Il panorama della giurisprudenza italiana in tema di cittadinanza nel periodo qui considerato (settembre-dicembre 2019) mostra alcuni aspetti rilevanti. Oltre a due nuove sentenze sul riparto della giurisdizione, è stata emessa una interessante pronuncia sull’equiparazione del rifugiato allo straniero titolare di protezione sussidiaria ai fini dell’esonero di quest’ultimo dalla produzione dei documenti necessari per l’istanza, da richiedere alle proprie autorità nazionali.
Permane la forte prevalenza numerica delle decisioni originate dai ricorsi collegati alla richiesta della cittadinanza italiana per naturalizzazione. Al di là delle motivazioni, quasi sempre ampiamente ripetitive, come del resto appare naturale, tali decisioni rivelano talvolta qualche tratto innovativo, per lo più collegato alle nuove e diverse fattispecie sottostanti. Non manca una pronuncia sull’accertamento dell’apolidia.
Riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in tema di acquisto della cittadinanza italiana. a) Acquisto della cittadinanza per nascita e residenza in Italia sino alla maggiore età. Differenza tra le ipotesi in cui l’istante ha un interesse legittimo all’acquisto della cittadinanza e quelle in cui è titolare di un diritto soggettivo. b) Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da cittadino italiano. Successiva revoca di tale riconoscimento. Assenza di valutazione discrezionale nella relativa controversia.
Ancora una volta sono stati delineati i parametri per la delimitazione tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa. Il relativo riparto muove, com’è noto, dalla distinzione tra i casi in cui la concessione della cittadinanza italiana è configurabile quale potere ampiamente discrezionale dell’Amministrazione, che impone l’accertamento di un interesse pubblico (v. ad esempio, l’art. 9, al co. 1 lett. f della l. 91/92) e che implica, quindi, la sussistenza di una situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo tutelabile dinanzi al giudice amministrativo, da una parte; e i casi nei quali invece la valutazione cui è tenuta l’Amministrazione si riduce ad un accertamento della sussistenza di requisiti direttamente stabiliti dalla legge, dall’altra. In queste ipotesi, poiché il riconoscimento non è mediato dall’esercizio del pubblico potere, la situazione giuridica soggettiva del richiedente deve essere qualificata come diritto soggettivo tutelabile dinanzi al giudice ordinario.
L’esempio paradigmatico di quest’ultimo caso è rappresentato dall’acquisto della cittadinanza per matrimonio, disciplinato dagli artt. 5 ss. della legge, laddove non emergano comprovati motivi ostativi attinenti alla sicurezza della Repubblica (su di essi si è di recente espresso Cons. St., sez. III, sent. 29.4.2019 n. 2768, in questa Rassegna, fasc. 2/2019).).
Uguale natura contraddistingue anche l’art. 4 co. 2, sull’acquisto della cittadinanza per nascita e residenza ininterrotta in Italia sino al raggiungimento della maggiore età. Dall’applicazione di questa norma scaturiva il ricorso contro un Comune italiano, nei confronti del quale si lamentava il diniego del riconoscimento della cittadinanza malgrado la pretesa sussistenza di entrambi i requisiti suddetti. Alla qualifica di diritto soggettivo inerente all’oggetto di tale fattispecie consegue la dichiarazione di inammissibilità del ricorso stesso per difetto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo in favore dell’autorità giudiziaria ordinaria competente per territorio, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 11 c.p.a. (Tar Abruzzo, sez. I, sent. 24.10.2019 n. 511).
Il giudice amministrativo ha avuto anche modo di affrontare un altro caso, invero singolare, relativo al riparto in esame (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 26.9.2019 n. 11356). Si trattava infatti di un duplice ricorso contro il Ministero degli affari esteri ed il Ministero dell’interno che traeva origine da un decreto di un Console italiano nel quale veniva revocato l’accertamento dello status civitatis per discendenza da capostipite italiano, compiuto in precedenza dal Console stesso.
