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Fascicolo 3, Novembre 2020


Le frontiere? – ha affermato il grande viaggiatore norvegese Thor Heyerdhal – Esistono eccome.

Nei miei viaggi ne ho incontrate molte e stanno tutte nella mente degli uomini.

 

(Aime M., Eccessi di culture, Torino, Einaudi, 2004)

Penale

ll caso Vos Thalassa
La prima decisione che segnaliamo all’attenzione dei lettori è la sentenza di secondo grado nella vicenda nota sui media come «il caso Vos Thalassa», di cui conviene ora fare una rapidissima sintesi.
Il rimorchiatore Vos Thalassa, battente bandiera
 
italiana e adibito alle attività di supporto di una piattaforma petrolifera libica, comunica l’8 luglio 2018 alle competenti autorità italiane (MRCC: Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo) di avere soccorso più di 60 migranti presenti a bordo di un piccolo natante in legno in procinto di affondare; la comunicazione viene inoltrata dal MRCC alle autorità libiche, che non forniscono tuttavia alcuna risposta. In mancanza di attivazione da parte libica, il MRCC di Roma invita in un primo momento il comandante della Vos Thalassa a fare rotta verso Lampedusa. In seguito, tuttavia, il comandante chiama nuovamente le autorità italiane, riferendo di essere stato contattato dalla Guardia costiera libica (GCL), che gli ha ordinato di dirigere l’imbarcazione verso le coste africane, al fine di effettuare il trasbordo dei migranti su una motovedetta libica. La nave si dirige allora verso sud, in direzione del punto di incontro indicato dalle autorità libiche, ma dopo poche miglia la situazione si fa difficile. Uno dei migranti si accorge infatti che la nave ha cambiato rotta e si sta dirigendo verso le coste libiche, e tale circostanza fa sorgere uno stato di grande agitazione tra i migranti, che si rivolgono in modo minaccioso ai membri dell’equipaggio presenti sul ponte, chiedendo loro di fare rotta verso l’Italia e non riportarli in Libia. I due imputati, in particolare, si pongono a capo della protesta, e con contegni anche fisicamente aggressivi esprimono l’assoluta contrarietà di tutti i migranti presenti sulla nave al ritorno in Libia. Il comandante segnala la situazione di pericolo alle autorità italiane, chiedendo l’invio di un’unità militare che possa garantire la sicurezza dell’equipaggio; dopo momenti di grande tensione, l’MRCC si determina infine ad inviare sul posto un’unità navale della Guardia costiera, che prende a bordo i migranti e li porta in Italia.
La sentenza di primo grado, ritenuto che le condotte ascritte agli imputati fossero risultate provate in sede istruttoria, aveva affermato che esse integrassero gli estremi oggettivi e soggettivi dei reati contestati dall’accusa (agli imputati erano contestati i reati di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale, e del reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare: artt. 336 e 337 c.p. e art. 12 d.lgs. 286/98), ma aveva assolto gli imputati ritenendo ad essi applicabile la scriminante della legittima difesa, sul presupposto che essi avessero agito per tutelare il proprio diritto a non venire rinviati in un Paese, la Libia, ove sarebbero stati esposti al concreto pericolo di violenze e trattamenti inumani o degradanti (diritto di non refoulement, secondo la terminologia del diritto internazionale dei diritti umani). Vedi nota di Carol Ruggiero su questa Rivista, n. 1/2020.
La sentenza della Corte d’appello di Palermo 3.6.2020 - dep. 24.6.2020 è giunta ad esiti opposti, affermando la penale responsabilità di entrambi gli imputati per tutti i reati contestati. Accolta, in quanto sostanzialmente pacifica, la ricostruzione del fatto operata dal giudice di prime cure, il diverso esito del giudizio dipende dalla opposta ricostruzione circa il ricorrere nel caso di specie di tutti gli elementi costitutivi della legittima difesa, alla cui analisi è dedicata la gran parte della motivazione della sentenza d’appello.
Il primo elemento su cui la sentenza si sofferma è la sussistenza del requisito di un «diritto proprio o altrui», alla cui tutela la difesa deve essere indirizzata per poter rilevare ai sensi della norma di cui all’art. 52 c.p. La Corte d’appello rammenta anzitutto che «mentre il primo giudice ha ritenuto che il ricovero in un porto sicuro e vicino fonda un vero e proprio diritto della persona del migrante soccorso, il P.M. ha viceversa opinato nel senso che l’obbligo del non respingimento costituisce una regola di condotta imposta agli stati operanti e non anche un diritto della persona». La sentenza non condivide l’impostazione del P.M., che nega al non refoulement carattere di diritto della persona, in quanto «in linea di massima, se esiste un principio regolatore di condotta, peraltro formulato in una delicata materia quale quelle dei soccorsi in mare e del diritto di asilo, non può non corrispondere ad esso uno speculare diritto della persona ad avere assicurato rifugio in un porto sicuro». La sentenza però non prende neppure chiaramente posizione a sostegno della tesi del giudice di primo grado, che non aveva avuto incertezze nel riconoscere natura di diritto fondamentale al non refoulement, e sembra voler mantenere un profilo ambiguo sul punto. A proposito della tesi del P.M., infatti, la Corte conclude in modo tutt’altro che perentorio che «la