Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
relativo alla scoperta della sua omosessualità da parte delle autorità statuali. Nel provvedimento in esame, il Collegio meneghino, attraverso lo strumento delle linee guida redatte dall’UNHCR («Linee guida in materia di protezione internazionale n. 9. Domande di riconoscimento dello status di rifugiato fondate sull’orientamento sessuale e/o identità di genere nell’ambito dell’art. 1 A (2) della Convenzione del 1951 e/o del suo Protocollo del 1967 relativo allo status dei rifugiati», datate 23 ottobre 2012), ha valutato le dichiarazioni del ricorrente negli aspetti relativi all’autoidentificazione, all’infanzia, all’accettazione di sé, all’eventuale problema dell’identità di genere, alla non conformità, alle relazioni famigliari, alle relazioni sentimentali e sessuali ed al rapporto con la comunità.
Nella decisione del
Tribunale di Torino del 9.11.2018
, la credibilità di un giovane cittadino del Gambia – che aveva riferito di essere fuggito dal proprio paese d’origine in seguito alla scoperta, da parte di alcuni componenti della sua comunità, della sua relazione con una persona dello stesso sesso – è stata affermata valorizzando, oltre alle dichiarazioni del ricorrente, il contenuto della relazione del Presidente di un circolo Arcigay che dà atto di un percorso volto ad una maggiore acquisizione di consapevolezza del proprio orientamento sessuale e di superamento del disagio che lo aveva condizionato sin da quando si trovava in Gambia.
Opinioni politiche
Il
Tribunale di Torino (29.5.2018)
ha riconosciuto lo
status di rifugiato ad un cittadino del Pakistan, in ragione delle persecuzioni, minacce e torture subite dalle forze di polizia nel 2014, a causa della sua
militanza politica nell’UKPNP, partito nazionalista fondato il 10 aprile 1985 con l’obiettivo di ottenere
l’indipendenza del Kashmir. La decisione in esame ravvisa la sussistenza di atti di persecuzione riconducibili, ai sensi dell’art. 8, lett. e), d.gs. 251/2007, a motivi di «opinione politica», soffermandosi sul carattere di gravità, di natura e di frequenza degli atti persecutori. In particolare, il Collegio torinese afferma che i predetti atti rappresentano una violazione grave dei diritti umani fondamentali, considerando: gli atti di violenza fisica e psichica subiti dal ricorrente (in particolare le minacce subite ad opera di forze di polizia, nonché il rapimento, la detenzione arbitraria e le torture operate da agenzie di sicurezza); i provvedimenti amministrativi, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio, come la chiusura senza titolo, nel mese di agosto 2014, del negozio di abbigliamento da lui gestito, con il solo obiettivo di intimidirlo e di rendergli difficile l’attività di finanziamento delle iniziative dell’UKPNP; le azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie, come la denuncia e il mandato di arresto fondati su falsi addebiti del 24 ottobre 2014; la compressione del diritto di esprimere il proprio pensiero e di riunirsi pacificamente per motivi politici. Particolarmente interessante, inoltre, l’affermazione secondo la quale, il dover affrontare un processo penale, in caso di rientro in patria, rappresenta esso stesso uno strumento di persecuzione.
Religione
Il
Tribunale di Milano, con decisione del 21.11.2018,
ha riconosciuto lo
status di rifugiato ad un cittadino del Pakistan, di religione musulmana sciita, vittima di una
persecuzione religiosa attuata dal gruppo estremista Lashkar-e-Jhangvi (Lej). Il Collegio ha ritenuto credibili le dichiarazioni del ricorrente, nella parte relativa alle violenze perpetrate dal predetto gruppo terrorista che aveva fatto irruzione della di lui abitazione, proprio mentre era in corso la cerimonia del majlis dallo stesso organizzata. A fronte di un agente di persecuzione privato – il gruppo terroristico – il Tribunale ha ritenuto integrato il requisito relativo all’impossibilità di ricevere protezione dalle autorità statuali (atteso che il ricorrente si era rivolto più volte alla polizia, senza ottenere alcuna risposta). La valutazione positiva di credibilità è stata compiuta anche grazie all’applicazione del
principio del beneficio del dubbio. Nel decreto in esame, si legge, che: «in particolare, in base ad esso è possibile considerare accertato un fatto verosimile pur in presenza di un margine residuo di dubbio …. Quest’orientamento dell’UNHCR è altresì suffragato da quanto affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di onere della prova, secondo cui “stante la particolare situazione in cui si trovano i richiedenti asilo, sarà frequentemente necessario concedere loro il beneficio del dubbio quando si vada a considerare la credibilità delle loro dichiarazioni e dei documenti presentati a supporto” (cfr. CEDU,
R.C. v. Svezia, 2010, paragrafo 50; CEDU,
N. v. Svezia, 2010, paragrafo 53; CEDU,
A.A. v. Svizzera, 2014, paragrafo 59)».
Nazionalità
Il
Tribunale di Brescia, con decreto del 18.9.2018,
ha riconosciuto lo
status di rifugiato ad un cittadino di Warri (nel Delta State, Nigeria), figlio del capo della comunità degli Uhrobo, costretto a fuggire dal paese d’origine a causa del
sanguinoso conflitto etnico tra la sua etnia e quella degli Ijaw. Il Tribunale ha ritenuto credibile, perché dettagliato, analitico e del tutto coerente con le fonti sul paese d’origine, il racconto del ricorrente relativo ai violenti conflitti scoppiati tra etnie (tra le quali quella del ricorrente) per ripartirsi il risarcimento concordato per i danni cagionati sul loro territorio dalla Shell. In particolare, nel provvedimento del Tribunale bresciano, si legge di come anche una falsa accusa di omicidio (in un paese ove vige ancora la pena di morte) integri una persecuzione e di come, anche in ragione del ruolo di capo dei giovani della sua comunità, il ricorrente non possa avvalersi della protezione della autorità del suo paese in quella zona sostanzialmente assente.
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
Art. 14, lett. c), d.lgs. 251/2007
Con sentenza
n. 1927/2018, pubblicata il 12.11.2018, la Corte d’appello di Torino
ha riconosciuto la protezione sussidiaria,
ex art. 14, lett. c), d.lgs. 251/2007 ad un richiedente che ha riferito di essere stato membro del movimento secessionista del
Kashmir e di aver subito torture da parte delle autorità pakistane. Il Collegio, richiamando espressamente il dovere di cooperazione istruttoria, sulla base delle informazioni sul paese d’origine (e, in particolare, facendo riferimento al primo rapporto svolto dalle Nazioni Unite sul tema dei diritti umani all’interno delle Nazioni Unite sul Kashmir, ove è stata promossa un’inchiesta internazionale su molteplici violazioni) ha affermato che il conflitto che vede contrapposti il movimento separatista che lotta per l’indipendenza dello Stato dell’Azad Kashmir e il governo pakistano ha determinato una «situazione di violenza presente nella regione del Kashmir tale che la vita di ogni civile rischia di essere seriamente minacciata solo per la presenza su quel territorio».
Art. 14, lett. a) e b), d.lgs. 251/2007
Il
rischio di subire un processo non equo, per il reato di diserzione, e la probabile condanna che ne sarebbe seguita – di cui era accusato un cittadino del Pakistan, originario della zona di Rawalkoor – giustifica, nelle argomentazioni del
Tribunale di Milano (decreto del 9.5.2018)
, il riconoscimento della protezione sussidiaria. Nel provvedimento in esame – che si apprezza anche per le puntuali argomentazioni che hanno portato a superare il negativo giudizio di credibilità formulato dalla Commissione territoriale, sulla base delle dichiarazioni rese dal ricorrente nella fase amministrativa e senza aver provveduto alla rinnovazione dell’audizione – il predetto rischio è stato ritenuto sussistente sulla base della specifica attività svolta dal ricorrente nell’esercito, dell’indagine dallo stesso subita in seguito alla diserzione e dalle concrete possibilità, desunte anche dalle informazioni sul paese d’origine, di difendersi ed accedere ad un processo equo, con conseguente rischio di condanna a una pena elevata da scontare in condizioni carcerarie che ne potrebbero mettere a rischio la vita e l’integrità fisica.
Il
Tribunale di Firenze (ordinanza del 6.11.2018)
ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino della Nigeria (originario di un piccolo centro al confine con il Camerun), vittima di un
violento conflitto tra famiglie. In particolare il giudice fiorentino, ritenuto credibile il racconto del ricorrente – che aveva riferito delle violenze subite da un gruppo di persone che volevano appropriarsi di alcuni terreni e che, a fronte dell’opposizione da parte della famiglia del ricorrente, avevano dapprima ucciso il di lui padre, poi colpito il fratello ed infine cercato di uccidere anche il ricorrente – ha affermato la sussistenza di un pericolo di danno grave in caso di rientro,
sub specie di trattamento inumano o degradante per mano privata ma non ostacolata dalle autorità preposte alla tutela della sicurezza. Con riferimento a tale ultimo aspetto, nel provvedimento in esame, si legge che tutti i
report internazionali confermano che «la violenza diffusa non trova un argine adeguato nelle forze dell’ordine ed a fronte di periodi di attenuazione del violenti conflitti locali, nel centro spesso legali alla terra, vi sono picchi elevatissimi con centinaia di morti».
Il
Tribunale di Bari con ordinanza dell’8.10.2018,
ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad una giovane donna proveniente da Benin City, la quale dopo essere sfuggita ad un matrimonio forzato era stata fatta oggetto di ripetute violenze da parte di persone che volevano avviarla alla prostituzione. Ai fini del riconoscimento della protezione in esame, il giudice di Bari ha valutato: che la richiedente era una donna di giovane età; che le fonti interne e internazionali pongono in evidenza una
condizione della donna nigeriana vittima di violenze, stupri, abusi e soprusi che lo Stato nigeriano non debella e, per certi versi, con la sua legislazione legittima; che proprio dalla città di provenienza della ricorrente, Benin City, provengono la maggior parte delle ragazze oggetto di tratta ai fini sessuali in virtù della concentrazione in questa città di organizzazioni specializzate nel “collocamento” all’estero.
