Tra i provvedimenti adottati nel secondo quadrimestre dell’anno in corso (maggio-agosto 2020), sia pure con qualche eccezione per quelli emessi nel precedente mese di aprile, si segnalano, sotto un profilo negativo, un parere invero singolare (e ampiamente censurabile) del Consiglio di Stato in tema di acquisto della cittadinanza per matrimonio;
sotto un profilo decisamente positivo, due decisioni del Tar Lazio, dirette ad escludere l'incidenza di alcuni specifici requisiti, prescritti ai fini dell'acquisto della cittadinanza per naturalizzazione, a favore dei soggetti disabili e dei titolari di protezione sussidiaria. Ad esse si aggiunge una sentenza di legittimità relativa alla prestazione del giuramento di fedeltà alla Repubblica purché sia mantenuta l'originaria residenza in Italia. Non mancano ulteriori pronunce sul riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avi paterni, anche in riferimento agli Stati preunitari, nonché relative all'accertamento dell'apolidia.
Nell’ambito di queste ultime, si segnala una decisione che, nel dichiarare l’apolidia della madre, ne constata simultaneamente la cittadinanza della figlia, nata in Italia da padre ignoto.
Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano. a) Cittadini emigrati in Brasile e destinatari dei provvedimenti di naturalizzazione collettiva emessi dall’autorità di quello Stato alla fine del 1800. Facoltà di rinuncia a tale cittadinanza ai fini del mantenimento della cittadinanza originaria. Suo mancato esercizio. Effetti. Art. 11 cod. civ. 1865 e art. 8 l. 13.6.1912. Conservazione dello status civitatis italiano. Accertamento giurisdizionale della cittadinanza per ritardo nell’attività delle autorità consolari. b) Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da cittadina italiana maritata a uno straniero con conseguente perdita della cittadinanza italiana per matrimonio. Incidenza delle sentenze costituzionali e di legittimità sull’accertamento della mancata perdita e sulla trasmissibilità dello status originario ai figli. c) Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da capostipite suddito del Regno di Sardegna. Successione del Regno d’Italia e corrispondenti effetti in materia di attribuzione della cittadinanza italiana. Irrilevanza della situazione di emigrato all’estero. Successiva trasmissione della cittadinanza a figlia maritata a uno straniero con conseguente perdita della cittadinanza italiana per matrimonio. Incidenza delle sentenze costituzionali e di legittimità sull’accertamento della mancata perdita e sulla trasmissibilità dello status originario ai figli
Successivamente ad un provvedimento già segnalato su questo tema (Trib. Roma, ord. 25.2.2020, in questa Rassegna, fasc. 2/2020), il Tribunale di Roma ha avuto modo di tornare ancora sugli effetti, in capo agli avi di cittadini italiani emigrati alla fine dell’Ottocento in Brasile, di due provvedimenti di naturalizzazione “forzata” (e spesso inconsapevole da parte dei destinatari) emessi dal Governo locale. In una prima pronuncia (Trib. Roma, ord. 23.4.2020, in Banca dati DeJure), per molti aspetti simile a quella sopra citata ma che è opportuno qui recuperare, i giudici contestano anzitutto al Ministero resistente, che si opponeva al riconoscimento della cittadinanza italiana ai discendenti di un cittadino emigrato, l’applicabilità dell’art. 3 del d.p.r. 18 aprile 1994 n. 362, il quale sanciva il termine di 730 giorni quale termine per la definizione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza per matrimonio o per naturalizzazione, elevato poi a quattro anni ad opera del nuovo art. 9-ter della legge sulla cittadinanza. Senza soffermarsi sul diverso ambito di applicazione rispetto alla fattispecie di (semplice) riconoscimento qui in esame, il Tribunale esclude la configurabilità di tale termine come condizione di procedibilità, proponibilità o ammissibilità della domanda dei ricorrenti, a causa dell’assenza di una previsione legislativa in tal senso e alla luce del diritto di agire sancito dall’art. 24 Cost.