prospettiva in senso dicotomico tra diritto (del migrante) e principio regolatore (per lo Stato che soccorre) appare eccessivamente rigida e probabilmente mal posta». Quanto poi alla tesi della sentenza di primo grado, la Corte mostra dubbi quanto alla sua effettiva fondatezza, ma decide «per ragioni di economia processuale» di non prendere posizione sul punto, ipotizzando come fondata la tesi del primo grado (le considerazioni del GUP sul punto vengono peraltro definite in modo non proprio adesivo «articolate e dottrinali discettazioni»), semplicemente perché, anche accogliendo la prospettazione come del non refoulement come vero e proprio diritto soggettivo, sussisterebbero ragioni che impediscono comunque il riconoscimento della legittima difesa. Si legge infatti nella sentenza: «Semmai, occorrerebbe verificare se le articolate e dottrinali discettazioni esposte dal giudice di primo grado a sostegno della tesi di un diritto al ricovero immediatamente tutelabile da parte del migrante soccorso in mare, siano corrette sotto il profilo esegetico o meno. Ma, per ragioni di economia processuale, ritenendosi comunque assorbente il difetto dei presupposti applicativi della legittima difesa, ci si limiterà ad affrontare tale aspetto; e, dunque, operando una sorta di prova di resistenza, accedendo in via incidentale alle valutazioni operate dal GUP in ordine alla esistenza di un diritto soggettivo del migrante al ricovero».
L’elemento stimato decisivo dalla Corte d’appello per negare l’applicabilità dell’art. 52 c.p. è quello della non volontaria causazione da parte dell’agente del pericolo rispetto cui si orienta la condotta difensiva. I giudici palermitani ricordano (senza peraltro citare alcun precedente specifico) il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità per cui «la determinazione volontaria dello stato di pericolo esclude la configurabilità della legittima difesa non per la mancanza del requisito dell’ingiustizia dell’offesa, ma per difetto del requisito della necessità della difesa». Nel caso di specie, tale requisito risulta insussistente: è il passaggio centrale della motivazione, e vale la pena leggerlo testualmente:
«Nessun dubbio può serbarsi sul fatto che i migranti si siano posti in stato di pericolo volontariamente, sia avendo pianificato una traversata in condizioni di estremo pericolo, sia avendo poi chiesto i soccorsi al fine di essere recuperati da natanti di salvataggio (…) Venne dunque posta in essere una condotta da parte dell’organizzazione criminale che organizzò il viaggio, pienamente accettata dai migranti, per cui venne creata artificiosamente una situazione di necessità (la partenza su un barcone in legno stipato di persone e chiaramente inadatto alla traversata del Canale di Sicilia) atta a stimolare un intervento di supporto, che conducesse all’approdo dei clandestini ed al perseguimento del fine dell’organizzazione criminale; e, dunque, ad assicurare lo sbarco dei migranti in suolo italiano. In sostanza, l’azione di salvataggio cui procedette in prima battuta l’equipaggio del rimorchiatore Vos Thalassa, non può essere considerata isolatamente rispetto alla condotta pregressa, che volutamente ha creato lo stato di necessità, proprio perché si tratta di una condizione di pericolo intenzionalmente causata dai trafficanti e dai migranti, che si ricollega alla ragionevole speranza che questi ultimi fossero condotti sulle coste europee, sotto la protezione dell’azione di salvataggio».
Le conclusioni della Corte sono perentorie: non si configura la legittima difesa, in quanto le condotte violente contestate ai due imputati «non sono state poste in essere per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo di un’offesa ingiusta, bensì come atto finale di una condotta delittuosa, studiata in anticipo e che correva il rischio (per i migranti) di non essere portata a termine a causa dall’adempimento da parte della Vos Thalassa di un ordine impartito da uno Stato sovrano che aveva la competenza sulla zona SAR ove vennero messi in atto i soccorsi».
A conforto della conclusione così raggiunta, la Corte chiama in causa ragioni di «ragionevolezza dell’ordinamento giuridico», arrivando addirittura a definire «in qualche modo criminogena» l’interpretazione della legittima difesa fornita da parte del GUP. «D’altra parte, sarebbe davvero in contrasto con i principi di ragionevolezza dell’ordine giuridico e persino in qualche modo criminogena, una interpretazione dei principi regolatori della causa di giustificazione della legittima difesa, applicata al diritto del mare, che consentisse ai migranti di azione sempre e comunque comportamenti obiettivamente illeciti nei confronti di equipaggi marittimi che non assecondassero la loro volontà di raggiungere le coste europee, peraltro in situazioni di pericolo intenzionalmente causate; o la cui causazione sia da loro volontariamente accettata».
Esaurita la parte in diritto, la Corte ritorna sugli elementi probatori da cui emergerebbe la particolare gravità della condotta contestata ai due imputati, che impedisce anche il riconoscimento delle circostante attenuanti generiche, e giustifica le pesanti pene inflitte (scontata la diminuzione per il rito abbreviato, la condanna è per ciascun imputato alla pena della reclusione per 3 anni e 6 mesi e 52.000 euro di multa).
 