Il
Tribunale di Milano, con decreto del 31.1.2018
, ha rigettato la domanda formulata da un giovane
cittadino ucraino che afferma di non voler prestare servizio militare, non intendendo partecipare al conflitto in corso. Il Collegio meneghino ha precisato che il ricorrente non basa il suo rifiuto di prestare il servizio militare su motivi di coscienza o di tipo religioso, avendo invece espresso un personale dissenso sulle ragioni del conflitto attualmente in corso, oltre che preoccupazioni di tipo economico, ritenendo prioritario aiutare la sua famiglia. Nelle motivazioni del provvedimento in esame – contenenti un attento richiamo alle linee guida «in materia di protezione internazionale n. 10, domande di riconoscimento dello status di rifugiato fondate sul servizio militare nell’ambito dell’art. 1 A (2) della Convenzione del 1951 e/o del suo Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati» elaborate da UNHCR (12 novembre 2014) – si legge che l’essere assoggettati a leva obbligatoria, anche da parte di uno Stato che, come l’Ucraina, è interessato da una situazione di conflitto armato, non costituisce – sulla base delle informazioni sul paese d’origine consultate – di per sé atto persecutorio, trattandosi di legittima espressione del diritto che ciascuno Stato ha di chiedere ai propri cittadini di svolgere il servizio militare e di prestare attività militare in caso di necessità.
La
Corte d’appello di Bari con sentenza n. 2097/18
– anche grazie agli elementi acquisiti nel corso dell’audizione del ricorrente, rinnovata da parte del giudice di secondo grado – ha ritenuto credibili le dichiarazioni di un ricorrente che ha riferito di aver lasciato il Pakistan in conseguenza delle violenze e delle minacce subite da parte di un noto politico (che aveva ricoperto la carica di
ex premier) e dei componenti del suo gruppo criminale, giungendo a riconoscergli la protezione sussidiaria. Nel provvedimento si legge che un’adeguata applicazione della normativa in materia di protezione per i soggetti esposti a gravi minacce o violenze di tipo (sul piano sociologico)
mafioso appare conforme alla normativa internazionale, che in innumerevoli documenti prescrive agli Stati forme di lotta alla criminalità organizzata, le quali non possono non includere un’adeguata tutela delle vittime.
QUESTIONI PROCESSUALI
Fissazione dell’udienza in assenza di videoregistrazione ed audizione del ricorrente
La
Corte di cassazione, nella pronuncia n. 27773/2018 – chiamata a pronunciarsi in merito ad un decreto del Tribunale di Torino che aveva deciso di non procedere «all’udienza di comparizione delle parti» – ha richiamato i principi affermati dalla precedente sentenza n. 17717/2018, ribadendo che, ove non sia disponibile la videoregistrazione con mezzi audiovisivi del richiedente la protezione dinnanzi alla Commissione territoriale,
il Tribunale chiamato a decidere del ricorso avverso la decisione adottata dalla Commissione,
è tenuto a fissare l’udienza di comparizione delle parti a pena di nullità del suo provvedimento decisorio.
La
Suprema Corte, nella sentenza n. 28424/2018, ribadisce la necessità della fissazione dell’udienza di comparizione, in assenza di videoregistrazione, richiamando non solo il disposto legislativo, ma anche l’intenzione del legislatore. Con motivazioni che prendono in esame proprio la specificità della materia della protezione internazionale – il Collegio evidenzia che «il rilievo del colloquio, destinato ad essere valutato secondo i parametri indicati dal d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3
, co. 5, ha indotto il legislatore a prevedere la videoregistrazione, tale da rendere direttamente percepibili nella loro integralità, finanche sotto il profilo dei risvolti non verbali, le dichiarazioni dell’istante, così da consentire lo svolgimento della successiva eventuale fase giurisdizionale nelle forme del rito camerale non partecipato, potendo per l’appunto il giudice basarsi sulla visione della videoregistrazione; ma se questa manca, occorre consentire – in ossequio al disegno istituito dal legislatore – il pieno dispiegamento del contraddittorio attraverso lo svolgimento dell’udienza di comparizione delle parti».
Sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale
Il
Tribunale di Bologna, con decreto del 27.10.2018
, nel valutare la sussistenza dei «fondati motivi», ai sensi dell’art. 35-
bis, co. 13, d.lgs. 25/2008, ha affermato che, trattandosi di istanza in materia cautelare, nella valutazione della domanda di sospensiva debba esservi necessariamente una valutazione del
periculum in mora, in relazione al grave ed irreparabile danno che possa derivare al ricorrente dalla messa in esecuzione della decisione, anche in ragione di un’interpretazione costituzionalmente orientata. Con riferimento al caso portato all’attenzione dei giudici bolognesi, ai fini del
fumus boni iuris è stato valutato che i motivi dedotti (con riguardo alle contestate violazioni di cui agli artt. 3 e 14, d.lgs. 251/2007, 5 co. 6, d.lgs. 286/98) si traducono astrattamente in violazioni di legge e, con riferimento al
periculum in mora che, a prescindere dalla fuoriuscita dal sistema di accoglienza, la perdita dell’attività lavorativa, reperita in epoca successiva al decreto di rigetto, determinerebbe un grave pregiudizio al ricorrente.
Dovere di cooperazione del ricorrente
Il
Tribunale di Milano, con decreto del 14.11.2018
, nel decidere su una domanda presentata ha un cittadino indiano, si è soffermato sull’onere di cooperazione del ricorrente (decreto del 14.11.2018). Nel caso in esame, il ricorrente, al momento della formalizzazione della domanda, non aveva esplicitato le ragioni che lo avevano spinto a lasciare il paese d’origine. Egli, ritualmente convocato, non è comparso né dinanzi alla Commissione territoriale, né dinanzi al giudice (che, per tale incombente, aveva fissato due udienze). Il Collegio meneghino ha pertanto affermato che il ricorrente, omettendo di esplicitare, come era suo onere
ex art. 3, co. 1 del decreto qualifiche (d.lgs. n. 251/2007), i fatti posti a fondamento della domanda di protezione, non aveva adempiuto all’onere di cooperazione sullo stesso gravante. L’omessa allegazione dei fatti posti a fondamento della domanda di protezione ha portato il Collegio a ritenere insussistenti i fattori di inclusione nella fattispecie della protezione internazionale.
Patrocinio a spese dello Stato
La
Corte di cassazione, n. 30876/2018 – espressamente affermando di non poter condividere le argomentazioni contenute nella sentenza n. 5819/2018 che aveva affermato che l’ufficio del gratuito patrocinio è tenuto a sopportare le spese solo nel caso in cui risulti soccombente la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato – ha statuito che, in ogni caso in cui la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato sia vittoriosa in una controversia civile proposta contro un’amministrazione statale, il d.p.r. n. 115 del 2002, art. 133, osta alla pronuncia di una sentenza di condanna al pagamento delle spese, dovendo la liquidazione degli onorari e delle spese in favore del difensore della parte ammessa, avvenire, seguendo il procedimento di cui all’art. 82, con istanza di liquidazione al giudice del procedimento.
Forma dell’appello e c.d. overruling
Le
Sezioni Unite della Suprema Corte, nella sentenza n. 28575/2018
, hanno affermato che, nel vigore dell’art. 19, d.lgs. n. 150 del 2011 (così come modificato dall’art. 27, co. 1, lett. f), d.lgs. n. 142 del 2015), l’appello
ex art. 702 quater c.p.c. proposto avverso la decisione di primo grado sulla domanda volta al riconoscimento della protezione internazionale deve essere introdotto con ricorso e non con citazione, in aderenza alla volontà del legislatore desumibile dal nuovo tenore letterale della norma. Nelle motivazioni della sentenza, al punto 12, la Corte si sofferma sulle conseguenze derivanti dall’affermazione del nuovo principio di diritto, premurandosi di chiarire che tale innovativa esegesi, in quanto imprevedibile e repentina rispetto al consolidato orientamento pregresso, costituisce un “overruling” processuale che, nella specie, assume carattere peculiare in relazione al momento temporale della sua operatività, il quale potrà essere anche anteriore a quello della pubblicazione della prima pronuncia di legittimità che praticò la opposta esegesi (Cass. n. 17420 del 2017), e ciò in dipendenza dell’affidamento sulla perpetuazione della regola antecedente, sempre desumibile dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, per cui l’appello secondo il regime dell’art. 702-
quater c.p.c
. risultava proponibile con citazione.
Le Sezioni Unite, aggiungono, inoltre, che, per le cause cassate con rinvio il giudice del rinvio dovrà attenersi al principio di diritto contenuto nella sentenza che dispone il rinvio ancorché diverso da quello affermato dalle Sezioni Unite.
Nell’
ordinanza n. 32059/18, la VI-I Sezione della Corte di cassazione – cassando con rinvio la decisione della Corte d’appello di Milano che aveva dichiarato inammissibile un appello, avverso una pronuncia di rigetto della domanda volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale, ritenuto depositato oltre il termine di 30 giorni – ha affermato che in un giudizio che deve tendere, essenzialmente, ad una decisione di merito, il Collegio avrebbe dovuto tener conto della difficoltà interpretativa, nascente dalla modifica normativa improvvisa e dissonante con le forme stabilite – secondo l’interpretazione dominante – per l’appello pure nei casi, come questo, di silenzio di un’apposita previsione, e pertanto valutare «l’errore» commesso nella proposizione dell’impugnazione (ove introdotta con atto di citazione, secondo le apparenti regole ordinarie) come suscettibile di una diversa considerazione in forza del bilanciamento dei valori in gioco, tra i quali assume preminenza quello del giusto processo (art. 111 Cost.).
