applicabile di parità di trattamento di cui all’art. 12 della dir. 2011/98/UE e all’art. 11 della dir. 2003/109/CE.
La Corte d’Appello di Brescia con sentenza del 16.7.2018 (in Banca dati ASGI) ha confermato la pronuncia del Tribunale di Brescia (rigettando la tesi dell’INPS secondo la quale gli assegni per il nucleo famigliare non sarebbero una prestazione assistenziale di carattere essenziale) richiamando la giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha da tempo chiarito che «l’assegno per il nucleo familiare, disciplinato dall’art. 2 del d.l. 13 marzo 1988, n.69, convertito in legge 13 maggio 1988, n.153 – finalizzato ad assicurare una tutela in favore delle famiglie in stato di effettivo bisogno economico ed attribuito in modo differenziato in rapporto al numero dei componenti ed al reddito del nucleo familiare, tenendo conto dell’eventuale esistenza di soggetti colpiti da infermità o difetti fisici o mentali (e quindi nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro) ovvero minorenni che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età – ha natura assistenziale, … (cfr. Cass. 6351/2015)». Inoltre la Corte giunge ad accertarne anche il carattere di essenzialità. Ricondotta la prestazione nell’ambito di operatività della lett. d), del primo paragrafo dell’art. 11 della direttiva 2003/109, la Corte d’Appello ha affermato che «la deroga al principio di parità di trattamento nella materia in esame non può ritenersi conforme alla normativa europea» e costituisce una oggettiva discriminazione. Da ultimo la Corte ha sottolineato che, una volta cessato il rapporto di lavoro, la somma deve essere pagata direttamente dall’INPS essendo l’istituto l’unico obbligato all’erogazione degli assegni familiari ed ha confermato, anche sotto questo profilo, la sentenza di primo grado. Degna di nota è la circostanza che la Corte abbia accolto l’appello incidentale sulle spese formulato dalla parte appellata, evidenziando che il giudice di primo grado aveva errato nel disporre l’integrale compensazione delle spese che «non risulta giustificata posto che la questione è oramai nota e sussistendo varie altre pronunce (seppure solo di merito) favorevoli a ricorrenti nelle stesse condizioni dell’odierno appellato».
Assegno sociale
La Corte di Appello di Firenze, con sentenze del 22.5.2018 e del 28.6.2018 in diversa composizione (in Banca dati ASGI) ha evidenziato che l’erogazione dell’assegno sociale di cui all’art. 3, co. 6, l. 335/1995, sia per i cittadini italiani che per gli stranieri, è subordinata al requisito del soggiorno legale in Italia per dieci anni continuativi previsto dall’art. 20, co. 10, d.l. n. 112/2008 conv. l. n. 133/2008 e che tale previsione supera l’esigenza del possesso della carta di soggiorno di lungo periodo. Per dimostrare il soggiorno legale in Italia per dieci anni continuativi è sufficiente il possesso di più permessi di soggiorno reiterati della durata complessiva e continuativa di dieci anni e l’iscrizione anagrafica. Richiamato il regolamento anagrafico della popolazione residente di cui al d.p.r. n. 223/89 e successive modificazioni, la Corte ha concluso che qualora il richiedente sia iscritto all’anagrafe per il periodo continuativo di dieci anni è onere dell’INPS provare che il soggiorno in Italia sia stato interrotto per significativi periodi «ad es. richiedendo ex art. 210 c.p.c. l’esibizione del passaporto».