Nel merito vengono sostanzialmente riprese le considerazioni svolte nell’ordinanza di febbraio sopra ricordata, in riferimento al carattere coercitivo della concessione della cittadinanza brasiliana e alla giustificabile mancanza di consapevolezza, da parte degli interessati, della relativa facoltà di rinuncia entro sei mesi dall’entrata in vigore del primo decreto del 1889. Da qui scaturisce la conclusione circa la conservazione dello status civitatis italiano originario. A sostegno di questa interpretazione viene richiamata la risalente sentenza della Corte di cassazione di Napoli 5 ottobre 1907. Viene così ancora una volta esclusa l’applicabilità dell’art. 8 della legge (peraltro successiva) n. 555/1912 che, in mancanza di espressa rinuncia allo status civitatis straniero “imposto dall’alto”, prevedeva la perdita della cittadinanza italiana. Meno convincente appare il richiamo all’art. 11 cod. civ. 1865, di diverso contenuto, spesso confuso con l’art. 11 disp. prel. al medesimo codice.
In ogni caso, i ricorrenti avevano esibito un certificato di mancata naturalizzazione dell’avo redatto dal Governo brasiliano, il quale non era stato contestato dal Ministero dell’interno. Di fronte all’ipotesi circa la mancanza di interesse ad agire davanti al giudice italiano, il Tribunale giustamente oppone la constatazione dell’ormai ben noto endemico ritardo nell’evasione di tali pratiche da parte del Consolato italiano di Curitiba e alla evidente esigenza di dichiarare con effetto immediato il possesso della cittadinanza italiana in capo agli attori.
Di contenuto sostanzialmente analogo, ma con una motivazione più succinta (e un più corretto richiamo all’art. 11 cod. civ. 1865) risulta una successiva decisione del medesimo Tribunale (Trib. Roma, ord. 25.5.2020, in Banca dati DeJure).
Va poi menzionata una ulteriore pronuncia (Trib. Roma, ord.1.9.2020 n. 11818, in Banca dati DeJure), la quale – sempre in tema di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis – riprende le consuete motivazioni circa il diritto a tale riconoscimento per i discendenti da cittadine italiane le quali avevano perduto il loro status civitatis originario a causa dell’automatico acquisto di una cittadinanza straniera per matrimonio. Facendo leva sugli altrettanto consueti richiami alle due sentenze costituzionali n. 87/1975 e n. 30/1983 e a quella delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 4466/2009 viene riconosciuta anche la c.d. trasmissibilità di tale status originario ai figli.
Infine, ancora più risalente, rispetto alla pronuncia esaminata per prima, appare la sequenza nella trasmissione della cittadinanza, quale risultava in un ulteriore caso deciso anch’esso dal medesimo Tribunale (Trib. Roma, ord. 10.6.2020 n. 8352, in Banca dati DeJure): il capostipite, anch’egli emigrato all’estero, era infatti suddito del regno di Sardegna per nascita ai sensi dell’art. 19 dello Statuto albertino. Pertanto, alla luce della successione del Regno d’Italia al Regno di Sardegna e in base all’art. 4 cod. civ. del 1865 e in seguito all’art. 1 della l. 555/1912, nemmeno i quali prevedevano la perdita delle rispettive cittadinanze per i cittadini emigrati all’estero, si è giunti alla trasmissione della cittadinanza ad una figlia che aveva perso la cittadinanza italiana a causa dell’acquisto automatico di quella del marito. Le due sentenze costituzionali e la sentenza della Corte di cassazione citate a proposito della decisione precedentemente analizzata hanno prodotto anche in questo caso l’annullamento di tale perdita e i conseguenti effetti a favore della cittadinanza dei figli. Del resto, analoghe fattispecie erano già state esaminate in passato dal medesimo Tribunale: cfr. ad esempio Trib. Roma, sent. 13.4.2017, in questa Rassegna, fasc. 2/2017.
