LO STATUS DI RIFUGIATO
Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
Il
Tribunale di Milano, con decreto dell’8.7.2020,
ha riconosciuto lo status di rifugiato ad una donna, proveniente dalla Sierra Leone, in ragione del fondato timore che la di lei figlia fosse costretta a subire i riti di iniziazione nella società Bondo.
Numerosi sono i profili di interesse della pronuncia in esame. In primo luogo il Collegio rileva come la ricorrente agisca direttamente a tutela della minore e come tale agire a protezione della figlia, al fine di sottrarla all’iniziazione ad una società segreta, oltre a costituire per lei un vero e proprio obbligo giuridico, persino penalmente rilevante, esponga ella stessa al pericolo di una possibile e altamente probabile persecuzione. Con riferimento al timore di persecuzione della ricorrente, il Tribunale osserva come tale timore trovi diretto riscontro in una nota emessa nel 2009 dall’U.N.H.C.R., intitolata «Nota orientativa sulle domande d’asilo riguardanti la mutilazione genitale femminile»), nella quale si evidenzia come in determinate circostanze anche il genitore può affermare un fondato timore di persecuzione in connessione con l’esposizione della figlia al rischio di MGF.
Il timore di persecuzione della ricorrente, legata al rischio che la figlia, in caso di rientro in Sierra Leone, venga costretta a subire i riti di iniziazione della società segreta Bondo, è stato dal Tribunale valutato rilevante, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sia con riferimento all’appartenenza ad un particolare gruppo sociale (le lesioni, infatti, vengono inflitte alle ragazze e alle donne proprio a causa del loro sesso, per affermare potere su di loro e per controllare la loro sessualità; la pratica, quindi, fa parte di un più ampio sistema di discriminazione contro ragazze e donne in una specifica società) sia con riferimento ai motivi religiosi (la persecuzione per motivi religiosi può sussistere anche quando vi siano interferenze mirate contro una persona che non desidera professare alcuna religione, rifiuta di aderirvi o non vuole conformarsi a una parte o a tutti i riti e le usanze di una religione, come nel caso della ricorrente).
Infine, il Tribunale evidenzia, con riferimento al requisito prescritto ex d.lgs. n. 251 del 2007, art. 5, che l’organizzazione e la diffusione della Bondo Society all’interno della Sierra Leone, evidenziata da fonti pertinenti e aggiornate indicate nel provvedimento, consentono senz’altro di ritenere che tale soggetto possa agire senza significative possibilità di essere contrastato dalle autorità statali.
Con riferimento agli atti persecutori compiuti contro le persone ritenute omosessuali, la Suprema Corte (Cass. 26.5.2020 n. 9815) ha ribadito che l’orientamento sessuale è un elemento idoneo a dimostrare l’appartenenza del richiedente ad un particolare gruppo sociale, quando il gruppo delle persone i cui membri condividono lo stesso orientamento sessuale è percepito dalla società circostante come diverso. Nella decisione in esame la Suprema Corte, dopo aver precisato che l’accertamento della condizione personale richiede che il giudicante si ponga in una prospettiva dinamica e non statica, si sofferma sul valore probatorio delle dichiarazioni del ricorrente. In particolare, gli Ermellini, cassando la decisione che aveva ritenuto che le sole dichiarazioni della parte non fossero prova di omosessualità, ha ribadito che le «dichiarazioni del richiedente asilo sul proprio orientamento sessuale devono essere raccolte da un intervistatore competente e valutate dal giudice secondo i criteri procedimentali di cui all’art. 3 del d.lgs. 251/2007, comparate con COI aggiornate e pertinenti, e possono essere sufficienti da sole a dimostrare l’appartenenza al gruppo sociale a rischio persecutorio, ovvero la circostanza che nel Paese d’origine il soggetto è stato percepito come tale» (negli stessi termini, con riferimento al valore delle “sole” dichiarazioni del ricorrente, si è espressa anche la
Corte d’appello di Bari, nella sentenza n. 1388 del 27.7.2020)
.