Non sembra opportuno addentrarsi qui nella complessa questione sottostante, che coinvolgeva anche la moglie dell’avo suddetto, all’interno della quale veniva invocata sia la precedente legge organica sulla cittadinanza (l. 12.6.1912 n. 555) sia il diritto al riacquisto della cittadinanza italiana da parte delle persone originarie dei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920, e ai loro discendenti (l. 14.12.2000 n. 379).
Ci si limita a riportare gli ineccepibili motivi alla base della dichiarazione di incompetenza del Tribunale amministrativo, secondo il quale le suddette norme non attribuiscono all’Amministrazione alcuna potestà discrezionale: lo status civitatis del ricorrente (e dei suoi familiari) era stato infatti dapprima dichiarato e poi negato dall’autorità consolare italiana all’esito di un mero accertamento sulla cittadinanza del capostipite, non risultando esercitata (né invero essendo esercitabile) alcuna ulteriore valutazione al riguardo.
Acquisto della cittadinanza per matrimonio. a) Motivi attinenti alla sicurezza della Repubblica. Vicinanza dell’istante ad ambienti e movimenti ostili alla sicurezza nazionale. b) Necessario invio della documentazione proveniente dal Paese di origine a corredo della domanda. Titolare di protezione sussidiaria. Pericolosità di tale esibizione per la propria incolumità. Parificazione alla situazione di rifugiato. Esonero da tale incombenza.
Come sopra indicato, spetta al giudice amministrativo decidere sull’impugnazione del rigetto della richiesta di cittadinanza per matrimonio, allorché sia fondato sull’art. 6 co. 1 lett. c della l. 91/92, ovvero sull’esistenza di comprovati motivi attinenti alla sicurezza della Repubblica.
Ancora una volta è intervenuto sul tema il Consiglio di Stato con una dettagliata pronuncia (Cons. St., sez. III, sent. 19.11.2019 n. 7904). Anzitutto, esso ha chiarito che, in presenza della classifica di riservatezza sugli atti istruttori preordinati all’adozione del decreto recante il diniego di concessione della cittadinanza, correttamente l’Amministrazione omette di indicarne il contenuto, al fine di non estendere la loro conoscenza a soggetti privi della prescritta abilitazione rilasciata dall’autorità preposta alla tutela del segreto di Stato.
Tuttavia, nel rispetto del principio del contraddittorio e, quindi, di parità delle parti di fronte al giudice (c.d. parità delle armi), la conoscenza del documento deve essere comunque consentita in corso di giudizio al difensore dello straniero; in presenza di informative con classifica di “riservato”, il richiamo ob relationem al contenuto delle stesse può soddisfare le condizioni di adeguatezza della motivazione.
Dunque l’esercizio dei diritti di difesa e la garanzia di un processo equo possono essere soddisfatti dall’ostensione in giudizio della documentazione secretata, ferme le cautele e le garanzie previste per la tutela dei contenuti classificati da riservatezza. Dopo aver constatato che nel caso di specie erano stati realizzati tali «presidi di garanzia» dei diritti della parte, è stata ribadita – ancora una volta – l’ampia sfera di discrezionalità di cui gode l’Amministrazione circa la possibilità di concedere o meno la cittadinanza e l’ampio margine di valutazione dei competenti uffici nel corso della relativa istruttoria. Tale valutazione si estende non solo alla capacità dello straniero di inserirsi in modo ottimale nella comunità nazionale sotto il profilo lavorativo, economico e sociale; ma anche all’assenza di possibili vulnera che dalla sua presenza potrebbero derivare per le condizioni di sicurezza dello Stato. In realtà, si potrebbe obiettare che lo straniero è già presente, ma soggetto – a differenza del cittadino – ad una eventuale espulsione.
I giudici di Palazzo Spada confermano poi che la rilevata vicinanza dell’istante ad ambienti e movimenti ostili alla sicurezza nazionale evidenziano un pericolo per l’ordine pubblico non necessariamente correlato ad elementi ostativi quali condanne o precedenti penali o anche solo giudiziari a carico del richiedente. Tali motivi possono derivare anche da specifiche frequentazioni dello straniero e dalla sua appartenenza a movimenti che, per orientamenti ideologici o posizioni estremistiche, possono incidere sulle condizioni di sicurezza pubblica o sulla condivisione dei valori fondanti la coesione della comunità nazionale.