Acquisto della cittadinanza per matrimonio. a) Rigetto della domanda da parte del prefetto per pretesa sussistenza di comprovati motivi attinenti alla sicurezza della Repubblica. Precedenti penali a carico del marito della richiedente. Competenza esclusiva del Ministero dell’interno per la valutazione dei suddetti motivi. Mancato parere conforme del Consiglio di Stato. Vizio di incompetenza del provvedimento prefettizio. b) Acquisto della cittadinanza da parte di cittadino straniero residente all’estero. Rifiuto dell’Ambasciata italiana di consegnare il provvedimento ministeriale di attribuzione e di procedere al giuramento a causa del divorzio dei coniugi intervenuto nel frattempo. Riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario in tema di acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio. Competenza del giudice ordinario sul conseguente ricorso della richiedente. c) Acquisto della cittadinanza da parte di cittadino straniero residente all’estero. Richiesta da parte dell’Ambasciata italiana di un certificato penale redatto dall’autorità straniera. Mancata esibizione. Rigetto della domanda. Ampiezza della valutazione discrezionale della P.A. nell’ambito del suddetto procedimento di acquisto
Riguardo al peculiare modo di acquisto della cittadinanza per matrimonio spiccano tre provvedimenti dei giudici amministrativi che affrontano talvolta questioni piuttosto inconsuete.
Costituisce anzitutto l’oggetto di un orientamento consolidato (cfr. la precedente Rassegna, nel fasc. 2/2020) la decisione relativa al ricorso presentato da una cittadina straniera nei confronti della quale il prefetto aveva comunicato di respingere la relativa domanda a causa di pregresse condanne penali del marito, ai sensi dell’art. 6, co. 1, lett. c): dunque, alla luce di (pretesi) comprovati motivi attinenti alla sicurezza della Repubblica. In una puntuale pronuncia (Tar Puglia, sez. II, sent. 5.5.2020 n. 507), i giudici muovono anzitutto dall’affermazione della loro competenza secondo i consueti canoni del riparto di giurisdizione in questa materia, trattandosi appunto di vagliare un’impugnazione attinente a una situazione che ha consistenza di interesse legittimo. Nel merito, nessuna indagine viene svolta circa una sorta di contiguità della moglie con le attività criminose del marito. Assume rilievo assorbente il richiamo all’art. 8 della legge sulla cittadinanza, il quale, oltre a indicare come competente al rigetto dell’istanza per i suddetti motivi il Ministro dell’interno, esige in tal caso il parere conforme del Consiglio di Stato, del tutto assente nella fattispecie sottoposta al vaglio dei giudici. Viene altresì opportunamente richiamata la direttiva del medesimo Ministero 7 marzo 2012, con la quale è stato delegato ai prefetti territorialmente competenti il potere di respingere l’istanza limitatamente alla sussistenza delle condanne penali di cui alle lett. a) e b) del citato art. 6 della l. 91/1992; ed espressamente esclusa una simile delega nell’ipotesi qui in esame. Da qui l’annullamento dell’atto prefettizio.
Non così consueto risulta invece il caso giunto alla decisione del Consiglio di Stato (Cons. St., sez. III, sent. 22.7.2020 n. 4677), il quale traeva origine dalla richiesta – e il conseguente provvedimento di acquisto – della cittadinanza italiana da parte di una cittadina straniera residente all’estero. Tuttavia, era sopraggiunto il rifiuto, da parte dell’Ambasciata italiana territorialmente competente, di consegnare all’interessata il provvedimento ministeriale di attribuzione del nuovo status civitatis e di procedere al giuramento, avendo constatato che i due coniugi avevano nel frattempo divorziato.