Sui fatti accaduti nel campo di Zawia (Libia)
Accanto ad una sentenza, come quella appena analizzata, che mette in discussione la gravità della situazione in Libia, dichiarando illegittima la reazione dei migranti che si erano opposti al loro rimpatrio verso tale Paese, merita di essere segnalata una decisione che invece attesta ancora una volta le atrocità che vengono perpetrate ai danni dei migranti nei campi libici. Con la sentenza 28.5.2020, dep. 25.8.2020, il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Messina ha condannato a venti anni di reclusione tre carcerieri – di 23, 27 e 25 anni – per il reato di associazione per delinquere (art. 416 co. 2, 5 e 6) e, in concorso tra loro ex art. 110 c.p., per i reati di tortura (art. 613-bis) e sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.) posti in essere nei confronti dei migranti rinchiusi in Libia nel campo di Zawia, città della Tripolitania a 50 chilometri dalla capitale.
La vicenda trae origine dalle indagini svolte dalla Procura di Agrigento dopo che il 5 e il 7 luglio 2019 erano sbarcate a Lampedusa cinquantanove persone in precedenza soccorse nella zona SAR italiana dalla barca a vela Alex & co. di Mediterranea Saving Humans. Nell’ambito delle attività investigative miranti ad individuare tra i migranti soccorsi gli eventuali “scafisti”, molti dei soggetti sentiti riferiscono le drammatiche condizioni di detenzione nel campo di Zawiya, ove i migranti venivano trattenuti in attesa della partenza alla volta dell’Italia. La sentenza riporta in particolare le dichiarazioni di sei persone: tre uomini camerunensi, un uomo del Ghana e una coppia (di cui non viene specificata la nazionalità). I loro racconti sono concordi nel descrivere le atroci violenze cui sono stati sottoposti durante la loro detenzione in Libia, e nell’individuare i tre imputati (riconosciuti tra le foto di coloro che erano sbarcati a Lampedusa nei giorni immediatamente precedenti e successivi) come i loro torturatori, assieme a molti altri con cui gli stessi collaboravano.
Dopo la nota vicenda milanese nota come caso Mattamud, con la condanna all’ergastolo in primo e secondo grado di un cittadino somalo riconosciuto autore di violenze e omicidi nel campo libico di Bani Walid (cfr. la nota alla sentenza di secondo grado di G. Mentasti su questa Rivista, n. 1/2020), la sentenza qui annotata rappresenta un altro, importante tassello nella ricostruzione in sede giudiziaria della disperata situazione in cui si trovano i migranti nei campi di detenzione libici. Terrore e violenze di ogni tipo sono all’ordine del giorno in tali strutture, ma ciò sinora non è ancora stato sufficiente perché la comunità internazionale decida finalmente di impegnarsi a mettervi fine.
 