Sempre in tema di acquisto della cittadinanza per matrimonio, di tutt’altro contenuto risulta la fattispecie sottesa ad un’azione in giudizio intentata da una cittadina straniera, titolare di protezione sussidiaria, contro il Ministero dell’interno, allo scopo di fare accertare sia il proprio diritto a non rivolgersi all’Ambasciata (o al Consolato) del proprio Stato in Italia e nemmeno a far ritorno al proprio Paese di origine al fine di adempiere agli oneri di deposito delle necessarie certificazioni (nascita e casellario giudiziario) nella procedura di acquisto della cittadinanza italiana sia il proprio conseguente diritto all’autocertificazione. Merita di essere segnalata al riguardo la contumacia del Ministero suddetto, probabile indice di una consapevolezza della fondatezza di tali pretese.
In un’ampia e – a quanto consta – innovativa pronuncia il Tribunale di Roma ha accolto la domanda dell’attrice (Trib. Roma, sent. 13.11.2019, in Banca dati Leggi d’Italia). Il giudice, al fine di affermare preliminarmente la propria giurisdizione di fronte alle due domande suddette, relative appunto alle modalità di documentazione di alcuni requisiti indispensabili per l’attribuzione della cittadinanza, ai sensi dell’art. 5 della l. 91/1992, rammenta anzitutto (ancora una volta) che il diritto soggettivo del coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano affievolisce ad interesse legittimo solo in presenza dell’esercizio, da parte della pubblica amministrazione, del potere discrezionale di valutare l’esistenza di motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica che ostino a detto acquisto ex art. 6 co. 1 lett. c della l. 91/92 (ma richiama altresì la norma garantista sull’inutile decorso del termine di cui all’art. 8 co. 2, ormai purtroppo abrogata ad opera del d.l. 4.10.2018 n. 113, conv. con modif. dalla l. 1.12. 2018 n. 132, c.d. decreto sicurezza).
Viceversa, nel caso di specie sussiste un diritto soggettivo della richiedente la cittadinanza ad adire il giudice ordinario in riferimento all’esonero dall’acquisizione del certificato di nascita e di quello penale, mentre il Ministero ben potrà successivamente esercitare il proprio potere di verifica circa l’inesistenza di motivi di sicurezza ostativi alla concessione della cittadinanza.
Una volta esaurita questa pur necessaria premessa, il Tribunale constata, in primo luogo che il d.lgs. n. 18/2014, in attuazione della direttiva 2011/95/UE, ha equiparato, sotto molti aspetti, lo status di titolare della protezione sussidiaria a quello di rifugiato, ma non riguardo all’esonero in causa.
Secondo il giudice, l’esenzione di soggetti ammessi alla protezione internazionale dall’obbligo di chiedere alle autorità dello Stato di origine una documentazione amministrativa trova il suo unico fondamento positivo, in Italia, nella circolare del Ministero dell’interno K.60.1. del 23.12.1994, che prevede una simile dispensa solo per gli stranieri che siano stati riconosciuti rifugiati politici del Governo italiano. A nostro avviso, questa affermazione in realtà non tiene conto che nel nostro ordinamento sono presenti anche le norme di adattamento alla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati, il cui art. 25 prevede in dettaglio le modalità per l’esonero stesso.
Tuttavia, prosegue il Tribunale, il fatto che tale circolare sia rivolta ai rifugiati politici, pur non avallando, in base un’interpretazione letterale, l’equiparazione tra le due categorie di persone qui in esame, non consente neppure di escluderne la fondatezza. Il diritto all’esenzione, infatti, non può trovare in tale fonte secondaria il fondamento di una sua esclusione in via assoluta per i titolari della protezione sussidiaria; esso deve piuttosto essere accertato facendo ricorso ad argomenti desunti dalla legislazione vigente, anche ovviamente da quella primaria, e soprattutto con riguardo alla ratio e alle differenze dei due diversi istituti di protezione internazionale.