Sulla base di motivazioni ineccepibili e più volte ribadite in tema di riparto della giurisdizione, i giudici di Palazzo Spada respingono l’appello dell’interessata contro la sentenza del Tar che aveva declinato la propria competenza in materia. In effetti, viene confermato, in omaggio ad un orientamento consolidato della Sezione, che l’unica causa preclusiva demandata alla valutazione discrezionale della Pubblica Amministrazione è quella contemplata dall’art. 6 co. 1, lett. c) della l. 5.2.1992 n. 91, ossia i «comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica». Soltanto in tale evenienza, la situazione di diritto soggettivo, quale scaturisce dalle diverse cause previste dalle lett. a) e b) del medesimo articolo, risulta affievolita ad interesse legittimo, con conseguente radicamento della giurisdizione in capo al giudice amministrativo.
Infine, ad una fattispecie in parte analoga alle precedenti si riferisce il Consiglio di Stato, chiamato in questa occasione a rendere un parere in materia (Cons. St., sez. I, parere 5.8.2020 n. 1387). Il Console generale d’Italia a Londra aveva notificato infatti ad una cittadina straniera ivi residente un proprio decreto di diniego della “concessione” della cittadinanza italiana per matrimonio, fondato sulla mancata esibizione, da parte di quest’ultima, di un certificato britannico sull’assenza di condanne penali che le era stato espressamente richiesto.
Nel suddetto parere (oggetto di un futuro e più approfondito commento) viene anzitutto – curiosamente – respinta l’eccezione di inammissibilità per difetto di giurisdizione formulata dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione nella scia di quei criteri di riparto di giurisdizione più volte ricordati. Ed ancor più curiosamente, anche rispetto agli orientamenti altrettanto spesso qui evidenziati del medesimo Consiglio di Stato, si insiste pervicacemente su un preteso carattere oltremodo discrezionale della valutazione dei motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica.
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione. a) Rigetto a causa di precedenti penali e della loro omessa dichiarazione. b) Rigetto a causa di contiguità a movimenti pericolosi per la sicurezza nazionale. c) Apprezzamento di opportunità sullo stabile inserimento del soggetto nella comunità nazionale, anche sotto il profilo indiziario. d) Criterio relativo all’adeguatezza del reddito. Parametri di valutazione. Situazione di disabilità. Necessità di parametri differenti e di una compiuta indagine su altri elementi di valutazione. e) Dispensa dall’esibizione dei certificati da ottenere, ai fini dell’istanza di concessione della cittadinanza, dalle autorità del proprio Stato di origine. Parificazione del titolare di protezione sussidiaria al rifugiato. f) Decreto di conferimento della cittadinanza. Necessaria prestazione del giuramento di fedeltà alla Repubblica. Individuo detenuto in carcere cui è stato revocato il permesso di soggiorno. Mancanza della residenza legale in Italia. Rifiuto dell’ufficiale di stato civile di raccogliere il giuramento
La giurisprudenza, in prevalenza amministrativa, cui spetta di vagliare la fondatezza dei provvedimenti di rifiuto di concessione della cittadinanza italiana nell’ambito dei procedimenti di naturalizzazione ex art. 9, co. 1, lett. f della l. 91/1992 mostra in tale settore la conferma di orientamenti ben saldi.
In effetti, in una serie di pronunce a tale riguardo il giudice amministrativo ha respinto i relativi ricorsi approvando il suddetto rifiuto motivato dalla esistenza di una condanna penale e dall’omessa dichiarazione di questa da parte dell’istante (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 5.5.2020 n. 4701) così come, pur in assenza di condanne penali, dalla contiguità a movimenti che mettono in pericolo la sicurezza nazionale emersa dall’attività informativa, cui si aggiunge la mancata collaborazione dell’istante medesimo a fornire elementi volti a confutare tale valutazione, pur a seguito di richiesta da parte della Pubblica Amministrazione (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 1.7.2020 n. 7546). Viene altresì ribadita la legittimità dell’apprezzamento di opportunità spettante al Ministero dell’interno circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, sulla base di un complesso di circostanze, atte a dimostrare l’integrazione del soggetto interessato nel tessuto sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 5.5.2020 n. 4701 è già linkata nella pagina precedente); del resto, occorre anche valutare preventivamente le prospettive di ottimale inserimento del soggetto interessato anche sotto il profilo indiziario, poiché la residenza nel territorio per il periodo minimo di dieci anni è solo (ovviamente) un presupposto per proporre la domanda per il riconoscimento della cittadinanza italiana (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 25.6.2020 n. 7129).