LA PROTEZIONE UMANITARIA NEL PROCEDIMENTO DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Nell’
ordinanza n. 28990/2018 la Corte di cassazione ha affrontato varie questioni inerenti riconoscimento della protezione internazionale e di quella umanitaria (pre d.l. 113/2018). Innanzitutto quella relativa alla
traduzione in lingua della decisione negativa della Commissione territoriale, alla luce di quanto prescritto dall’art. 10, d.lgs. 25/2008. Sul punto la Corte esclude da un lato la rilevanza della mancata traduzione in lingua qualora non sia allegato il concreto pregiudizio subito, dall’altra ribadisce comunque l’ininfluenza della violazione stante la natura non impugnatoria del giudizio, in cui oggetto del contenere non è il provvedimento amministrativo ma l’esistenza (il riconoscimento) del diritto soggettivo alla protezione (Cass. 11871/2014; n. 7385/2017).
In secondo luogo il Giudice di legittimità affronta la questione della possibilità di allegazione di nuovi documenti nel giudizio d’appello, ritenuta possibile sia in considerazione del rito al quale era assoggettato, ratione temporis, il contenzioso esaminato (cioè l’art. 702-quater c.p.c. che consente la produzione di nuovi documenti se il Collegio li ritiene indispensabili o se la parte dimostra di non averli potuti produrre prima; principio che la Corte ricorda essere stato già applicato anche nella materia in esame: Cass. n. 5241/2017), sia alla luce della peculiarità del giudizio di protezione internazionale che ripartisce l’onere probatorio, assegnando al giudice un potere officioso di verifica delle condizioni attuali del Paese di origine, le quali potrebbero giustificare il riconoscimento di una delle forme di protezione.
Nel caso esaminato dalla Corte, il giudice d’appello aveva escluso ogni forma di protezione omettendo, però, di verificare all’attualità la situazione socio-politica e di sicurezza nel Punjab del Pakistan, nonostante l’allegazione in giudizio di documenti (erroneamente ritenuti tardivi) che dovevano indurre a verificare se in quel territorio vi fosse, anche per mancata effettiva protezione statale, una situazione di violenza indiscriminata, irrilevante che la minaccia provenisse da agenti privati (Cass. nn. 15192/2015; 16356/2016; 23604/2017). In un inciso conclusivo la Corte, ribadita l’irrilevanza del tempo della produzione in giudizio di documenti atti ad accertare i presupposti per una delle forme di protezione, afferma che la formale tardività della produzione documentale può, tutt’al più, determinare la reinstaurazione del contraddittorio.
Infine, la Cassazione affronta il mancato riconoscimento anche della protezione umanitaria, censurando la decisione del giudice d’appello che aveva omesso di verificare la condizione di vulnerabilità del richiedente all’attualità, con motivazione «fondata soltanto sull’insussistenza di atti di persecuzione e violenze, senza valutare tutte le allegazioni e produzioni documentali dimesse in atti».
Il principio espresso al riguardo – di conferma dell’orientamento della Cassazione – è il seguente:
«Il riconoscimento del diritto al permesso per ragioni umanitarie deve essere frutto di valutazione autonoma, non potendo conseguire automaticamente dal rigetto delle altre domande di protezione internazionale essendo necessario che l'accertamento da svolgersi sia fondato su uno scrutinio avente ad oggetto l'esistenza delle condizioni di vulnerabilità che ne integrano i requisiti».
Incidentalmente, peraltro, l’ordinanza in esame afferma l’irrilevanza delle modifiche all’art. 5, co. 6, TU apportate dal d.l. 113/2018.
Con
ordinanza n. 32671/2018 la Corte di cassazione ha rigettato un ricorso proposto dal Ministero dell’interno avverso una sentenza della Corte d’appello di Bologna che aveva riconosciuto ad un richiedente della
Nigeria la protezione umanitaria. Nell’impugnazione il Ministero aveva sostenuto che la Corte bolognese avesse legittimato una domanda motivata da ragioni economiche e dal generico richiamo alla instabilità politica del Paese.
Nella pur sintetica decisione, la Corte afferma che la sentenza del giudice d’appello ha motivato, in realtà, in relazione ad «una condizione di vera e propria vulnerabilità, che costituisce l'elemento fondante della c.d. "protezione umanitaria" (Cass., n. 28015 del 2017 e n. 26641 del 2016) e che nella specie – elemento del tutto negletto nel ricorso – sono state individuate nelle reiterate vessazioni subite da richiedente proprio ad opera di quegli appartenenti alle forze di polizia dalle quali avrebbe dovuto ottenere protezione».
Pronuncia interessante perché riguarda un richiedente protezione della Nigeria (verosimilmente di uno degli Stati del sud del Paese) e perché pone l’accento su un fenomeno di quel Paese comprovato da molteplici fonti di informazione, ovverosia la violenza della polizia, non sempre tenuto in considerazione dalla giurisprudenza di merito come legittimazione al riconoscimento di una forma di protezione.
Con
ordinanza 11.01.2019 RG. 25523/2016 il Tribunale di Milano
ha riconosciuto ad un richiedente protezione internazionale del
Senegal la protezione umanitaria, ex art. 5, co. 6 TU, comparando il positivo percorso di integrazione sociale e lavorativo compiuto in Italia con la lesione della dignità personale a cui sarebbe esposto in caso di rimpatrio, stante l’assenza di legami familiari.
Tutela riconosciuta dopo che è stata ritenuta insussistente la protezione internazionale nelle sue due forme maggiori (rifugio politico e protezione sussidiaria), sostanzialmente per difetto di credibilità, stante la risalenza dei fatti posti a base della domanda e la permanenza per lungo tempo in altra regione del Senegal dopo detti fatti.
Nella decisione vengono richiamati i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità sulla natura giuridica della protezione umanitaria (parte integrante dell’unitaria richiesta di protezione, fattispecie a clausola aperta, attuazione del diritto d’asilo costituzionale), precisando che la valutazione della vulnerabilità soggettiva non deve avere a parametro di riferimento una situazione di concreto pericolo bensì una compromissione apprezzabile della dignità e della esistenza libera e dignitosa raggiunta in Italia, comparata con quanto il richiedente si troverebbe a vivere nel Paese di origine.
Il decreto è stato emesso successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018 e, pur senza esplicitare in alcun modo i suoi effetti sui procedimenti giudiziari in corso, il Tribunale di Milano ha esaminato la domanda di riconoscimento della protezione umanitaria secondo i parametri dell’art. 5, co. 6 TU previgenti alla parziale abrogazione recata dal citato d.l.
Il DIRITTO INTERTEMPORALE POST DECRETO LEGGE n. 113/2018
Successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018 – che ha abrogato la parte dell’art. 5, co. 6 TU che consentiva il rilascio di un permesso di soggiorno in relazione a serie ragioni umanitarie o ad obblighi costituzionali o internazionali, cui correlativamente ha fatto seguito l’eliminazione della competenza delle Commissioni territoriali, ex art. 32, co. 3, d.lgs. 25/2008, di rinviare al Questore per il rilascio del permesso umanitario ex art. 5, co. 6 TU – si è posta la questione della immediata applicabilità delle nuove disposizioni (che hanno introdotto la «protezione speciale», ex art. 19, co. 1 e 1.1. TU in sostituzione della protezione umanitaria) ai giudizi in corso, stante l’assenza di espressa norma transitoria o intertemporale.
Sul punto, la quasi unanime giurisprudenza di merito ha ritenuto inapplicabile la nuova disciplina, in considerazione sia della natura accertativa e non costitutiva del diritto alla protezione umanitaria, sia della natura del diritto stesso (diritto soggettivo e appartenente al catalogo dei diritti fondamentali).
Si rassegnano di seguito alcune delle tante intervenute, dando priorità, tuttavia, alla sentenza n. 4890/2019 della Corte di cassazione che, nella sua funzione nomofilattica, ha escluso l’applicabilità delle nuove disposizioni del d.l. 113/2018 ai giudizi in corso.
Con
sentenza n. 4890/2019 depositata il 19.2.2019, la Corte di cassazione, nell’esaminare un ricorso proposto da un cittadino straniero cui il Tribunale di Napoli aveva negato la protezione internazionale ed anche quella umanitaria, ha colto occasione per affrontare la questione dibattuta nel mondo giudiziario e non solo, dell’applicazione o meno ai giudizi in corso della riforma recata dal d.l. 113/2018 alla protezione umanitaria.
Dopo avere ricordato che il decreto legge ha introdotto la categoria dei permessi di soggiorno “casi speciali” ed altri diversamente nominati, la Corte prende atto che, a seguito dell’abrogazione della parte dell’art. 5, co. 6 TU che richiamava le serie ragioni umanitarie o derivanti da obblighi costituzionali od internazionali legittimanti il rilascio del permesso umanitario, è stato radicalmente modificato anche l’art. 32, co. 3 d.lgs. 25/2008, che consentiva alle Commissioni territoriali di riconoscere la protezione umanitaria se ritenuti insussistenti i presupposti per le due forme maggiori di protezione. Oggi, infatti, a detti organi è stata attribuita la competenza a riconoscere la diversa forma di «protezione speciale» (sostitutiva di quella umanitaria), in collegamento ai rischi indicati nell’art. 19, commi 1 e 1.1. TU.