Il
Tribunale di Cagliari, con decreto n. 2067 del 24.7.2020
, prendendo in esame la domanda di protezione internazionale proposta da un ricorrente algerino che aveva narrato di essere omosessuale – riferendo le vicende legate alla scoperta del proprio orientamento sessuale, l’identità dei propri compagni, le difficoltà avute con la sua famiglia – ha riconosciuto lo status di rifugiato. Nella decisione in commento, il Tribunale si è soffermato sulla condizione di criminalizzazione dell’omosessualità nel Paese di origine del richiedente, rilevando come in Algeria, sebbene la Costituzione protegga i diritti umani fondamentali, la stessa non includa disposizioni per prevenire la discriminazione basata sull’identità di genere o sull’orientamento sessuale e come il codice penale criminalizzi «l’indecenza pubblica» e le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso con la reclusione fino a due anni e una multa di 10.000 dinari (circa 70,00 Euro), che si applica sia agli uomini che alle donne.
La Suprema Corte (ord. n. 18803/2020) – chiamata a decidere sull’appello proposto contro una decisione che aveva rigettato la domanda spiegata da una ricorrente albanese che aveva dedotto di esser stata segregata in casa dal proprio compagno, rivelatosi violento dopo l’inizio della convivenza, e di aver subito insulti, violenze e minacce, rispetto alle quali non aveva ricevuto tutela dalla polizia nonostante la denuncia – si è soffermata sulla violenza di genere. La Corte di cassazione, dopo aver affermato che in presenza di elementi certi che evidenziavano un contesto di grave violenza domestica ed in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi in fase amministrativa, i giudici di merito avrebbero dovuto procedere all’ascolto diretto della ricorrente, ha sottolineato che la violenza di genere non può mai essere ridotta a fatto meramente privato, atteso che «essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dall’art. 7, co. 2, d.lgs. n. 251 del 2007 ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato» (cfr. in particolare lett. a), che contempla gli «atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale» e lett. f), che si riferisce invece agli «atti specificamente diretti controun genere sessuale o contro l’infanzia»).
Ancora in materia di violenza domestica si è pronunciato il
Tribunale di Milano, con decreto del 15.7.2020
, che – esaminando la domanda di protezione spiegata da una donna originaria delle Filippine ed espatriata per sfuggire agli abusi perpetrati ai danni della stessa e del figlio da parte del marito – ha riconosciuto alla ricorrente lo status di rifugiato per appartenenza al gruppo sociale delle donne vittime di violenza. Di particolare interesse il richiamo sia ai principi della Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, (c.d. Convenzione di Istanbul) sia alla definizione di violenza basata sul genere fornita dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). In virtù della predetta definizione, i giudici milanesi hanno sottolineato che violenza comprende, sia abusi fisici, sessuali e psicologici all’interno del nucleo familiare, o all’interno della comunità nel suo complesso, ovvero perpetrati e giustificati da parte dello Stato e delle istituzioni, sia il traffico delle donne, delle ragazze e la prostituzione forzata, il mancato accesso a risorse economiche o mezzi di sussistenza, opportunità, istruzione, salute o altri servizi sociali. Merita, infine, rilevare come il Collegio abbia ritenuto la donna meritevole di essere riconosciuta come rifugiata alla luce delle fonti sul Paese di origine che ben descrivono sia la diffusione del fenomeno della violenza familiare nelle Filippine, sia la mancanza di volontà e/o capacità da parte dello Stato e degli altri soggetti preposti alla protezione, secondo la disciplina normativa di cui al d.lgs. n. 251 del 2007, art. 6, di tutelare le donne ed i minori, vittime di tale reato.