Inoltre, sono state più volte qui riportate decisioni nelle quali l’adeguatezza del reddito in base a parametri prefissati costituiva oggetto di esame sotto diversi profili. Ad un profilo inusuale è stata invece rivolta di recente l’attenzione dei giudici amministrativi (Tar Lazio, sez. I-ter, sent. 7.7.2020 n. 7846). Si trattava infatti di valutare la congruità e dunque l’applicabilità dei parametri suddetti nei confronti di un soggetto disabile, le cui gravi patologie ne avevano comportato l’interdizione, il riconoscimento dell’invalidità permanente totale e l’inabilità lavorativa, con necessità di assistenza continua. A causa di tali infermità, il cittadino straniero percepiva una indennità di accompagnamento, ovviamente inferiore ai parametri di cui sopra, che gli aveva precluso la concessione della cittadinanza italiana.
Il Tribunale censura tale rifiuto sulla base di molteplici motivi. Anzitutto, quello del carattere “convenzionale” dei parametri suddetti come adottati dall’Amministrazione. Rilevano poi in modo particolare i richiami agli artt. 2 e 3 co. 2, in riferimento agli artt. 38 e 53, della Costituzione ed alla correlata sentenza costituzionale 7.12.2017 n. 258 in materia di protezione dall’invalidità, anche nella scia della (celebre) precedente sentenza n. 120/1967 (sull’estensione del principio di eguaglianza agli stranieri). Da tutto ciò consegue la suddetta censura all’atteggiamento del Ministero, il quale mostra da un lato di aver applicato in modo automatico il parametro reddituale, dall’altro di non aver tenuto conto di una serie di altri elementi, quali la sussistenza di ulteriori redditi, la fornitura di vitto e alloggio da parte della comunità di affidamento, l’integrazione del ricorrente nella realtà sociale di riferimento, l’assenza di condanne, e così via. Tali elementi dovranno essere considerati nella successiva indagine per la concessione della cittadinanza.
Dal canto suo, anche l’autorità giudiziaria ordinaria ha riconosciuto l’esigenza di una lettura più aperta delle norme che sottendono i molteplici requisiti necessari per l’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione: tra questi, l’esibizione dell’estratto dell’atto di nascita e quello relativo all’assenza di procedimenti penali, come prevede l’art. 1 del d.p.r. 362/1994, evidentemente da richiedersi alle autorità dello Stato di origine. Di fronte al concreto pericolo di trattamenti sanzionatori da parte di queste ultime il Ministero dell’interno ha previsto la dispensa da tale esibizione e la sostituzione con atti di notorietà a favore degli stranieri riconosciuti dal Governo come rifugiati politici (circolare n. K.60.1 del 23.12.1994).
Al termine di una dettagliata pronuncia, nella quale è stata evocata la disciplina in tema di immigrazione con specifico riferimento agli atti di persecuzione subiti o suscettibili di essere subiti dallo straniero immigrato nonché l’art. 3 della CEDU sul divieto di torture o pene o trattamenti inumani o degradanti, i giudici catanesi (Trib. Catania, ord. 28.4.2020, in Banca dati DeJure) hanno esteso la suddetta dispensa a un cittadino eritreo titolare di protezione sussidiaria. È stato comunque chiarito che – a differenza di quanto disposto per i rifugiati – la concreta situazione di pericolo cui l’individuo è esposto nel contatto con le autorità del Paese di origine deve costituire oggetto di specifica allegazione e dimostrazione per il soggetto al quale è stata riconosciuta la protezione sussidiaria, stante la differenza dei presupposti tra i due istituti.