l Tribunale di Monza con sentenza in data 7.8.2018 (in Banca dati ASGI) si è pronunciato sul contenuto dell’art. 41 TU affermando che «l’assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali, sono concesse alle condizioni previste dalla legislazione medesima, agli stranieri che siano titolari di carta di soggiorno». Sicché, ad avviso del giudice, l’interpretazione restrittiva dell’INPS che pretende di affermare che la carta di soggiorno di cui alla legge n. 388/2000 sia da riferirsi unicamente al titolo «permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo» e non anche al diverso titolo di soggiorno relativo ai familiari di cittadini UE che continua a chiamarsi appunto carta di soggiorno non è fondata né sul dato testuale, né su alcuna ipotizzabile ratio legis. Il Tribunale ha sottolineato, richiamando in particolare un precedente della Corte di Appello di Firenze del 2017 che «l’art. 20, comma 10, d.l. 112/2008, convertito con legge con modificazioni nella legge n. 133/2008 ha previsto che “a decorrere dal 1° gennaio 2009, l’assegno sociale di cui all’art. 3 co. 5, l. 8 agosto 1995, n. 335, è corrisposto agli aventi diritto a condizione che abbiano soggiornato legalmente, in via continuativa, per almeno dieci anni nel territorio nazionale”. “Nell’interpretazione della normativa appena citata deve ritenersi che il requisito del soggiorno legale e decennale in Italia (richiesta pur anche agli stessi italiani dalla normativa del 2008, come ha notato Corte cost. 15.7.2016, n. 180) è venuto a superare l’esigenza del possesso della carta di soggiorno di lungo periodo per i cittadini extracomunitari: dovendosi aggiungere che l’interpretazione ora enunciata aderente al testuale e chiaro tenore delle disposizioni citate, risulta l’unica conforme alla Costituzione e alla normativa sovranazionale in materia (artt. 10, primo comma, e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848”, (Corte d’Appello di Firenze, sentenza n. 563 dell’11 maggio 2017)». Il Tribunale ha quindi concluso che il requisito del legale soggiorno in Italia per oltre dieci anni sarebbe da solo sufficiente, in presenza dei requisiti reddituali, ad affermare il diritto al conseguimento del beneficio richiesto, a prescindere da ogni considerazione sul titolo di soggiorno.
Ticket sanitario
Il Tribunale di Brescia, con ordinanza ex art. 700 c.p.c. in data 31.7.2018 (in Banca dati ASGI), ha dichiarato illegittimo il diniego opposto dalla competente ASST alla richiesta di rilascio di esenzione del cd. Ticket sanitario (codice E02) poiché assunto in violazione dell’art. 19, d.lgs. 150/2015, norma che aveva abrogato la distinzione tra disoccupati di lunga durata, inoccupati di lunga durata e stato disoccupazione di cui all’art. 1, co. 2, d.lgs. 181/2000 ed ha di conseguenza ordinato l’immediato rilascio dell’attestato di esenzione dalla compartecipazione alla spesa sanitaria ad un richiedente asilo per ragioni di assoluta indigenza, affermando il rischio di vedere definitivamente compromesse le possibilità di guarigione o di miglioramento in assenza di adeguate e costanti cure mediche. (Vedi anche Trib Roma, sez. lav., 13.6.2018 in Banca dati ASGI).
Formazione professionale
Il Tribunale di Nola, con ordinanza del 13.9. 2018, (in Banca dati ASGI) ha affermato che costituisce discriminazione la previsione, in un bando comunale, del requisito della cittadinanza italiana per accedere a un corso di formazione professionale per make up artist, stante anche l’impossibilità di applicare alla fattispecie le norme in materia di pubblico impiego e ciò alla luce delle previsioni di cui agli artt. 2 e 43 TU che garantiscono allo straniero parità di trattamento nell’accesso alla formazione professionale. Applicando quindi il disposto dell’art. 28, d.lgs. 150/2011 che consente al giudice di adottare, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti, il Tribunale ha ordinato al Comune di riaprire il bando ammettendo al corso tutte le straniere non comunitarie alle stesse condizioni di quelle italiane. Nel medesimo provvedimento il Tribunale ha invece rigettato la domanda risarcitoria formulata dalle associazioni ricorrenti (ASGI e CIDIS ONLUS ) in virtù della natura collettiva della discriminazione perpetrata, in difetto dei presupposti per il suo esercizio perché «trattandosi di Comune di piccole dimensioni e di bando riferito alle sole donne residenti con precisi requisiti anagrafici e senza occupazione, non sarebbe stato difficile individuare specificamente i soggetti potenzialmente lesi dalla discriminazione in commento, sicché difetta a monte il presupposto per un’azione collettiva».