La condizione di grave epilessia che ha colpito un cittadino del Mali, esaminata alla luce delle fonti internazionali aggiornate e pertinenti – che dimostrano come il ricorrente rischi concretamente di essere sottoposto ai trattamenti tali da incidere fortemente sulle sue concrete condizioni di vita e da impedirgli l’accesso ai servizi sanitari e assistenziali, al lavoro, ad una vita dignitosa nonché all’esercizio dei diritti civili e politici – fonda il riconoscimento dello status di rifugiato (
Tribunale di Milano, 5.2.2020
). Il Collegio ha valutato come in Mali le persone affette da epilessia siano discriminate e stigmatizzate perché percepite come vittime di stregoneria e come le conseguenze inevitabili siano l’isolamento e la stigmatizzazione nonché l’impossibilità di ricevere cure adeguate che consentano di limitare gli effetti negativi della malattia.
Con riferimento alla valutazione della natura persecutoria dell’atto, il Tribunale meneghino ha precisato come debbano essere tenute adeguatamente in considerazione tutte le condizioni fisiche, psichiche, personali, sociali ed economiche dell’individuo e come le disparità di trattamento ed i comportamenti discriminatori, sommati gli uni agli altri, possano dar luogo ad una violazione dei diritti umani fondamentali (che, se riconducibili ad uno dei motivi specifici previsti nella Convenzione di Ginevra del 1951, possono essere qualificati come persecutori).
Religione
Le accuse di stregoneria rivolte alla figlia della ricorrente (per fatti accaduti in Costa D’Avorio, dopo la fuga della ricorrente dal Paese d’origine) giustifica, ad avviso del
Tribunale di Torino – decreto n. 741 del 3.2.2020
– il riconoscimento dello status di rifugiato. Osserva il Collegio come, dalle specifiche COI consultate, emerga che le persecuzioni conseguenti ad accuse di stregoneria possano essere condotte, anche non ad un reale credo religioso espresso dall’individuo oggetto di persecuzione o la sua effettiva partecipazione ad un gruppo sociale (nel caso di specie quello delle “streghe”), ma piuttosto alla percezione che ne hanno i persecutori. Nel decreto in esame si sottolinea come ciò che viene in rilievo è la credenza diffusa e radicata, all’interno di una determinata comunità o di un gruppo di persone, che un soggetto – molto spesso di sesso femminile – sia da considerarsi una “strega”.
Con riferimento al fondato timore allegato dalla ricorrente, il Tribunale evidenzia come lo stesso debba essere ravvisato nella paura di subire trattamenti di emarginazione in ragione del fatto che la stessa verrebbe considerata una strega per essere madre di una minore già ritenuta tale, e pertanto associata ad una particolare forma di pratica religiosa o comunque ad uno specifico gruppo sociale (e come, peraltro, la persecuzione possa estendersi anche ad altri membri in ragione del carattere ereditario della stregoneria per via matrilineare).
La Suprema Corte, con ordinanza n. 15219 del 2020, esaminando il ricorso proposto avverso il decreto con il quale il Tribunale di Milano aveva rigettato la domanda di una richiedente, proveniente dalla Cina, in ragione del rischio di persecuzione legato al suo credo religioso, ha ravvisato l’esistenza di un vizio di motivazione «perplessa ed incomprensibile». In particolare la Suprema Corte ha censurato la motivazione dei giudici meneghini nella parte in cui hanno attribuito importanza al livello di consapevolezza della scelta religiosa della richiedente ed hanno valutato il contesto di pericolo legato alla repressione del fenomeno religioso esistente in Cina non già in senso favorevole per la credibilità della storia, ma piuttosto in senso contrario, dando rilievo al fatto che, in presenza di una situazione di rischio, non sarebbe credibile che singoli consociati comunque scelgano di resistere, professando liberamente la loro fede e svolgendo proselitismo. Nella pronuncia in esame la Suprema Corte ha affermato che il «sindacato sul percorso individuale che la persona abbia seguito per abbracciare un determinato credo religioso e sul livello di conoscenza dei relativi riti non rientra nell’ambito della valutazione di merito devoluta al giudice ordinario ai fini dell’apprezzamento della credibilità della storia riferita dal richiedente la protezione, internazionale o umanitaria». Con riferimento alla valutazione di attendibilità, la Corte di cassazione ha precisato che, ai fini di escludere l’attendibilità della storia personale riferita dal richiedente la protezione, in un contesto di ritenuta discriminazione religiosa nel Paese d’origine (ai danni degli adepti di una determinata fede) non può essere dato rilievo al fatto che costui abbia comunque scelto di professare il suo credo religioso o di fare proselitismo, atteso che tali attività «rientrano nell’ambito della libera esplicazione della personalità umana».