Merita infine di essere segnalata una pronuncia del Supremo Collegio in tema di giuramento di fedeltà alla Repubblica, di cui all’art. 10 della l. 91/1992 (Cass., sez. I, sent. 7.9.2020). La controversia sottoposta all’esame del Collegio traeva origine da un ricorso contro il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di ricevere tale giuramento in mancanza del requisito della residenza legale in Italia. In effetti, l’individuo in causa aveva ottenuto il decreto di conferimento della cittadinanza italiana mentre era detenuto in un carcere italiano; la relativa condanna era stata accompagnata dalla revoca del permesso di soggiorno e dalla conseguente privazione del requisito della residenza legale. Da tale carenza era derivato, da parte dell’ufficiale di stato civile territorialmente competente, il rifiuto di ricevere la prestazione del giuramento; tale rifiuto veniva successivamente condiviso sia dal Tribunale sia dalla Corte di Appello competenti.
Anche la Suprema Corte dichiara non fondata l’impugnazione del provvedimento adottato da quest’ultima. Dopo aver premesso che il procedimento di naturalizzazione ha natura complessa a formazione progressiva ed è caratterizzato da una scansione in più fasi distinte, l’ultima delle quali concerne appunto il giuramento, la Corte evoca sia gli artt. 10 e 15 della legge sulla cittadinanza sia l’art. 4, co. 7 del d.p.r. 572/1993 sia infine l’art. 7 del regolamento dello stato civile (d.p.r. 396/2000) rilevando come dal dettato d’insieme di queste norme si ricavi che il decreto di conferimento della cittadinanza acquista efficacia, ex nunc, solo con la prestazione del giuramento. Questa affermazione si salda poi con il necessario permanere del requisito relativo alla residenza legale, prescritto dall’art. 4, co. 7 citato, dato che si tratta di una disposizione esplicativa dei due articoli della l. 91/1992. D’altro canto, il controllo sulla residenza dell’interessato, esercitato dall’ufficiale dello stato civile, consiste in un’attività vincolata e specifica, pur se produttiva di effetti giuridici riguardo allo status della persona. Tale controllo investe il mero riscontro oggettivo della corrispondenza tra la situazione giuridica del naturalizzando esistente alla data del giuramento e quella accertata nel decreto di naturalizzazione. La Corte conclude severamente ritenendo che nessun effetto può essere attribuito, nel caso di specie, alla successiva concessione di un permesso di soggiorno per motivi familiari, in quanto sopraggiunto in epoca posteriore al periodo di sei mesi, previsto per la prestazione del giuramento.
Accertamento dell’apolidia
Permane incessante il flusso delle richieste di accertamento in via giudiziaria dello status di apolide. Le motivazioni alla base dell’accoglimento di tali richieste all’autorità giudiziaria ordinaria, in necessario contraddittorio con il Ministero dell’interno, sono sostanzialmente analoghe, in quanto fondate sulla preliminare verifica della propria competenza (ovvero, della rispettiva Sezione specializzata) ai sensi dell’art. 19-bis del d.lgs. 150/2011 e dell’art. 3, co. 2 del d.l. 13/2017, conv. nella l. 46/2017, sul richiamo di tale procedimento in alternativa a quello previsto in via amministrativa dall’art. 17 del d.p.r. 12.10.1993, n. 572, e sull’applicabilità della Convenzione sullo statuto degli apolidi del 28.9.1954, in particolare dell’art. 1.