Esaminando i nuovi permessi declinati nel d.l. 113/2018, il Giudice di legittimità ne evidenzia la profonda differenza rispetto al previgente permesso umanitario, i primi con «specifici paradigmi normativi, fortemente conformati», il secondo a clausola generale necessariamente aperta. Ribadita la natura di diritto soggettivo perfetto del permesso umanitario, «la sua intima connessione con il diritto d’asilo costituzionale», nonché la «natura meramente ricognitiva dell'accertamento da svolgere in sede di verifica delle condizioni previste dalla legge», sorgendo il diritto al momento della lesione di diritti fondamentali nel Paese di origine, la Corte affronta la concreta operatività del principio di irretroattività della legge, di cui all’art 11 preleggi al codice civile, escludendo che il d.l. 113 contenga una disposizioni di carattere intertemporale. Conclusione cui giunge esaminando le uniche due previsioni transitorie della nuova disciplina, ovverosia l’art. 1, co. 8 e 9 del decreto legge, rilevando che riguardano il solo rilascio del permesso di soggiorno (ex) umanitario, differenziandone il trattamento in ragione del fatto che, al momento dell’entrata in vigore, sia già stato rilasciato oppure in corso di rilascio.
Invece, «Non vi e una espressa disciplina legislativa di carattere intertemporale riguardante i giudizi in corso che seguano ad un accertamento positivo od ad un diniego delle Commissioni territoriali o espressamente rivolta ai procedimenti amministrativi in itinere alla data di entrata in vigore della nuova legge». Pertanto, la Cassazione si pone il problema «se la disposizione, oltre al contenuto prescrittivo espresso, possa contenere anche la regola dell'applicabilità immediata della nuova disciplina legislativa ai giudizi ed ai procedimenti amministrativi in itinere».
La risposta è di non applicabilità della nuova disciplina, in quanto contrasterebbe con la «natura giuridica della situazione giuridica soggettiva di cui il cittadino straniero ha richiesto l'accertamento e con i principi costantemente seguiti dalla giurisprudenza di legittimità, peraltro coerenti con le soluzioni prospettate dalla dottrina costituzionalistica, in relazione a fattispecie analoghe». Conclusione cui perviene analizzando l’art. 11 preleggi al codice civile, che, pur non godendo di copertura costituzionale, secondo i principi giurisprudenziali (Cass. 3845/2017, DU 2926/67; 2433/2000, 14073/2002; Cass. 16620/2013) non può applicarsi ai rapporti giuridici esauriti ma neppure a quelli aperti se l’applicazione della norma sopravvenuta incida sul fatto generatore del rapporto (cioè i fatti alla base del diritto) o in una modifica della disciplina giuridica del fatto stesso.
Rapportati quei principi alla protezione umanitaria, stante la qualificazione giuridica del diritto e la natura riconoscitiva del suo accertamento, dunque la preesistenza del diritto alla sua verifica giudiziale o amministrativa (sorgendo al verificarsi delle condizioni di vulnerabilità delle quali il richiedente ha chiesto l’accertamento con la domanda), portano la Cassazione ad affermare che «la nuova disciplina legislativa incida direttamente sul fatto generatore del diritto e sui suoi effetti e conseguenze giuridiche così da non poter essere applicabile ai procedimenti in corso, come paradigma valutativo».
Pertanto, la domanda «cristallizza il paradigma legale sulla base del quale, per la richiamata qualificazione giuridica del diritto azionato e per la natura ricognitiva dell'accertamento statuale, deve essere scrutinato», irrilevante che la valutazione (anche) sulla protezione umanitaria debba essere compiuta “all’attualità” (art. 8, co. 3 d.lgs. 25/2008), in quanto essa pertiene all’onere di allegazione della domanda (in cooperazione istruttoria tra richiedente ed autorità deputata all’esame), ma non riguarda la «configurazione giuridica dei presupposti del diritto azionato».
A sostegno di questa conclusione la sentenza richiama anche i principi espressi dalla Corte costituzionale e dal diritto dell’Unione europea (pagg. 16-18).
Il principio di diritto affermato dalla Corte è il seguente: «La normativa introdotta con il d.l. n. 113 del 2018, convertito nella l. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari dettata dall'art. 5, co. 6 del d.lgs. n. 286 del 1998 e dalle altre disposizioni consequenziali, sostituendo/a con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell'entrata in vigore (5/10/2018) della nuova legge, le quali saranno pertanto scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione».
La Cassazione completa la decisione affrontando anche la questione del permesso rilasciabile una volta riconosciuto il diritto alla protezione umanitaria, nei termini sopra sintetizzati e la conclusione è che debba essere quello delineato nell’art. 1, co. 9, d.l. 113/2008, ovverosia il permesso «casi speciali» di contenuto analogo all’oggi abrogato permesso umanitario (durata biennale e convertibile).
Nota di Nazzarena Zorzella
Decisione, quella qui rassegnata, indubbiamente importante, sia per la puntuale analisi giuridica espressa, che riprende e riassume i principi elaborati nell’ultimo decennio dal Giudice di legittimità in materia di protezione umanitaria, sia per le conclusioni a cui perviene, con i primi del tutto coerente. E’ auspicabile, pertanto, che tutta la giurisprudenza di merito segua i principi di diritto contenuti nella sentenza, evitando difformità di giudizi e dunque discriminazione dei ricorrenti.
La sentenza, tuttavia, è importante anche sotto un altro profilo. Infatti, non distinguendo tra accertamento in sede amministrativa o in sede giudiziale, i principi in essa affermati vanno ritenuti applicabili non solo ai giudizi in corso ma anche ai procedimenti amministrativi non ancora definiti dalle Commissioni territoriali rispetto a domande presentate prima del 5 ottobre 2018 (data di entrata in vigore del d.l. 113) ed applicabili anche a tutte quelle decisioni amministrative assunte nelle more (dal 5 ottobre 2018 al 19 febbraio 2019), nelle quali la protezione complementare sia stata rigettata in applicazione immediata della nuova disciplina dell’art. 32, co. 3 d.lgs. 25/2008. Con riguardo a quest’ultima ipotesi si può prospettare l’opportunità di presentare istanze di riesame alle Commissioni territoriali, richiedendo l’applicazione dei principi di diritti di cui alla sentenza n. 4890/2019, potendo, in caso di esito negativo, ricorrere all’Autorità giudiziaria anche avverso l’ulteriore decisione di rigetto o il silenzio opposto dalle Commissioni.
Decisioni anteriori alla sentenza n. 4890/2019 della Cassazione
Con
ordinanza 18.12.2018 RG. 14343/2017 il Tribunale di Genova
ha riconosciuto ad una
donna richiedente del
Marocco la protezione umanitaria, in relazione al rischio di lesione del diritto fondamentale di autodeterminazione (nella scelta del partner e nello stile di vita) e tenuto conto dell’ottimo grado di inserimento sociale avvenuto in Italia.
Con specifico riguardo all’incidenza della riforma attuata (anche) in materia di protezione umanitaria dal d.l. 113/2018, il Tribunale genovese affronta la questione della sua immediata applicabilità, escludendola in virtù del principio di irretroattività di cui all’art. 11 preleggi al codice civile. Conclusione a cui giunge esaminando la natura fondamentale del diritto, analogo a quello del rifugio politico e del diritto d’asilo costituzionale, il cui riconoscimento avviene con effetti dichiarativi e non costitutivi, preesistendo il diritto al suo accertamento. Le circostanze, dunque, che devono essere valutate preesistono alla domanda, dovendosi avere riferimento alla condizione personale che ha originato la partenza/fuga dal Paese di origine, comparata con la condizione attuale ed il rischio, in caso di rimpatrio, di esposizione a violazioni di diritti umani.
Secondo il Tribunale «appurata la natura di diritto soggettivo configurabile sulla base di fatti preesistenti, in applicazione del principio generale di irretroattività [...] la legge nuova non può essere applicata al presente procedimento in quanto riferito a diritto/rapporto giuridico sorto anteriormente al 5.10.18».
Ciò, anche in considerazione del rischio di discriminazione se il diritto fondamentale alla protezione umanitaria sia deciso in dipendenza delle durata del giudizio, determinata da fattori indipendenti dalla volontà del richiedente.
Il
Tribunale di Bologna, con decreto 27.12.2018 (RG. 5135/2018)
ha riconosciuto ad un richiedente del
Senegal la
protezione umanitaria, ritenuta idonea a tutelare la sua condizione soggettiva di particolare vulnerabilità, per avere trascorso quasi l’intera esistenza in una scuola coranica, gravemente maltrattato dal marabutto, privo di effettivi legami familiari nel suo Paese ed essendo dimostrata la sua integrazione in Italia. Il Tribunale ha dato valore anche alla giovane età del richiedente, quando ha lasciato il Senegal (verosimilmente minorenne) ed al drammatico percorso migratorio.
Il tribunale felsineo affronta anche la questione del diritto applicabile al giudizio, tenuto conto che il ricorso è stato proposto prima dell’entrata in vigore del d.l. 113/2018 ma definito successivamente alla sua entrata in vigore. La decisione a cui perviene è nel solco della quasi unanime giurisprudenza di merito sino ad oggi intervenuta, ossia di ritenere inapplicabile retroattivamente la nuova disciplina del d.l. 113 per rispetto dell’art. 11 preleggi al codice civile, in assenza di espressa previsione derogatoria del legislatore (che solo per i permessi di soggiorno ha stabilito una disciplina transitoria) e tenuto conto della natura di diritto soggettivo della protezione umanitaria che va dichiarato e non costituito, preesistendo, infatti, al suo formale riconoscimento.