Il
Tribunale di Milano, con decreto dell’8.7.2020
, ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un richiedente della Sierra Leone che, quale figlio di un membro della Poro Society, essendosi rifiutato di succedere al padre e di completare i riti di iniziazione (che potevano comportare l’uccisione dei fratellastri), temeva di essere ucciso da uno membri della predetta società. Nella decisione in esame il Collegio sottolinea come la persecuzione per motivi religiosi possa sussistere anche quando una interferenza nella libertà religiosa sia mirata contro una persona che non desidera professare alcuna religione, rifiuta di aderirvi o non vuole conformarsi a una parte o a tutti i riti e usanze di una religione. Richiamando un precedente della Corte di giustizia (sentenza resa dalla Grande Sezione nelle cause riunite C-71/11 e C-99/11 Bundesrepublik Deutschland/Y.Z., 5 settembre 2012), nel decreto si ribadisce che qualora la partecipazione a cerimonie pubbliche di culto, singolarmente o in comunità, possa comportare la concretizzazione di lesioni, la violazione del diritto alla libertà di religione può configurarsi come sufficientemente grave per l’adozione della protezione maggiore.
Opinioni politiche
Il
Tribunale di Perugia, con decreto n. 453 del 30.6.2020,
ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino pakistano, in ragione del fondato timore di essere forzosamente reclutato dal gruppo islamico Lashkar-e-Taiba. Sulla base del racconto del ricorrente, ritenuto dettagliato e specifico e, dunque, pienamente credibile, il Tribunale ha ritenuto fondato il pericolo del richiedente di essere perseguitato per motivi di appartenenza al citato gruppo (e, dunque, per motivi legati alle opinioni politiche), senza che, in ipotesi di rimpatrio, possa ricevere protezione dal suo Paese in quanto, come riscontrato dalle fonti, il gruppo terroristico aveva ricevuto sostegno da parte dell’Inter-Service Intelligence pakistano e quindi presentava forti elementi di collusione con apparati dello Stato.
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b)
Il
Tribunale di Catania, con decreto del 21.7.2020
, ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad una donna originaria del Marocco, fuggita dal Paese d’origine in seguito alle violenze subite dal marito (il quale aveva usato violenza anche contro i figli). I giudici catenesi hanno affermato che, in caso di ritorno in Marocco, la ricorrente si troverebbe esposta ad una seria minaccia per la propria vita e rischierebbe di essere oggetto di ulteriori maltrattamenti e torture, anche in relazione alla situazione socio-politica esistente. Il racconto della ricorrente è stato ritenuto pienamente credibile anche alla luce delle fonti internazionali che attestano come in Marocco lo stupro all’interno del matrimonio non sia considerato un crimine e come una condanna di violenza sessuale possa comportare una condanna ad un massimo di un anno e ad una multa di 15.000 dirham ($ 1.530).