In particolare, nella protezione sussidiaria si coglie, rispetto al rifugiato politico, una attenuazione del nesso causale tra la vicenda individuale ed il rischio rappresentato; ciò giustifica la limitazione ai rifugiati politici operata dal Ministero dell’interno riguardo al diritto all’esenzione dalla richiesta di attestati e certificati alle autorità dello Stato estero, dato che per tale categoria di persone, riguardo alle quali il c.d. fumus persecutionis è più “individualizzato”, è probabile che il solo contatto con tali autorità, anche consolari, e il conseguente propalarsi della notizia della loro esistenza in Italia, possa esporre le stesse ad un concreto rischio di persecuzione.
Tuttavia, se per il rifugiato tale pericolo è presunto, ciò non significa che per il soggetto ammesso alla protezione sussidiaria debba essere necessariamente escluso. Dunque, se il mancato riconoscimento della protezione massima può derivare dalla mancata dimostrazione di una persecuzione individualizzata, non si può escludere che, nella diversa sede della richiesta di esenzione quale il presente giudizio, la titolare della protezione possa offrire, come ha debitamente offerto con diverse prove, una dimostrazione concreta del pericolo che corre per il semplice contatto con le autorità consolari dello Stato di provenienza. Ciò è dimostrato anche dal rilascio, da parte delle autorità italiane del c.d. titolo di viaggio, il quale viene riconosciuto solo dopo che l’interessato abbia provato di esser nell’impossibilità di ottenere un passaporto dalle autorità del Paese di appartenenza, proprio in vista dei pericoli derivanti appunto dal contatto con tali autorità. Viene così statuito il diritto all’autocertificazione relativamente all’atto di nascita e ai precedenti penali riportati nel proprio Paese dalla cittadina straniera.
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione. a) Tipologie di condanne per reati quali motivi ostativi all’acquisto. b) Differente ruolo dei motivi attinenti alla sicurezza della Repubblica. c) Necessità in ogni caso di una congrua motivazione. d) Effetti derivanti dalla scadenza dei termini statuiti per il procedimento. e) Conseguenze in esito alla necessaria integrazione della documentazione presentata. f) Ulteriori requisiti quali la sufficienza del reddito e la conoscenza della lingua italiana.
Come anticipato all’inizio, le decisioni aventi ad oggetto l’applicazione dell’art. 9 co. 1 lett. f della l. 91/92, relativo all’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione dopo dieci anni di residenza in Italia, costituiscono pur sempre il numero più rilevante di pronunce in tema di cittadinanza, tutte ovviamente emesse dai giudici amministrativi.
Può essere segnalato anzitutto un gruppo di sentenze che confermano il rifiuto del Ministero dell’interno di attribuire lo status civitatis italiano a causa di pregresse condanne dell’istante per diverse tipologie di reati. Sul punto ha avuto modo di intervenire anche il Consiglio di Stato (Cons. St., sez. III, sent. 23.12.2019 n. 8734), il quale ha dapprima ribadito (per l’ennesima volta) che l’ottenimento di tale status non costituisce un diritto soggettivo: l’Amministrazione ha perciò il potere-dovere di valutare qualsiasi elemento, anche meramente sintomatico o indiziario, ai fini di un pieno inserimento dell’istante nella collettività nazionale e di un «genuino senso di appartenenza alla nazione». In tale prospettiva, essa può legittimamente addurre qualsiasi dato storico o profilo comportamentale del richiedente, emerso nel corso dell’istruttoria, dal quale sia logicamente desumibile una sua mancata piena integrazione, «avuto riguardo ai valori fondanti dell’ordinamento, tra cui in primis quello della dignità umana, posto al vertice dell’ordinamento medesimo». Nel caso specifico, è stata così giustificato il diniego fondato su una condanna penale per reati legati al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (ai sensi dell’art. 12 l. 286/1998); a nulla rileva l’intervenuta prescrizione del reato dopo la prima condanna, anche perché l’interessato avrebbe potuto rinunciare alla estinzione per prescrizione del reato allo scopo di ottenere una sentenza di assoluzione piena, ovvero la riabilitazione a fronte di una confermata condanna.