Il
Tribunale di Firenze, con ordinanza 27.12.2018, RG. 12546/2018
, ha riconosciuto a richiedente protezione della
Nigeria la protezione umanitaria, ai sensi dell’art. 5, co. 6 TU, in considerazione della sua particolare condizione di disagio psico-fisico, determinato da svariate sofferenze subite, tenuto conto anche dell’assenza di effettivi legami familiari nel Paese di origine e di un positivo percorso di integrazione sociale intrapreso in Italia.
Nell’ordinanza il Tribunale compie un’ampia disamina degli effetti del d.l. n. 113/2018, che ha abrogato la parte dell’art. 5, co. 6 TU che richiamava gli obblighi costituzionali ed internazionali quali presupposti per la tutela umanitaria. Viene esclusa la portata retroattiva, ex art. 11 preleggi al codice civile, della nuova normativa attraverso un’articolata disamina delle uniche disposizioni transitorie contenute nel d.l. 113/2018 all’art. 1, co. 8 e 9 (ritenute afferenti ai soli permessi di soggiorno ed alla loro nuova regolamentazione, ma irrilevanti nei giudizi e nei procedimenti per il riconoscimento della protezione) ed esaminando l’immediata applicabilità della nuova disciplina ai giudizi in corso (esclusa in quanto, partendo dalla natura del diritto alla protezione umanitaria, elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, si afferma che la nuova disciplina recata dal d.l. 113 ha mutato il fatto generatore del diritto, non solo il suo contenuto, poiché la nuova forma di «protezione speciale» ha presupposti completamente diversi dalla previgente tutela umanitaria e dunque è inapplicabile lo jus superveniens).
ALTRE FORME DI PROTEZIONE UMANITARIA: LA GIURISDIZIONE
Con
ordinanza n. 30658/2018 la Corte di cassazione, a Sezioni Unite,
ha risolto un conflitto di giurisdizione sollevato dal TAR Campania relativo alla giurisdizione in materia di diniego di
rilascio del permesso di soggiorno umanitario ai sensi dell’art. 5, co. 6 TU, richiesto direttamente al questore da un cittadino straniero. Conflitto originato da una controversia proposta davanti al Tribunale di Napoli, che aveva declinato la propria giurisdizione a favore del giudice amministrativo, il quale si era tuttavia parimenti dichiarato incompetente, rinviando il conflitto negativo al regolamento di giurisdizione davanti alle Sezioni Unite della Cassazione.
La decisione delle Sezioni Unite è stata di riconoscere la giurisdizione ordinaria in tutte le situazioni giuridiche nelle quali viene chiesto il rilascio di un permesso umanitario, qualsiasi sia la modalità utilizzata. Dopo avere ricostruito la normativa (previgente al d.l. 113/2018) afferente il permesso umanitario ed individuato «le plurime modalità di intervento dell’autorità amministrativa» (il questore direttamente o la Commissione territoriale in sede di procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale), la Cassazione ha ripercorso i principi giurisprudenziali intervenuti in materia, a partire dalla decisione a sezioni Unite n. 11535/2009 con cui, disattendendo il precedente orientamento, ha affermato la giurisdizione ordinaria allorquando oggetto del contendere sia la tutela umanitaria, involgendo diritti umani fondamentali. Con la successiva pronuncia a Sezioni Unite n. 19393/2009 (seguite da SU nn. 19394, 19395 e 19396) si è ancor meglio precisato che «la situazione giuridica dello straniero che richieda il rilascio di permesso per ragioni umanitarie ha consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali, con la conseguenza che la garanzia apprestata dall’art. 2 Cost. esclude che dette situazioni possano essere degradate a interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo», al quale può essere attribuita solo una discrezionalità tecnica, «essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservate la legislatore (Cass. n. 19393/09)».
Secondo le Sezioni Unite è, dunque, irrilevante la modalità con cui viene chiesta la tutela umanitaria, che non incide sulla giurisdizione ma afferisce alla natura giuridica della posizione soggettiva sottesa ala richiesta di permesso.
L’ordinanza qui in rassegna richiama anche ulteriori pronunce che hanno affermato la giurisdizione ordinaria in fattispecie relative al permesso umanitario nell’ambito della protezione internazionale (SU 19577/2010 – SU 15115/2013), in tema di espulsione a seguito di rinuncia all’istanza di protezione internazionale e contestuale richiesta di emersione dal lavoro illegale (SU 15693/2015 e SU 135670/2015), in materia di diniego di rinnovo del permesso umanitario in presenza di parere negativo della Commissione territoriale (SU 5059/2017), o, ancora, in materia di rilascio del permesso per sfruttamento lavorativo ex art. 22, co. 12-quater TU.
Conclude la Corte che «Sulla base dei principi fin qui affermati […] deve riconoscersi che le situazioni protette a livello interno nell’ambito del “diritto alla tutela umanitaria” – cf. Cass. SU n. 26480/2011 – in quanto attuativo dei diritti fondamentali di matrice costituzionale – art. 2 e 10 c.3 Cost. – e sovranazionale – art. 3 CEDU, art. 18 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – sono riservate alla cognizione del giudice ordinario».
Trattasi di una pronuncia estremamente importante non solo per l’ampia ricostruzione giuridica dell’istituto della protezione umanitaria ma per l’impatto che quei principi avranno dopo l’intervenuta abrogazione, operata dal d.l. 113/2018, della parte dell’art. 5, co. 6 TU 286/98 che fino ad oggi ha rappresentato la disciplina regolamentare della protezione umanitaria. Quei principi, infatti, trascendono detta disciplina, ancorando saldamente la tutela agli obblighi costituzionali ed internazionali, i quali sono a fondamento della stessa.
Le sezioni Unite della Cassazione, peraltro, non mancano di affrontare anche la questione della intervenuta abrogazione parziale dell’art. 5, co. 6 TU 286/98, evidenziando che essa è irrilevante perché successiva alla proposizione della domanda oggetto di giudizio e che comunque l’avere «abolito il genus del permesso per motivi umanitari per come originariamente normato, sostituendolo con ulteriori tipologie tipiche di permessi aventi motivazioni umanitarie per “casi speciali”» non incide sulla giurisdizione in quanto «l’eventuale mutamento, per vicende fattuali o normative, della natura della situazione giuridica soggettiva di cui a suo tempo sia stata introdotta la tutela davanti alla giurisdizione cui essa spettava per stato di fatto o di diritto esistente al momento della proposizione dell’azione, non può assumere rilevanza sopravvenuta (salvo disposto normativo derogatorio all’art. 5 c.p.c.) ai fini della determinazione della giurisdizione, secondo la nuova natura della situazione – cfr. Cass. S.U. n. 13977/2017».
Da precisare che il permesso di soggiorno umanitario (oggi ridenominato per «casi speciali» dal d.l. 113/2018) era stato chiesto dal lavoratore straniero, privo di permesso di soggiorno, in difetto del parere del procuratore della Repubblica, pur avendo presentato specifica denuncia nei confronti del datore di lavoro e dichiarato la disponibilità alla cooperazione giudiziaria. Il tribunale di Lecce, adito dall’interessato, aveva declinato la propria giurisdizione a favore del giudice amministrativo, qualificando la situazione soggettiva di interesse legittimo, il cui riconoscimento sottendeva una valutazione discrezionale della pubblica amministrazione. Decisione confermata dalla Corte d’appello di Lecce.
Adita dal ricorrente straniero, la Cassazione, richiamando precedenti conformi delle Sezioni Unite (nn. 30758 e 30757 del 2018), ha affrontato la questione muovendo dall’analisi della natura giuridica del diritto sotteso all’art. 5, co. 6 TU (base normativa del permesso ex art. 22, co. 12-quater), confermando che trattasi di diritto soggettivo «da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dagli art. 2 cost. e 3 convenzione europea dei diritti dell’uomo», rispetto al quale il questore ha una mera discrezionalità tecnica, di accertamento dei presupposti indicati dal legislatore.
Natura che pertiene, secondo la pronuncia in esame, anche al permesso umanitario ex art. 22, co. 12-quater TU, introdotto per tutelare la vittima rispetto a gravi compressioni dei diritti del lavoro, rispetto al quale l’art. 5, co. 6 TU si pone in una relazione da genere a specie, ove la norma speciale concretizza la clausola aperta di esso («seri motivi…di carattere umanitario»). Sulla base di questa qualificazione della natura giuridica delle due disposizioni, la Cassazione afferma che «Anche il procedimento volto al rilascio di questo titolo di soggiorno configura allora, alla pari di quello delineato in via generale dall’art. 5, 6° comma, e contrariamente a quanto sostenuto dal giudice d’appello, attività vincolata e non già esercizio di potere discrezionale». Analogamente a quanto avviene nell’ambito della protezione internazionale, anche nel caso di permesso per sfruttamento lavorativo al questore non è riconosciuta, dunque, alcuna attività discrezionale di accertamento dei presupposti bensì «soltanto il compito di accertare l’eventuale esistenza di altre condizioni ostative, se normativamente imposte».
Quanto al potere del pubblico ministero, secondo l’ordinanza in rassegna gli è assegnata «la valutazione della sussistenza dei requisiti previsti dal legislatore» (discrezionalità tecnica) ma essa si esaurisce all’interno del procedimento amministrativo, non potendo vincolare il giudizio dell’autorità giudiziaria, cui invece è devoluta la «verifica, integrale e senza subordinazione alcuna alla valutazione svolta in sede amministrativa, dell’esistenza dei requisiti per il riconoscimento del titolo di soggiorno».
Irrilevante, dunque, in sede giudiziale, la mancanza del parere del PM.