D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14, lett. c)
Il
Tribunale di Firenze, con decreto del 25.6.2020
, e il
Tribunale di Catania, con decreto del 7.7.2020
, hanno riconosciuto la protezione sussidiaria a due cittadini del Burkina Faso, in ragione del rischio di essere coinvolti nella violenza da conflitto armato generalizzato. Nelle decisioni in esame, alla luce delle più aggiornate informazioni sul Paese d’origine – consultate da entrambi i Tribunali anche a fronte di una valutazione negativa di credibilità del ricorrente sulle ragioni dell’espatrio (ma non sulla provenienza dal Burkina Faso) – viene affermata l’estensione del conflitto a pressoché tutto il Paese e la conseguente condizione di conflitto armato con violenza indiscriminata nei confronti dei civili ai sensi dell’art. 14, lett. c), d.lgs. 19.11.2017 n. 251.
La Corte di cassazione, nell’ordinanza n. 2954 del 7.2.2020 – con riferimento al tema del dovere di cooperazione del giudice nel caso di situazione di violenza indiscriminata da conflitto armato – ha ribadito che il pericolo di danno grave in caso di rimpatrio debba essere considerato in linea «meramente oggettiva», a prescindere dalle ragioni che hanno indotto il richiedente asilo ad emigrare e con riferimento all’attualità. Nella pronuncia in esame, la Suprema Corte ha precisato come sia del tutto irrilevante il fatto che la situazione pericolosa di danno grave possa essere sorta in un momento successivo alla partenza del richiedente dal Paese di origine e come sia ininfluente il motivo che aveva originato la sua partenza. Con particolare riferimento al dovere di cooperazione, la Suprema Corte ha chiarito come tale potere-dovere non trovi ostacolo nella non credibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente (ad eccezione del caso in cui si ritenga proprio non credibile la provenienza da una determinata area geografica), nel caso in cui oggetto di valutazione sia proprio la situazione generale di sicurezza del Paese d’origine.
QUESTIONI PROCESSUALI
Sospensione dell’efficacia esecutiva del decreto di rigetto
Il
Tribunale di Cagliari, con decreto del 12.6.2020
, ha sospeso l’efficacia esecutiva del decreto di rigetto della domanda di protezione, ritenendo che i «fondati motivi» di cui al d.lgs. 25 del 2008, art. 35-bis, co. 13, possano ritenersi integrati in ragione di una condizione di «grave vulnerabilità» in capo al ricorrente. In tal senso, il Collegio ha considerato i seguenti elementi: la vulnerabilità intrinseca da ravvisare in capo a chi lascia il Paese d’origine ancora minorenne (a tal proposito, nel decreto si sottolinea come la scelta di chi abbandona il proprio Paese da minorenne, in totale solitudine, «non può, infatti, costituire il frutto di una ponderata valutazione di convenienza economica, ma, piuttosto, appare dettata dal bisogno impellente e dalla percezione istintiva di non poter avere una vita dignitosa nel quadro sociale e familiare di riferimento») nonché una condizione di instabilità politica e sociale del Gambia che, pur non rilevando ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, assume comunque rilievo nel far apparire maggiormente gravosa la condizione a cui verrebbe esposto il ricorrente in caso di forzoso rimpatrio.
Nella decisione del
Tribunale di Milano (decreto del 16.9.2020)
i «fondati motivi» sono stati ritenuti sussistenti in ragione della eccezionale emergenza sanitaria determinata dall’epidemia da virus COVID-19 e in ragione delle eccezioni misure adottate dal Governo per contrastarla. Ad avviso dei giudici meneghini, il rigetto della richiesta di sospensione comporterebbe la revoca, in capo al richiedente, del permesso di soggiorno temporaneo per richiesta di asilo. Tale revoca, prosegue il Collegio, determinerebbe l’impossibilità di osservanza delle prescrizioni dell’Istituto Superiore della Sanità a tutela della salute individuale e collettiva perché la revoca del permesso di soggiorno precluderebbe l’accesso del richiedente al Servizio sanitario nazionale e alle cure del medico di famiglia.