Diritti di segreteria per certificazione alloggiativa
La Corte di Appello di Brescia con sentenza del 30.7.2018 (in Banca dati ASGI) è intervenuta in materia di diritti di segreteria per ottenere il rilascio di certificazione alloggiativa confermando la decisione impugnata (emessa dal Tribunale di Bergamo con sentenza del 16 agosto 2015) e ribadendo un indirizzo giurisprudenziale affermato anche dal Tribunale di Brescia (con sent. 18.7.2016). Ad avviso della Corte che, sul punto condivide quanto ritenuto dal Tribunale, la delibera è «apparentemente neutra in quanto la richiesta di certificazione di idoneità alloggiativa può riguardare sia gli italiani sia stranieri ma tale certificato è necessario per i cittadini stranieri per ottenere il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, per la stipulazione del contratto di soggiorno per lavoro subordinato, per richiedere il ricongiungimento familiare, per acquisire il permesso di soggiorno per motivi familiari, come prescritto dalle norme di riferimento per ciascun istituto menzionate nella parte motiva della sentenza impugnata. La indispensabilità della certificazione di idoneità alloggiativa per gli scopi enunciati rende evidente che l’interesse prevalente al rilascio è sussistente in capo agli stranieri e, soprattutto, che il suo ottenimento condiziona il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, di diritti umani e di libertà fondamentali dei cittadini stranieri». Inoltre la Corte di Appello ha escluso la applicazione della esimente rappresentata dall’art. 3, d.lgs. 215/2003 al quarto comma prevede che «non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari», perché l’entità dell’aumento (del 225% rispetto all’importo precedente) non appare giustificata e proporzionata. Secondo la Corte quindi rendere economicamente gravosa in modo non proporzionato la richiesta di rilascio di certificazione alloggiativa incide su diritti non meramente patrimoniali ma fondamentali dell’individuo ed è in ciò che va ravvisata la natura indirettamente discriminatoria dell’aumento che per la sua entità e per il rango degli interessi coinvolti, conduce al risultato di svantaggiare il cittadino straniero, creando un ostacolo, che può divenire anche preclusivo allo svolgimento di diritti umani e libertà fondamentali a danno quindi di una categoria connotata da una qualità protetta, costituita dalla nazionalità.
Lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione
Il Consiglio di Stato in
Adunanza plenaria con sentenza del 25.6.2018 n. 9 si è pronunciato sul ricorso in appello proposto dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo avverso la sentenza del TAR del Lazio che aveva affermato l'illegittimità della scelta di ammettere alla procedura candidati non aventi la cittadinanza italiana, ma quella di altro Stato dell'Unione europea (come il vincitore della selezione relativa al Palazzo Ducale di Mantova Peter Assmann, di nazionalità austriaca). In particolare si segnala che il Consiglio di Stato, dopo aver riformato tale decisione, ha enunciato, anche nell’interesse della legge, i princìpi di diritto che devono essere applicati: «1. Il Giudice amministrativo provvede in ogni caso a non dare applicazione a un atto normativo nazionale in contrasto con il diritto dell'Unione europea"; 2. L'art. 1, comma 1, del D.P.C.M. 174 del 1994 e l'art. 2, comma 1, del d.P.R. 487 del 1994, laddove impediscono in assoluto ai cittadini di altri Stati membri dell'UE di assumere i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato e laddove non consentono una verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative in relazione alla singola posizione dirigenziale, risultano in contrasto con il paragrafo 2 dell'art. 45 del TFUE e non possono trovare conseguentemente applicazione
».
Il Tribunale di Torino con ordinanza del 18.5.2018 (in Banca dati ASGI) si è pronunciato su un ricorso proposto dall’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione ai sensi degli art. 44, d.lgs. 286/1998, 4 d.lgs 215/2003 e 28 d.lgs 150/2011 avente ad oggetto l’accertamento del carattere discriminatorio del «Bando di selezione per la formazione di una graduatoria volta all'assunzione di personale operaio addetto alla manutenzione del verde», emesso dall’Azienda Servizi Territoriali Genova Spa con avviso del 19/10/2017, nella parte in cui indica tra i requisiti per l’ammissione la «Cittadinanza italiana o di Stato appartenente all’Unione Europea». Il Tribunale ha rilevato che non essendo «applicabile alle società a partecipazione pubblica l’art. 38 D.lgs 165/2001, che limita il novero dei soggetti che possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche, e non trovando nemmeno applicazione il principio di eterointegrazione, in ragione del fatto che l’illegittimo contenuto costituisce una discriminazione in quanto idoneo a dissuadere fortemente i candidati dal presentare le proprie candidature, è discriminatorio il bando per l’assunzione di operai addetti alla manutenzione del verde nella parte in cui esclude i cittadini dei Paesi terzi» ed ha ordinato all’Azienda Servizi Territoriali Genova Spa di modificare il bando del 19/10/2017, indicando espressamente che è consentita la partecipazione a tutti i cittadini di Paesi terzi in possesso di un titolo di soggiorno che consenta l’accesso al lavoro.