Il delitto di illecito reingresso
Meritano infine un cenno tre interessanti sentenze relative al delitto di illecito reingresso nel territorio dello Stato di cui all’art. 13, co. 13 TUI.
Nella prima, del Tribunale di Novara del 4.9.2020 , vengono precisati gli elementi da tenere in considerazione ai fini del riconoscimento della clausola della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p.
 
La seconda decisione è dei Giudici di legittimità (Cass., sez. I, n. 12301/2020), e riguarda la questione della configurabilità del reato quando lo straniero sia rientrato in Italia trascorsi più di 5 anni dal rimpatrio. Come noto, la Cassazione, nelle ipotesi di espulsione adottata in via amministrativa ha in più occasioni affermato che in ossequio alle disposizioni della direttiva 2008/115/CE (cd. direttiva rimpatri) va osservato il limite di durata del divieto di reingresso, determinato in via ordinaria in 5 anni, con conseguente insussistenza del reato di cui all’art. 13, co. 13 TUI quando la condotta di reingresso sia avvenuta in epoca posteriore a tale limite massimo. Nel caso di specie, il reingresso era avvenuto dopo più di 5 anni dal rimpatrio, ma la Corte d’appello aveva comunque condannato l’imputato, ritenendo sussistente la speciale ipotesi derogatoria contenuta nell’art. 11 della direttiva rimpatri, che facoltizza lo Stato membro a prevedere una maggior durata del divieto «se il cittadino di un Paese terzo costituisce una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale». La Cassazione non condivide tale ragionamento, in quanto «la previsione derogatoria di cui all’art. 11, co. 2 della direttiva 2008/115/CE implica, già in sede di adozione del provvedimento di espulsione, una concreta ed accurata verifica della condizione di fatto che legittima una più ampia durata del divieto, tale da integrare una condizione soggettiva che non può rapportarsi ad una ordinaria “pericolosità sociale” ma deve raggiungere una consistente gravità, sì da rappresentare, la permanenza del soggetto nello Stato membro, una “grave minaccia” a beni giuridici di particolare rango e aventi una dimensione generale». A tal fine, «non appare sufficiente la semplice iscrizione (o iscrivibilità) dello straniero in una delle ipotesi di pericolosità tipica previste dalla legge in tema di misure di prevenzione, dovendosi operare ulteriore valutazione del particolare livello di potenziale pericolosità del soggetto in riferimento ai beni protetti. Ciò posto, nel caso in esame tale condizione di “aggravata pericolosità” è ictu oculi insussistente, attesa la modesta valenza del precedente per cessione di sostanze stupefacenti (data l’entità della pena inflitta) e la mera pendenza di un ulteriore procedimento per fatto analogo». Sulla base di tali argomenti, la sentenza di condanna della Corte d’appello viene annullata senza rinvio.
 
L’ultima decisione qui segnalata, sempre di legittimità (Cass., sez. I, n. 23705/2020), riguarda un’ipotesi di violazione del divieto di reingresso conseguente ad espulsione disposta dal Tribunale di sorveglianza a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione ex art. 16 TU. Due sono in particolare gli aspetti che meritano di essere sottolineati. Nel provvedimento di espulsione mancava la determinazione della durata del divieto di reingresso: la Cassazione ritiene che, trattandosi di espulsione come misura sostitutiva di un reato diverso da quelli di cui agli artt. 10-bis o 14 co. 5-ter e quater (per cui il divieto ha durata compresa tra 3 e 5 anni), la durata del divieto deve ritenersi compresa tra 5 e 10 anni, e non è dunque censurabile la decisione di merito che aveva fissato in 10 anni il termine per il reingresso. La Corte non reputa poi accoglibile l’argomento difensivo per cui la mancata indicazione del termine impedisse all’imputato di venire a conoscenza dell’estensione temporale del divieto, posto che lo stesso era già stato in passato destinatario di altri provvedimenti espulsivi, ed aveva in più occasioni fatto rientro anticipato in Italia in violazione del termine di legge.

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