Le differenze muovono dall’esame della situazione specifica del singolo istante che postula sia una analisi delle allegazioni da lui fornite sia una ricognizione delle norme sulla cittadinanza degli Stati con i quali egli è entrato in contatto al fine di escludere l’acquisizione del rispettivo status civitatis. Nel periodo qui considerato il suddetto esame risulta prevalentemente effettuato nei confronti di individui provenienti da Paesi africani.
In particolare, è stato considerato il caso di un individuo proveniente originariamente dal Sudan, orfano di padre sconosciuto, dunque nell’impossibilità di ottenere la relativa cittadinanza e con una pregressa “vita errabonda” all’interno del continente africano (
Trib. Brescia, ord. 9.5.2020)
. La relativa indagine ha comportato la restrizione al Ghana e al Sudan del numero dei Paesi suscettibili di aver attribuito la cittadinanza all’attore, ma si è conclusa con esito negativo. Da segnalare, oltre all’ampia citazione di un leading case in materia, ovvero della sentenza della Corte di cassazione 24.11.2017 n. 28153 (esaminata in questa Rassegna, fasc. 2/2018), la presa di posizione del Tribunale sulla irrilevanza dei comportamenti, anche penalmente rilevanti, ai fini dell’accertamento dell’apolidia.
Nel medesimo solco si inscrivono altri due provvedimenti di contenuto analogo. Nel primo (
Trib. Torino, ord. 4.6.2020
) sono stati identificati quali “Stati di prossimità” ovvero “di collegamento” la Costa d’Avorio e il Mali giungendo ad escludere, al termine dell’esame delle relative norme, il possesso delle rispettive cittadinanze. Nel secondo (
Trib. Firenze, ord. 22.7.2020)
si è arrivati al medesimo esito nei confronti di Giordania e Iraq.
Maggiormente frastagliato e in parte diverso si presentava il caso sottoposto al giudice emiliano competente (
Trib. Bologna, ord. 13.9.2020
). Si trattava infatti di un ex cittadino eritreo, il quale era stato costretto a rinunciare a tale cittadinanza al fine di ottenere il congedo dal servizio militare, in quanto esso si rivelava nei fatti a tempo indefinito. Ne è seguita una verifica sulla impossibilità di riacquistare tale status secondo la legge eritrea e sulla mancanza di cittadinanza italiana, in quanto destinatario di norme o di provvedimenti ministeriali di contenuto egualmente negativo al riguardo.
Sicuramente innovativa risulta infine una ulteriore decisione del giudice di Brescia nella quale all’accertamento dell’apolidia della madre consegue il riconoscimento della cittadinanza italiana a favore della figlia, nata in Italia (
Trib. Brescia, ord. 15.7.2020
). In particolare, il caso riguardava una donna di origini kosovare, nata anch’essa in Italia nel 1997, la quale non aveva esercitato, in quanto inconsapevole di tale facoltà, l’opzione a favore dell’acquisto della cittadinanza italiana al raggiungimento della maggiore età ex art. 4, co. 2 della l. 91/1992. Questo dato può destare stupore in quanto l’art. 33 del d.l. 69/2013 (c.d. decreto “del fare”) prevede l’obbligo per gli ufficiali dello stato civile di avvisare in tal senso gli interessati e, in mancanza, tale diritto può essere esercitato anche oltre tale data. In ogni caso, di fronte alla precisa richiesta di apolidia dell’attrice il Tribunale ha compiuto una minuziosa indagine sulla cittadinanza dei genitori, ex cittadini serbi, concludendo che in nessun modo quest’ultima potesse vantare il possesso di qualsiasi status civitatis, dato che non era provata l’apolidia dei suoi genitori al momento della sua nascita in Italia. Da qui la dichiarazione di accertamento dell’apolidia. Tuttavia, poiché nel 2019 era nata in Italia una figlia della medesima attrice da padre ignoto (e madre, appunto, apolide), il giudice ha successivamente riconosciuto la cittadinanza italiana di quest’ultima ai sensi art. 1, co. 1, lett. b) della l. 91/1992.