I Tribunali di Milano e di Firenze e di Roma hanno dovuto pronunciarsi in relazione ai bandi del Ministero della Giustizia che in applicazione del criterio organizzativo di cui all’art. 1, co. 1 del d.p.c.m. 174/1994, aveva inserito il requisito della cittadinanza italiana per la partecipazione. Tutti i giudici investiti della questione hanno ritenuto tale previsione di natura discriminatoria.
Il Tribunale di Milano con ordinanza del 11.6.2018 (in Banca dati ASGI) ha affermato che il bando del Ministero della Giustizia che prevede il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso alla funzione di mediatore culturale in carcere deve ritenersi illegittimo e pertanto discriminatorio in ragione della nazionalità, con conseguente ordine all’amministrazione di riaprire il bando prevedendo l’accesso ai cittadini dell’Unione e alle categorie di cittadini extra UE di cui al citato art. 38, d.lgs 165/01 e ciò in considerazione del fatto che il d.p.c.m. n. 174/94, nella parte in cui riserva ai cittadini italiani l’accesso a interi comparti dell’amministrazione senza valutare se i singoli «posti e funzioni» comportino l’esercizio di poteri pubblici, si pone in contrasto con l’art. 38 citato e con la giurisprudenza della CGUE relativa alla applicazione dell’art. 45, co. 4, TFUE.
Il Tribunale di Firenze con ordinanza del 26.6.2018 ha ritenuto che il sopracitato criterio organizzativo di cui all’art. 1, co. 1 del d.p.c.m. n. 174/1994, secondo il quale tutti i posti appartenenti al ruolo civile del Ministero della Giustizia richiedono il requisito della cittadinanza, escludendo così i cittadini UE e i cittadini di paesi terzi di cui all’art. 38 del d.lgs. 165/2001, è incompatibile con la giurisprudenza comunitaria che, prevedendo l’esercizio abituale e non occasionale di pubblici poteri ai fini dell’applicabilità della riserva di nazionalità, implica una valutazione concreta delle mansioni esercitate. Il profilo professionale di assistente giudiziario, rappresentando un’attività meramente ausiliaria e preparatoria, non comporta l’esercizio di pubblici poteri a tutela dell’interesse nazionale e quindi il bando che prevede quale requisito partecipativo il requisito della cittadinanza è discriminatorio. Va segnalato che il Giudice ha accordato tutela risarcitoria alla associazione ricorrente «L’altro diritto onlus - Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità», reputando sussistente la legittimazione attiva, «considerato che con l’esaurimento della procedura concorsuale si è consolidato il danno, di natura collettiva, nei confronti dei cittadini comunitari e degli stranieri rientranti in una delle categoria previste dall’art. 38 comma 1 e comma 3 bis d.lvo n. 165/2001 che, non individuabili in modo diretto, hanno omesso di presentare domanda a causa della clausola in esame. Si tratta di un pregiudizio non patrimoniale, legalmente tutelato, alla parità di trattamento nell’accesso alla procedura concorsuale oggetto della causa. Il danno in esame ha natura di danno comunitario, il cui risarcimento deve determinarsi in conformità ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità, dissuasività (Cass. sez. L sent. n. 27481/2014; Cass. Sez L sent. n. 13655/2015), quale danno presunto e con valenza sanzionatoria (Cass. SS.UU. sent. n. 5072/2016)».