Nella valutazione dei «fondati motivi», anche il
Tribunale di Bari (decreto del 28.7.2020)
, prende in esame la situazione di emergenza sanitaria connessa alla pandemia da COVID-19, ma con riferimento alla condizione del Paese d’origine del ricorrente (la Nigeria). Il giudice investito della domanda cautelare, ha esaminato la condizione del Sistema sanitario nigeriano (che «non riesce ad assicurare una copertura nei confronti della generalità dei cittadini»), la diffusione dei focolai, l’evidente sottostima dei numeri di morti e ammalati diffusi dalle autorità nazionali nonché la scarsezza delle risorse a disposizione dei sanitari per poter fronteggiare l’attuale situazione, ritenuta fuori controllo, per la mancanza di dispositivi di protezione individuale e l’assenza di sanificazione delle strutture ospedaliere.
Individuazione del momento di presentazione della domanda in via amministrativa ai fini dell’individuazione della legge applicabile e domande reiterate
Il
Tribunale di Venezia, con decreto del 4.6.2020
, chiamato a decidere su una domanda reiterata dichiarata inammissibile dalla Commissione territoriale, si è soffermato sul requisito degli «elementi nuovi» di cui all’art. 29, d.lgs. 25/2008. Nel caso portato all’attenzione dei giudici veneziani, il ricorrente, a sostegno della nuova domanda di protezione internazionale, aveva rappresentato la situazione di grave instabilità politica del Ghana ed aveva prodotto un contratto di lavoro, sottoscritto dopo il rigetto della prima domanda. Ad avvisto del Tribunale, le COI consultate evidenziavano come l’area di provenienza del ricorrente (Kusasi) non fosse interessata da una situazione di violenza generalizzata. Con riferimento al contratto di lavoro è stato affermato come lo stesso poteva essere considerato solo ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria.
Con specifico riferimento all’individuazione della legge applicabile, il Tribunale ha ritenuto che, laddove in epoca antecedente alla compilazione del c.d. modello C3 il ricorrente abbia manifestato la propria volontà di chiedere protezione, sarà in questo momento che si potrà ritenere presentata una domanda in via amministrativa (anche se la compilazione del modello C3 sia avvenuta in epoca successiva). Tale considerazione ha, così, portato il Tribunale a ritenere applicabile il disposto dell’art. 5, co. 6, d.lgs. 25.7.1998 n. 286 (nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dal d.l. 4.10.2018 n. 113).
Presupposti per la rinnovazione dell’audizione del ricorrente
La Corte di Cassazione, con ordinanza del 20.5.2020 n. 9228 – chiamata a decidere su un ricorso proposto da un cittadino del Bangladesh che aveva censurato la decisione del Tribunale di non disporre l’audizione del ricorrente in assenza di videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla Commissione territoriale – ha affermato che la qualificazione in «termini di diritto soggettivo delle posizioni soggettive coinvolte nel procedimento giurisdizionale di delibazione delle domande di protezione, internazionale o umanitaria, implica necessariamente la garanzia della piena esplicazione del diritto di difesa del richiedente la protezione, attraverso un contraddittorio pieno, che non si articoli soltanto in una sequenza processuale, ma consenta al richiedente un effettivo e diretto contatto con il “suo” giudice». Le caratteristiche del c.d. onere probatorio attenuato e le peculiarità della valutazione di credibilità richiedono, ad avviso dei Giudici di legittimità, un «contatto tra richiedente e giudice, poiché la credibilità della storia dipende anche dal modo con cui la narrazione viene riferita, dall’atteggiamento dello straniero, dalle sue esitazioni, dal coinvolgimento che egli mostra durante il colloquio». Per tali motivi, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio: «Nei procedimenti di riconoscimento della protezione, internazionale o umanitaria, qualora la videoregistrazione del colloquio svoltosi in sede amministrativa non sia disponibile, o perché non eseguita o perché comunque non acquisita agli atti del processo, il giudice di merito deve sempre fissare l’udienza di comparizione personale del richiedente, da un lato al fine di consentire a quest’ultimo un accesso ed un contatto diretto con il suo giudice naturale precostituito per legge, e quindi la piena ed effettiva esplicazione delle garanzie processuali, e dall’altro lato in modo da acquisire tutti gli elementi necessari per condurre la valutazione di credibilità, o meno, della storia personale riferita dal richiedente medesimo. Ne deriva che detta udienza costituisce il luogo naturalmente deputato allo svolgimento dell’audizione personale del richiedente, che può essere evitata soltanto in via eccezionale, qualora il giudice di merito ritenga, all’esito di motivata decisione, che le contraddizioni e le carenze esterne della storia non possano essere superate dall’audizione stessa. In tal caso, va comunque garantita al richiedente la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni».