D’altro canto, la irrilevanza della prescrizione nei termini sopra descritti è oggetto di un orientamento consolidato, come ad esempio riguardo a una condanna per furto e rapina (da ultimo Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 8.10.2019 n. 11606), così come altrettanto consolidato risulta l’orientamento relativo all’incidenza negativa delle condanne penali anche di minor rilievo, quali la guida in stato di ebbrezza, in particolare se tali condanne non sono state dichiarate – come del resto era avvenuto anche nel caso precedente – nella istanza per la concessione della cittadinanza (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 22.10.2019 n. 12136).
In ogni caso, anche in riferimento alle motivazioni sin qui riportate, una sentenza di condanna deve pur sempre sussistere. Non si può quindi fare a meno di condividere pienamente l’atteggiamento del giudice amministrativo allorché censura l’operato del Ministero dell’interno, che aveva respinto una domanda di attribuzione della cittadinanza sulla base di due semplici denunce a carico dell’interessato per disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone di cui all’art. 659 c.p. (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 4.9.2019 n. 10732). E occorre comunque rammentare che in tali casi il giudice amministrativo non ha certamente il potere di riconoscere come ulteriore effetto l’attribuzione della cittadinanza italiana, ma si rimette alle successive valutazioni dell’Amministrazione, ovvero ad ulteriori accertamenti più aggiornati, pur sempre nell’esercizio della sua ampia discrezionalità.
Malgrado talune premesse comuni, ben diverse si rivelano invece le motivazioni adottate, in riferimento alle fattispecie sottese, nei casi in cui ostino all’ottenimento della cittadinanza i motivi attinenti alla sicurezza della Repubblica. In effetti, normalmente difetta in tali casi qualsiasi tipo di precedente condanna penale, ma viene piuttosto in rilievo la pericolosità sociale che potrebbe derivare da un eventuale inserimento dell’istante nella comunità nazionale. Tale situazione di pericolo viene assai spesso configurata al termine di un’istruttoria, la quale rivela la “contiguità” dello straniero a movimenti aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica, ovvero eversivi.
Così, in una dettagliata pronuncia (coincidente con i numerosi motivi di ricorso), il giudice amministrativo (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 27.11.2019 n. 13614; nel medesimo senso già Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 4.9.2019 n. 10728) dichiara preliminarmente che il conferimento della cittadinanza italiana per naturalizzazione presuppone l’accertamento di un interesse pubblico da valutarsi anche in relazione ai fini propri della società nazionale, e non già al semplice riferimento dell’interesse privato di chi domanda la cittadinanza per esigenze personali. L’attribuzione della cittadinanza, per sua natura irrevocabile, presuppone infatti che «nessun dubbio, nessuna ombra di inaffidabilità del richiedente sussista, anche con valutazione prognostica per il futuro, circa la piena adesione ai valori costituzionali su cui la Repubblica italiana si fonda».
Sulla base di tali premesse, una volta constatata l’adeguatezza sia dell’istruttoria condotta dai servizi di intelligence sia delle pur scarne ragioni addotte a giustificazione del diniego dell’Amministrazione, il Tar respinge il ricorso, dopo avere sottolineato le differenze che caratterizzano il procedimento di naturalizzazione rispetto a quello dell’acquisto della cittadinanza per matrimonio. Appare perciò piuttosto oscuro il richiamo operato dagli stessi giudici all’applicabilità dell’art. 8, co. 1 della l. 91/92, in tema di riproposizione dell’istanza dopo cinque anni dal rigetto, dato che la norma è rivolta esclusivamente al secondo tipo di procedimento, come del resto è confermato anche dalla pronuncia del Consiglio di Stato citata nella sentenza in esame (Cons. St., sez. III, sent. 29.3.2019 n. 2102).