Il Tribunale di Roma, con ordinanza ex art. 700 c.p.c. del 13.6.2018 (in Banca dati ASGI), ha riconosciuto che la figura professionale di assistente sociale nonché quella di mediatore culturale non comportando l’esercizio diretto e specifico di pubblici poteri, operando sempre sulla base di istruzioni impartite dal dirigente, nell’ambito di attività meramente ausiliarie e preparatorie che lasciano inalterati i poteri di valutazione e di decisione dei responsabili degli uffici, ha concluso affermando che il bando del Ministero della Giustizia che richiede per tali figure professionali il requisito della cittadinanza italiana violava il principio di identità di regime introdotto dalla legge n. 97/2013 come interpretata alla luce dei criteri elaborati con riferimento ai cittadini UE dalla Corte di Giustizia, dovendo gli stessi essere applicati in modo uniforme anche ai cittadini terzi appartenenti alle categorie indicate dalla citata disposizione di legge. In accoglimento della istanza cautelare ha quindi ammesso con riserva alle richieste procedure concorsuali e preselettive nonché selettive parte ricorrente.
Il Tribunale di Torino con ordinanza del 12.6.2018 (in Banca dati ASGI) si è invece pronunciato su un ricorso presentato dall’ASGI ai sensi degli art. 44, d.lgs. 286/1998, 4, d.lgs. 215/2003 e 28 d.lgs. 150/2011 con il quale era stato chiesto l’accertamento del carattere discriminatorio dell’«Avviso pubblico per reclutamento personale esterno» emesso dall’Azienda Sanitaria Locale Napoli 2 Nord in data 19/07/2017, nella parte in cui indicava tra i requisiti per l’ammissione la «cittadinanza italiana, ovvero di uno degli Stati membri dell’Unione Europea». L’Azienda Sanitaria Locale Napoli 2 Nord, tuttavia aveva, nelle more del giudizio, provveduto alla rettifica dell’avviso sostituendo la originaria previsione con la richiesta della «cittadinanza italiana ovvero come individuata ex art. 38 commi 1 e 3 bis, del D.gls 165/01», assumendo quindi di aver rimosso il requisito discriminante. Tale rettifica non è stata considerata idonea dal Tribunale perché, trattandosi di selezione di personale esterno per il profilo di mediatore culturale, il limite dell’accesso ai soli cittadini italiani e ai soggetti individuati dall’art. 38 del d.lgs. 165/2001 era comunque discriminatorio in quanto, non essendosi in presenza di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, doveva essere consentita la partecipazione di tutti i cittadini di Paesi terzi in possesso di un titolo che consenta di lavorare.
Discriminazione per molestie
La decisione del Tribunale di Milano del 6.6.2018 (in Banca dati ASGI) fa nuovamente applicazione, come già altri precedenti sia dello stesso organo giudicante che del Tribunale di Brescia alla nozione di molestie che, ai sensi della direttiva 2000/43 e del d.lgs 215/03, rientrano nell’ambito della discriminazione. La pronuncia è intervenuta su un ricorso presentato dalle organizzazioni ASGI e APN contro il sindaco Joe Formaggio che aveva utilizzato nel corso di diverse trasmissioni radiofoniche espressioni offensive e razziste. Il Tribunale ha sottolineato che ogniqualvolta l’utilizzo di determinate espressioni sia «volto a diffondere odio e ad escludere i destinatari dalla compagine sociale», sia in grado «di avvilire la dignità dei gruppi sociali coinvolti» e umiliante in virtù della «gratuita attribuzione di qualità inferiori per etnia e nazionalità» può essere esercitata anche l’azione civile contro la discriminazione di cui all’art. 28, d.lgs 150/11 da parte di enti ed associazioni rappresentativi degli interessi dei gruppi sociali offesi nel caso in cui la molestia sia rivolta all’insieme delle categorie protette (cioè a gruppi individuati per appartenenza a una determinato gruppo etnico, a una nazionalità o a una religione) senza che possa essere identificato direttamente o immediatamente un soggetto leso. Secondo il Tribunale di Milano nei confronti di tali enti o associazioni va riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente al comportamento illecito perché tale condotta discriminatoria frustra direttamente lo scopo statutario della tutela e dell’esercizio di azioni volte alla protezione dell’eguale dignità e dell’accesso paritario ai diritti fondamentali da tali associazioni promosso.