Trattandosi, dunque, di giudizio afferente l’accertamento di un diritto soggettivo, a natura fondamentale, la giurisdizione non può che essere, secondo la Cassazione, quella ordinaria e non quella amministrativa e a conferma richiama anche la recente novella di cui al d.l. 113/2018 che ha esteso alle sezioni specializzate dei tribunali (sedi di corti d’appello) la giurisdizione relativamente ai permessi di soggiorno “casi speciali” (denominazione oggi assegnata, come detto, al permesso ex art. 22, co. 12-quater TU, oltre che per altre ipotesi).
Attraverso un richiamo alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 30658/2018, l’ordinanza affronta, incidentalmente, l’incidenza dell’abrogazione parziale dell’art. 5, co. 6 TU disposta dal d.l. 113/2018, limitandosi a ritenerla irrilevante.
Sempre con riguardo alla
giurisdizione in materia di permesso di soggiorno per particolare sfruttamento lavorativo, si segnala anche la sentenza della
Corte di cassazione a Sezioni Unite n. 32044/2018 che giunge alle medesime di quella dianzi rassegnata.
LA PROTEZIONE UMANITARIA DIRETTA, EX ART. 5, CO. 6 TU.
Con
ordinanza del 5.12.2018 RG. 5725/2018 il Tribunale di Firenze
ha riconosciuto ad una cittadina etiope in Italia da anni il permesso umanitario richiesto direttamente al Questore. Il caso ha riguardato una cittadina straniera arrivata in Italia nel 2008 con visto per studio, che per vari anni ha potuto rinnovare il relativo permesso, perdendolo poi a causa di difficoltà economiche per le quali aveva intrapreso varie attività lavorative non assolvendo agli obblighi di legge per il rinnovo del titolo di soggiorno per studio. La questura di Firenze aveva diniegato il rinnovo, avverso il quale non era stata proposta impugnazione e dunque al momento della proposizione del ricorso ex art. 5, co. 6 TU la persona era priva di legittimazione al soggiorno.
Il Tribunale affronta in primo luogo la questione della necessità, o meno, di una previa pronuncia dell’autorità amministrativa sulla domanda di protezione umanitaria, evidenziando che già in sede di richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per studio l’amministrazione avrebbe potuto valutare la sussistenza di altre ragioni legittimanti il rinnovo per un titolo diverso, ex art. 5, co. 9 TU.
Il Giudice fiorentino esamina anche l’applicabilità al giudizio della riforma recata dal d.l. 113/2018, escludendola in ragione della natura del diritto alla protezione umanitaria, valendo il principio di irretroattività di cui all’art. 11 preleggi al codice civile.
Nel merito, il Tribunale, richiamati i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di protezione umanitaria, analizza il concetto di vulnerabilità presupposto della specifica tutela (catalogo aperto), ancorandolo alle conseguenze che un rimpatrio, dopo anni di presenza sul territorio nazionale, arrecherebbe alla cittadina straniera e richiamando espressamente l’art. 8 CEDU e l’interpretazione che di esso ne ha dato la Corte di Strasburgo (sentenza Slivenko c. Lettonia del 9.10.2003).
Facendo applicazione concreta di questi principi il Tribunale di Firenze ha, pertanto, riconosciuto il diritto al permesso umanitario, tenendo conto della risalenza della presenza della cittadina straniera in Italia e dei fattori di integrazione dimostrati attraverso il lavoro ed anche con le relazioni sociali ed affettive sorte nel tempo. Specifica, peraltro, il Tribunale che il permesso che dovrà essere rilasciato è quello “casi speciali” di cui all’art. 1, co. 9, d.l. 113/2018.
Nota di Nazzarena Zorzella
È noto che il d.l. 113/2018 (convertito con modificazioni nella legge 1.12.2018 n. 132) ha abrogato la disposizioni di cui all’art. 5, co. 6 TU nella parte in cui consentiva il rilascio di un permesso di soggiorno anche in situazioni nelle quali non sarebbe stato possibile secondo le regole ordinarie del TU immigrazione ma in presenza di «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». L’eliminazione di quella espressa previsione non ha comportato, tuttavia, l’abrogazione degli obblighi costituzionali o internazionali, avendo essi fonte e legittimazione in disposizioni costituzionali, tra le quali vanno segnalati gli artt. 2 e 10 della Costituzione (ma non solo, essendo ipotizzabili diritti in relazione ad altre norme costituzionali od internazionali) e, attraverso il richiamo contenuto nell’art. 10, alle norme ed ai trattati internazionali e comunque a tutte le disposizioni internazionali ratificate dall’Italia.
Varranno, dunque, anche per il futuro i principi elaborati nel corso degli anni dalla giurisprudenza, tra i quali la natura fondamentale ed inviolabile del diritto alla protezione umanitaria – analoga a quello della protezione internazionale, ricomprendendo in essa anche l’asilo costituzionale di cui all’art. 10, co. 3 Cost., così come altri obblighi costituzionali ed obblighi internazionali (Cass. SU 19393/2009, SU n. 19577/2010, SU n. 5059/2017 e da ultimo Cass. civ. 4455/2018) –, la natura di norma di salvaguardia dell’intero sistema della condizione giuridica del cittadino straniero e la non ricomprensione in elenchi tassativi e pre-determinati, rappresentando un catalogo aperto e flessibile (Cass. 26566/2013, n. 23604/2017, n. 4455/2018).
La prevalente interpretazione sugli effetti della riforma apportata dal d.l. 113/2018 ritiene oggi applicabili direttamente le norme costituzionali ed internazionali1 e nel contempo inapplicabili retroattivamente le nuove previsioni ai procedimenti ed ai giudizi pendenti; conclusione, quest’ultima, cui è giunta, come si è visto anche la Corte di cassazione con la sentenza n. 4890/2018, poc’anzi rassegnata.
Certamente l’applicabilità diretta delle disposizioni costituzionali o internazionali e dei principi giurisprudenziali varrà in futuro in tutte quelle situazioni nella quali la persona straniera non vorrà inserirsi nel sistema della protezione internazionale o in essa non avrà trovato soddisfazione, chiedendo, invece, direttamente all’autorità giudiziaria il riconoscimento di un diritto costituzionale o internazionale, oggi privo di regolamentazione applicativa a seguito dell’abrogazione attuata dal d.l. 113/2018 della parte dell’art. 5, co. 6 TU immigrazione che ad essi rinviava.
In tal senso l’approfondita ordinanza del Tribunale di Firenze del 5.12.2018, che risponde ad una richiesta di riconoscimento giudiziale del diritto di soggiorno di una cittadina straniera in applicazione diretta dell’art. 5, co. 6 TU, degli artt. 2 e 29 Cost. e art. 8 Cedu, afferma principi che varranno in futuro per le azioni che si proporranno per il riconoscimento diretto da parte dell’autorità giudiziaria di quei diritti costituzionali od internazionali.
L’ordinanza, come si è visto, affronta il tema della individuazione della «vulnerabilità» della persona, rinvenendola nel fatto che «il rientro nella terra d’origine risulterebbe inumano e crudele secondo il comune sentire ed il generale rispetto della persona umana (art. 2 Cost.) come declinato anche alla luce dei “cataloghi” dei diritti umani fondamentali elencati nelle “chartae” internazionali (ONU; UE)»; il Tribunale richiama espressamente la necessità di tenere conto se la persona in Italia «abbia già costruitoun’esistenza dignitosa» o se, invece, nel Paese di origine verserebbe in «condizioni assolutamente precarie per la sua dignitosa sopravvivenza».
Forte è, dunque, il richiamo alla dignità dell’esistenza, fulcro dell’art. 2 Cost. e nel contempo all’art. 8 Cedu, affermando, al riguardo, che «l’allontanamento degli stranieri presenti in Italia da un tempo significativo e in possesso di un permesso per lavoro o per motivi familiari o di studio (più volte rinnovato), che si trovino ad affrontare situazioni di sopraggiunta fragilità tali da mettere a repentaglio il mantenimento della regolarità del soggiorno (difficoltà economiche, insorgenza di malattie, ecc..), comporterebbe, in quanto tale, la violazione dell’art. 8 CEDU sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, alla stregua dei principi elaborati dalla Corte di Strasburgo nell’interpretazione di tale disposizione in stretta connessione con la nozione di settled migrant o long term resident (cfr. in particolare la decisione Slivenko c. Lettonia, Corte EDU 9.10.2003, nella quale per la prima volta si è dato rilievo all’art. 8 CEDU come limite all’espulsione di uno straniero fondato non sull’esigenza di salvaguardare la vita familiare, bensì sulla valorizzazione del grado di integrazione sociale dell’interessato, inteso come “the network of personal, social and economic relations that make up the private life of every human being”)».
La vulnerabilità, dunque, come elemento non inferiorizzante ma che afferisce, in positivo, al diritto a vivere una vita libera e dignitosa, ove assume valore l’inserimento in una comunità territoriale e la scelta di continuare a far parte di essa, rispetto a cui il rimpatrio rappresenterebbe una lesione del diritto alla libertà, costituendo di per sé un trattamento inumano e degradante per l’ingiusto sradicamento e per il forzato rimpatrio in una comunità alla quale la persona si sente oramai estranea.
Una declinazione del diritto al rispetto della vita privata e della dignità personale certamente importante e che verrà senz’altro valorizzata nel prossimo scenario giudiziario conseguente alla abrogazione del permesso umanitario.
Con
decreto 16.7.2018 RG 3693/2018 il Tribunale di Milano
ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto da un cittadino straniero avverso il
silenzio serbato dal questore di Milano sulla sua richiesta di rilascio del permesso di soggiorno umanitario ex art. 5, co. 6 TU 286/98. In corso di giudizio, peraltro, era intervenuto formale provvedimento di diniego da parte dell’autorità locale di p.s.