D’altro canto, ad un rigore ancora più accentuato è ispirata un’ulteriore decisione nella quale assurge a motivo ostativo per la concessione della cittadinanza la contiguità a movimenti eversivi siffatti del fratello del richiedente (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 30.11.2019 n. 13747). Viene in considerazione il legame stabile con il territorio che l’istante potrebbe stabilire anche in favore del fratello implicato nelle indagini effettuate. Ancora una volta sembra emergere il paventato rischio di veder precluso, una volta attribuita la cittadinanza, il potere di espellere l’individuo.
Nelle sentenze da ultimo esaminate ricorre puntualmente l’accertamento di una motivazione del Ministero al diniego sintetica, ma congrua in relazione alla doverosa segretezza delle preventive indagini sui comportamenti del richiedente (o dei suoi familiari).
Una adeguata motivazione deve comunque pur sempre sussistere, non essendo sufficiente un diniego corredato da una mera motivazione di stile. Si è espresso giustamente in tal senso il Consiglio di Stato (Cons. St., sez. III, ord. 25.11.2019 n. 5420), riformando la precedente sentenza del Tar del Lazio che aveva approvato un siffatto atteggiamento elusivo del Ministero dell’interno il cui rifiuto era inoltre pervenuto a distanza di sette anni dalla relativa richiesta. Il Collegio ritiene insopprimibile la tempestività della tutela giurisdizionale garantita dall’art. 24 della Costituzione, di fronte al perdurante e non motivato diniego di soddisfacimento di pretese correlate a diritti fondamentali quali i diritti e doveri civili e politici esercitabili a seguito dell’acquisizione dello status civitatis in presenza delle necessarie condizioni di legge. È stato così disposto un provvedimento cautelare ai sensi del quale l’Amministrazione è obbligata a fornire, nel termine di trenta giorni, al suddetto Tribunale una documentata relazione attestante le ragioni del diniego.
Di un ulteriore obbligo di provvedere, sia pure di diverso contenuto, è stato gravato il Ministero dell’interno, unitamente alla prefettura territorialmente competente, a seguito del silenzio-inadempimento tenuto nei confronti di un’istanza per la concessione della cittadinanza italiana per un periodo superiore (di un mese) ai quattro anni previsti dall’art. 9-ter della l. 91/92 (Tar Lazio, Latina, sez. I, sent. 19.9.2019 n. 539). Si tratta di una norma introdotta anch’essa dal c.d. decreto sicurezza (d.l. 4.10.2018 n. 113, conv. con modif. dalla l. 1.12. 2018 n. 132) già citato, la quale è stata assai criticata soprattutto per l’innalzamento dei tempi previsti per il procedimento di acquisto della cittadinanza per matrimonio. La relativa applicazione ai procedimenti di naturalizzazione evita se non altro quei ritardi “biblici”, come quello di sette anni evidenziato nel ricorso deciso dal Cons. St., sez. III, ord. n. 5420/2019, sopra esaminata.
Il giudice amministrativo, applicando per la prima volta, a quanto consta, la suddetta norma, ha perciò ordinato al Ministero dell’interno e alla prefettura di Latina di esprimersi sull’istanza presentata entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza.
Risulta poi censurato anche il comportamento di un’altra prefettura, la quale aveva emesso un provvedimento di inammissibilità dell’istanza adducendo una «accertata falsità documentale», in quanto le certificazioni prodotte non erano state debitamente legalizzate. Non si era tenuto conto che le medesime erano state successivamente legalizzate e di nuovo prodotte in tempo utile; per di più il loro contenuto era identico, a dimostrazione della buona fede del richiedente. Inevitabile l’annullamento del provvedimento impugnato e la condanna alle spese (Tar Toscana, sez. II, sent. 30.9.2019 n. 1302).
Tornando ora al controllo dei requisiti necessari per l’attribuzione della cittadinanza per naturalizzazione, in particolare alla sufficienza del reddito, dopo aver ulteriormente confermato l’amplissima discrezionalità dell’Amministrazione che si traduce in un giudizio di opportunità, è stato altresì ribadito che in tale giudizio rientra anche l’accertamento della sufficienza del reddito (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 19.9.2019 n. 11114). Infatti lo straniero, una volta inserito nella collettività nazionale, viene ad essere assoggettato, tra gli altri, al dovere di solidarietà sociale di concorrere con i propri mezzi, attraverso il prelievo fiscale, a finanziare la spesa pubblica, funzionale all’erogazione dei servizi pubblici essenziali. Inoltre, a tale riguardo, nel silenzio della legge, l’Amministrazione ha ritenuto di fissare ex ante alcuni parametri minimi indefettibili di reddito, utilizzando come criterio di riferimento l’ammontare prescritto per l’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria con alcune integrazioni. Alla luce di questo requisito, l’insufficienza del reddito dichiarato può costituire di per sé causa di diniego di cittadinanza, anche nei confronti di un soggetto che risulti sotto ogni altro profilo bene integrato nella collettività, con una regolare situazione di vita familiare e di lavoro, e titolare di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
E neppure può assume rilievo il raggiungimento del criterio previsto successivamente alla presentazione della richiesta di cittadinanza (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 4.9.2019 n. 10733).
Viceversa, viene annullato il decreto ministeriale di rigetto della cittadinanza qualora non sia stato preso in considerazione il reddito complessivamente prodotto dall’intero nucleo familiare (nella specie, quello del marito) sulla base del parametro sopra citato e in particolare di una circolare del Ministero dell’interno del 5 febbraio 2007 (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 6.9.2019 n. 10791).
Da ultimo, è divenuto oggetto di ricorso anche il requisito relativo alla conoscenza della lingua italiana, secondo i criteri stabiliti dal nuovo art. 9.1 introdotto anch’esso dal c.d. decreto sicurezza, più volte qui ricordato. Pure in tale occasione è stato censurato l’atteggiamento sbrigativo del Ministero dell’interno, il quale aveva respinto la domanda del ricorrente adducendo la carenza di tale requisito; neppure era stata effettuata la preventiva comunicazione dei motivi ostativi ai sensi dell’art. 10-bis della l. 241/90 (Tar Veneto, sez. III, sent. 9.12.2019 n. 1324). Viceversa, l’interessato era in possesso di un permesso di soggiorno risalente, ma comunque più che adeguato alla prova della conoscenza della lingua italiana, superata appunto al fine di ottenere tale permesso.
Accertamento dell’apolidia.
Come è noto, le sentenze in materia di apolidia presuppongono complessi accertamenti sulla situazione giuridica non solo del richiedente, ma anche dei suoi familiari (quasi sempre, i genitori) nonché sulle leggi in materia di cittadinanza degli Stati (quasi sempre, dello Stato) con il quale l’interessato può aver avuto contatto. Per di più, tali accertamenti riguardano nella maggior parte dei casi individui appartenenti a famiglie originarie della ex Repubblica federale di Iugoslavia. Rientra in tale categoria una pronuncia attinente all’accertamento dello status di apolide nei confronti di un individuo affetto da grave disabilità, nato in Italia da genitori di origine bosniaca e qui ininterrottamente residente in uno stato di indigenza e all’interno di una famiglia numerosa (Trib. Roma, sent. 21.10.2019 n. 20182, in Banca dati De Jure). Forse a causa di tale disabilità egli non aveva mai chiesto la cittadinanza italiana ex art. 4 co. 2 della l. 91/92, ottenuta invece dalle sorelle in base appunto a tale norma. Al termine di un minuzioso riscontro circa il riconosciuto status di apolide del padre e l’incerto status della madre e di un altrettanto minuzioso accertamento della legge sulla cittadinanza della Bosnia Erzegovina, che portano ad escludere la relativa cittadinanza in capo all’attore, viene dichiarata l’apolidia del medesimo. Si noti che la pronuncia interviene dopo tre anni dalla presentazione dell’azione. Il tempo occorrente per l’ottenimento della cittadinanza italiana ex art. 9 co. 1 lett. a sarebbe stato probabilmente superiore; in ogni caso si tratta di uno straniero al quale la nostra cittadinanza difficilmente potrebbe essere negata.