In fatto, la vicenda riguardava un cittadino brasiliano in Italia dal 2009, che durante la permanenza in Italia ha intessuto alcune relazioni affettive, da una delle quali è nata una figlia. Nelle more di un procedimento ex art. 31, co. 3 TU 286/98 l’interessato era stato raggiunto da un decreto di espulsione, avverso il quale era stato proposto ricorso davanti al giudice di pace di Milano ma nel frattempo il cittadino brasiliano aveva presentato al questore istanza di rilascio di un permesso di soggiorno ex art. 5, co. 6 TU, motivato sull’affermata impossibilità di rientrare in Brasile a causa di pregresse minacce di morte a suo carico provenienti da bande criminali nella città ove abitava la madre.
In sede processuale, il giudice designato per la controversia, instaurata ex art. 702-bis c.p.c., ha chiesto al ricorrente di chiarire se la sua domanda «poteva essere qualificata come domanda di protezione internazionale», cui l’interessato ha risposto negativamente in quanto le vicende nel Paese di origine avevano una valenza puramente storica e la domanda era stata proposta ai sensi dell’art. 5, co. 6 TU, pertanto con competenza attribuita non alle Sezioni specializzate ma al Tribunale ordinario in composizione monocratica.
Il Tribunale di Milano affronta, preliminarmente, la questione della competenza, affermando la sussistenza di quella delle Sezioni specializzate in quanto rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 3, co. 1 lett. c) D.L. 13/2017 «dato che il ricorrente chiede di non essere respinto verso il Paese di origine per una serie di ragioni, compresa l’esistenza di una situazione di minaccia individuale che gli aveva impedito di fare ritorno in Brasile qualche anno fa».
Quanto al merito della questione, il Tribunale non la esamina, ritenendo la domanda inammissibile in quanto sottende il diritto al non refoulement e dunque va presentata esclusivamente alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, poiché «Non è prevista alcuna discrezionalità per il cittadino straniero (o apolide) irregolare di scegliere l’autorità competente a decidere sulla sua richiesta di “non refoulement”». In altri termini, il Tribunale di Milano ha qualificato la domanda (prima amministrativa e poi giudiziale) presentata dal cittadino straniero quale domanda di riconoscimento della protezione internazionale, rispetto a cui il questore non ha alcuna competenza e pertanto il diniego da esso opposto non rientra nella tipologia di provvedimenti indicati nell’art. 3, co. 1 lett. c) e d), d.l. 13/2017, con conseguente inammissibilità del ricorso.
Nota di Nazzarena Zorzella
La decisione qui in rassegna apre una serie di questioni delicate, tra le quali quella della competenza, sia amministrativa che giurisdizionale, in materia di richiesta di permesso di soggiorno, ex art. 5, co. 6 TU, collegata al timore di subire gravi pregiudizi alla persona in conseguenza del rimpatrio. Il richiamo al non refoulement nel decreto in esame fa ritenere che sia stato invocato, in riferimento a detta norma generale, il divieto di respingimento ed espulsione ai sensi dell’art. 19, co. 1 TU, nella disciplina antecedente il d.l. 113/2018 (che l’ha oggi ancorato al sistema della protezione internazionale, inquadrandolo nella protezione complementare “speciale”).
Non conoscendo il testo del ricorso proposto, né della domanda inoltrata al questore di Milano, non è possibile sapere se quel timore, pur collocato in anni risalenti, sia stato prospettato come ancora attuale e in quali termini oppure se altri elementi siano stati indicati a supporto della domanda, quali la pluriennale presenza in Italia ed i legami familiari qui esistenti.
Tuttavia, la decisione lascia perplessi anche se la domanda sia stata proposta “limitatamente” al rischio ex art. 19, co. 1 TU. Disposizione che, infatti, non era ricompresa, prima dell’entrata in vigore del d.l. 113/2018, nell’ambito della protezione internazionale né può oggi dirsi in essa esaurita, sia perché preesistente alla normativa di derivazione europea, sia perché contiene fattori di rischio non necessariamente coincidenti con quelli sottesi alla protezione internazionale (rifugio o protezione sussidiaria).
Il generale divieto di respingimento ed espulsione recato dall’art. 19, co. 1 rappresenta(va) una fattispecie distinta ed autonoma che trovava la fonte generale nell’art. 5, co. 6 TU (in relazione ad obblighi costituzionali o internazionali) e la sua disciplina regolamentare nell’art. 28, co. 1 lett. d) d.p.r. 394/99 e s.m., secondo cui doveva rilasciarsi (fino alla riforma del d.l. 113/2018) il permesso «d) per motivi umanitari, negli altri casi, salvo che possa disporsi l'allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga contro le persecuzioni di cui all'articolo 19, comma 1, del testo unico».
Nessuna disposizione stabiliva, dunque, che in relazione al rischio di cui all’art. 19, co. 1 TU immigrazione la persona straniera fosse obbligata a rivolgere richiesta di protezione attraverso il sistema della protezione internazionale. Il divieto di respingimento ed espulsione in relazione ai fattori indicati nell’art. 19, co. 1 TU poteva e doveva valere come divieto operante direttamente nei confronti del Questore, che se convinto della sua sussistenza, era tenuto a rilasciare uno specifico titolo di soggiorno.
Oggi, con la riforma recata dal d.l. 113/2018 la questione è in parte mutata, in quanto il novellato art. 32, co. 3, d.lgs. 25/2008 ha attribuito alle Commissioni territoriali la competenza a valutare l’esistenza dei presupposti indicati nell’art. 19, co. 1 ed anche 1.1. TU (non necessariamente legati, tuttavia, al solo accertamento delle cause ostative al riconoscimento della protezione internazionale) ma il Tribunale non si è fatto carico di esaminare l’incidenza della modifica legislativa rispetto ad una domanda giudiziale precedentemente proposta.
I PROVVEDIMENTI EX REGOLAMENTO n. 604/2013 DUBLINO III
La giurisdizione
In un giudizio di regolamento di giurisdizione, proposto da alcuni ricorrenti stranieri avverso le decisioni del Tribunale di Trieste che aveva dichiarato la competenza del giudice amministrativo in materia di impugnazione delle decisioni di trasferimento assunte ai sensi del Regolamento UE n. 604/2013, con
ordinanza n. 22412/2018 la Corte di cassazione chiarisce che la novella di cui al d.l. n. 13/2017 (che ha assegnato alle sezioni specializzate del Tribunale sede di capoluogo la competenza giurisdizionale in detta materia) si applica solo ai giudizi introdotti dopo 180 gg. dalla sua entrata in vigore (17 agosto 2018), e ribadisce che va comunque dichiarata la
giurisdizione ordinaria anche per i giudizi proposti precedentemente, richiamando in proposito la sentenza a Sezioni Unite della Cassazione n. 8044/2018. Secondo il Giudice di legittimità, infatti, anche le decisioni cd. Dublino incidono sul diritto soggettivo alla protezione internazionale e pertanto affidate alla giurisdizione ordinaria.
La determinazione della competenza dello Stato ai sensi del Regolamento n. 604/2013 e la competenza alle decisioni di trasferimento
La Corte di giustizia dell’Unione europea è stata investita dal giudice della Bulgaria di varie questioni, tra le quali se uno Stato membro possa esaminare una domanda di protezione internazionale senza avere prima adottato una esplicita pronuncia sulla competenza dello Stato secondo i criteri del Regolamento n. 604/2013 anche qualora non vi siano elementi che depongano per una deroga ai sensi dell’art. 17 del medesimo (par. 37) ed inoltre se il giudice possa accertare d’ufficio la competenza dello Stato ad esaminare la domanda di protezione.
Con sentenza
C-56 del 4.10.2018 la CGUE premette che la questione «deve essere risolta tenendo conto non soltanto del testo dell’articolo 3, paragrafo 1, del Regolamento Dublino III, ma anche del suo contesto e dell’economia generale della normativa di cui la disposizione citata fa parte, nonché degli obiettivi che la stessa persegue (sentenza del 5 luglio 2018, X, C-213/17, EU:C:2018:538, punto 26)» (par. 50).
La Corte ripercorre alcuni dei principi consolidati in materia, tra i quali il diritto di precisa informazione al richiedente protezione (par. 52), la rilevanza della clausola discrezionale prevista dall’art. 17 del Regolamento (tale per cui lo Stato può decidere di esaminare la domanda anche se non sarebbe competente secondo i criteri ordinari: par. 53), e le garanzie procedurali, cioè il diritto di ricorso nei confronti di decisioni di trasferimento assunte dallo Stato dichiaratosi incompetente (par. 54), precisando, con riguardo a queste ultime, che non vi è analoga previsione nel caso inverso, cioè se lo Stato non adotta una esplicita decisione di competenza procedendo all’esame della domanda di protezione .
La conclusione della CGUE è di escludere che vi sia l’obbligo di assumere una esplicita decisione qualora lo Stato esamini la domanda di protezione («L’articolo 3, paragrafo 1, del Regolamento (UE) n. 604/2013 […] deve essere interpretato nel senso che non osta a che le autorità di uno Stato membro procedano all’esame del merito di una domanda di protezione internazionale, ai sensi dell’articolo 2, lettera d), del medesimo regolamento, in mancanza di una decisione esplicita delle stesse autorità che stabilisca, sulla base dei criteri previsti dal regolamento succitato, che la competenza a effettuare un simile esame incombeva a tale Stato membro»).
Quanto alla possibilità che sia il giudice ad accertare d’ufficio la competenza («Se l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32 […] debba essere interpretato nel senso che […] il giudice competente di uno Stato membro è tenuto a verificare d’ufficio se i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame della domanda in questione, quali previsti dal Regolamento Dublino III, siano stati correttamente applicati»: par. 60), la Corte di giustizia lo esclude, in quanto la Direttiva 2013/32/UE, che disciplina la procedura di esame della domanda di protezione internazionale, non si applica alle procedure tra Stati di cui al Regolamento n. 604/2013 e l’esame ex nunc della domanda di protezione, previsto dall’art. 46 di detta Direttiva, non può essere interpretato nel senso di affidare al giudice anche la verifica della competenza dello Stato, tenuto conto che «l’articolo 2, lettera d), del Regolamento Dublino III dispone che, ai fini dello stesso regolamento, per “esame di una domanda di protezione internazionale” si intende l’“insieme delle misure d’esame, le decisioni o le sentenze pronunciate dalle autorità competenti su una domanda di protezione internazionale conformemente alla Direttiva [2013/32] e alla Direttiva [2011/95] ad eccezione delle procedure volte a determinare quale sia lo Stato competente in applicazione del [medesimo] regolamento”.». (par. 70).
Con singolare decisione –
decreto del 16.10.2018 RG. 745/2018 – il Tribunale di Trento
, adito da un richiedente asilo contro la decisione della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Verona, ha sollevato d’ufficio
l’eccezione di inammissibilità della domanda di protezione ai sensi del Regolamento Dublino III, in quanto il ricorrente risultava avere presentato domanda di protezione in un altro Stato dell’UE conseguendo un rigetto della stessa.
Nella motivazione, tuttavia, il Tribunale afferma di non ritenere inammissibile la domanda in sé e dunque la competenza dell’Italia, essendo essa stata istruita dalla Commissione territoriale, ma ritiene che lo sia il ricorso «in quanto la domanda di protezione internazionale è stata già presentata dal richiedente in Romania» sulla base dei medesimi presupposti dichiarati in Italia.
Sulla questione posta dal Tribunale di Trento (che in altre occasione ha emesso analoga decisione di inammissibilità) è intervenuta la
Corte di cassazione, con ordinanza 31675/2018,con cui ha censurato detta tesi e, ricostruita la normativa in materia di decisioni di trasferimento in applicazione del Regolamento n. 604/2013 (artt. 13 e 17 e art. 3 d.lgs. 25/2008), ha affermato che «
non spetta al giudice, ma all’amministrazione, il cui provvedimento è poi sottoposto al controllo del giudice ordinario […], determinare quale sia lo Stato competente ad esaminare la domanda di protezione internazionale.», richiamando, a conforto, la decisione a Sezioni Unite n. 8044/2018.
LE MISURE DI ACCOGLIENZA
Con sentenza n. 5445/2018 il Consiglio di Stato ha accolto l’appello proposto da un richiedente protezione internazionale a cui la prefettura di Lucca aveva revocato, ai sensi dell’art. 23 d.lgs. 142/2015, le misure di accoglienza in una struttura pubblica perché denunciato per «furto aggravato di alcuni indumenti usati depositati all’interno di un cassonetto per la raccolta degli stessi.» Secondo il giudice amministrativo d’appello, a prescindere dal fatto se la norma riguardi comportamenti gravemente violenti dentro o fuori la struttura di accoglienza, è indubbio che l’art. 23, co. 1, lett. e), d.lgs. n. 142/2015 afferisca a «violazione grave e ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto il richiedente asilo o a comportamenti gravemente violenti» e, invece, nel caso di specie, va escluso che «il furto aggravato di indumenti per bambini contestato» rappresenti né l’una né l’altro. Il Consiglio di Stato, peraltro, evidenzia l’assenza di motivazione del provvedimento prefettizio di revoca e che la Procura della Repubblica ha chiesto l’archiviazione della denuncia.
Inoltre, la sentenza afferma che non «può condividersi la motivazione del primo giudice, laddove rileva che la violazione del diritto penale, le cui norme sono poste alla base dell’ordinato vivere civile nell’ordinamento giuridico, debba essere ritenuta più grave della violazione ripetuta di comportamenti irrispettosi del regolamento del centro di accoglienza», poiché la valutazione sulla pericolosità sociale appartiene al prefetto ma non nell’ambito dell’art. 23, d.lgs. 142/2015 bensì, eventualmente, al fine del trattenimento del richiedente asilo nei CPR, disciplinato dall’art. 6 del medesimo d.lgs.
Infine, il Consiglio di Stato censura anche l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, ex art. 7 legge 241/90 e s.m., stante le gravi conseguenze della revoca dell’accoglienza ed impedimento del diritto di difesa dell’interessato che avrebbe potuto portare argomentazioni con le quali l’amministrazione pubblica avrebbe potuto meglio ponderare in concreto la gravità del fatto e la proporzionalità delle misure sanzionatorie «come prevede l’art. 20, par. 5, della direttiva 33/2013/UE».
Il giudice d’appello affronta, poi, anche la questione della revoca del patrocinio a spese dello Stato, disposta dal Tar Toscana con la sentenza di rigetto del ricorso, annullando anche quella parte della pronuncia in quanto «non può, invero, ritenersi sussistente la ragione ostativa su cui poggia l’avversata decisione di diniego e che impinge nella rilevata infondatezza del ricorso. Le ragioni già sopra esposte, e da intendersi qui richiamate, inducono a concludere per la piena condivisione delle doglianze articolate in prime cure».
Va segnalato che con ordinanza n. 1481/2018 il Tar Toscana ha disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea per chiarire «se l’articolo 20, par. 4, della Direttiva [ndr: Direttiva 2013/33/UE] osta ad un’interpretazione dell’art. 23, d.lgs. 142/2015 nel senso che anche comportamenti violativi di norme generali dell’ordinamento, non specificamente riprodotte nei regolamenti dei Centri di accoglienza, possono integrare grave violazione di questi ultimi laddove siano in grado di incidere sull’ordinata convivenza nelle strutture di accoglienza».
In caso di risposta affermativa il Tar chiede «se l’articolo 20, par. 4, della Direttiva osta ad un’interpretazione dell’art. 23, d.lgs. 142/2015 nel senso che possono essere considerati, ai fini della revoca dell’ammissione alle misure di accoglienza, anche comportamenti posti in essere dal richiedente protezione internazionale che non costituiscono illecito penalmente punibile ai sensi dell’ordinamento dello Stato membro, laddove essi siano comunque in grado di incidere negativamente sull’ordinata convivenza nelle strutture in cui gli stessi sono inseriti».
Con sentenza n. 2162/2018 il Tribunale amministrativo per la Calabria, sede di Catanzaro, ha annullato un provvedimento di revoca delle misure di accoglienza, emesso ex art. 23 d.lgs. 142/2015 dalla prefettura di Catanzaro a seguito del rigetto dell’appello in un giudizio avverso il diniego di riconoscimento della protezione internazionale e pendente il termine per il ricorso in Cassazione (trattasi di giudizio antecedente la riforma di cui al d.l. 13/2017).
Innanzitutto il Tar ha rigettato l’eccezione del Ministro, secondo cui sarebbe competente il giudice ordinario trattandosi di provvedimento a contenuto vincolato e pertanto non rientrante tra le ipotesi che l’art. 23, co. 1 d.lgs. 142 assegna alla competenza esclusiva del giudice amministrativo, in quanto la revoca è stata disposta ai sensi dell’art. 14, co. 4 del medesimo d.lgs. 142 «a seguito della ritenuta cessazione degli effetti sospensivi del diniego conseguenti al rigetto dell’appello» e dunque non ai sensi del citato art. 23.
In ogni caso, ad avviso del Tar, l’art. 23, co. 5 assegna al giudice amministrativo un ampio potere in materia di revoca delle misure e pertanto anche il caso oggetto di giudizio, tenuto conto che, diversamente opinando, verrebbe leso «il principio di concentrazione del giudizio, quale riflesso dell’effettività della tutela giurisdizionale di cui agli artt. 24, 103 Cost., 6 CEDU e 1 c.p.a., da intendersi come canone superiore, da privilegiare ogniqualvolta vi sia un pericolo di frazionamento e di frammentazione della tutela giurisdizionale (Corte di cassazione, SU, 25.7.2016, n. 15283)».
Nel merito, il Tar richiama la giurisprudenza della Corte di cassazione (12476/2018), fatta propria anche dal Consiglio di Stato (5037/2018), secondo cui l’efficacia esecutiva del provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale, disposta ex lege e non giudizialmente, cessa con il passaggio della decisione giudiziale ovverosia, nel regime processuale antecedente la riforma del 2017, esauriti i tre gradi di giudizio. Nel caso esaminato dal Tar «alla data di notifica del provvedimento di revoca pendessero ancora i termini per il ricorso in Corte di cassazione, in effetti poi presentato e accolto, cosicché non sussistevano i presupposti per una revoca delle misure di accoglienza».
1 https://www.quirinale.it/elementi/18098.
CSM,
Parere ai sensi dell'art. 10, l. 24.3.1958, n. 195, sul d.l. 113 del 4.10.2018 recante: «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, pubblica sicurezza, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell'Interno e l'organizzazione e il funzionamento dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata». (Delibera consiliare del 21 novembre 2018)
Ruotolo, Brevi note sui possibili vizi formali e sostanziali del d.l. n. 113 del 2018 (c.d. decreto “sicurezza e immigrazione”). Audizione presso la Commissione affari costituzionali del Senato in relazione all’esame in sede referente del disegno di legge n. 840 (d.l. 113/2018-sicurezza pubblica), Roma, 16 ottobre 2018, in
Osservatorio Costituzionale, n. 3/2018.
Benvenuti, Audizione resa il 16 ottobre 2018 innanzi all’Ufficio di Presidenza della Commissione 1a (Affari costituzionali) del Senato della Repubblica nell’ambito dell’esame del disegno di legge recante “Conversione in legge del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, in
Osservatorio Costituzionale, n. 3/2018.