Sul tema dell’audizione del ricorrente in fase giurisdizionale la Suprema Corte si è soffermata anche in altre pronunce, giungendo a soluzioni non sempre omogenee.
Con ordinanza n. 15318 del 6.7.2020, la Corte di cassazione, richiamando i principi contenuti nella sentenza della Corte di giustizia UE 26 luglio 2017, C-348/16, Moussa Sacko, ha affermato che il Tribunale investito del ricorso avverso il rigetto della domanda di protezione internazionale, può scegliere di disporre l’audizione ove lo ritenga necessario ai fini dell’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto rilevanti ai fini della decisione. Aggiunge anche che non si ritiene che vi sia necessità di disporre la rinnovazione dell’audizione in fase giurisdizionale solo in ragione dell’assenza di videoregistrazione ed anzi si afferma che il Tribunale ben possa esimersi dall’audizione del richiedente se a questi sia stata data la facoltà di rendere l’audizione dinanzi alla Commissione territoriale e il verbale del colloquio sia stato trasmesso al Tribunale.
Nell’ordinanza n. 16925/2020, la Corte di cassazione ha ribadito come non sussista alcun automatismo tra la mancanza di videoregistrazione e la rinnovazione dell’ascolto del richiedente, a maggior ragione quando nel ricorso la difesa non indichi quali diversi ed ulteriori elementi acquisire nella fase giurisdizionale.
Onere della prova e valutazione di credibilità
Con ordinanza n. 11970/2020, la Corte di cassazione ha affermato che la protezione di cui all’art. 14, lett. c) d.lgs. 251/2007, prescinde da fatti che attengano ad una vicenda individuale e, per tale motivo, chi invochi tale forma di protezione non ha l’esigenza di avvalersi dei criteri posti dall’art. 3, co. 5, d.lgs. 251/2007 per colmare le lacune probatorie che la storia personale del richiedente evidenzi. Nella pronuncia in esame si ribadisce che il fatto costitutivo è la situazione di pericolo generalizzato dato dalla violenza indiscriminata in presenza di conflitto armato nel Paese in cui il ricorrente deve essere rimpatriato. In forza delle predette considerazioni, la Suprema Corte afferma che «la prova di tale situazione, in difetto di attivazione della parte, va acquisita d’ufficio dal giudice». Nella decisione in esame, gli Ermellini affermano che i criteri posti dal d.lgs. n. 251 del 2007, art. 3, co. 5, agiscono come «correttivi di un onere probatorio del richiedente riferito alla sua vicenda personale; poiché tale vicenda non rileva con riguardo alla domanda di protezione sussidiaria d.lgs. cit. ex art. 14, lett. c), (sempre che non si discuta della provenienza dell’istante), non può nemmeno configurarsi, in relazione ad essa, quella situazione di deficit probatorio che il cit. art. 3, co. 5, presuppone: e ciò rende inoperanti i criteri posti dalla detta norma per supplire a una carenza siffatta». Ciò premesso, esclusa l’applicazione dei detti criteri, ad avviso della Corte deve conseguentemente negarsi che il giudizio di credibilità o non credibilità delle dichiarazioni rese dal dichiarante sortisca conseguenze preclusive per l’accesso al diritto di cui al d.lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).
Ancora con riferimento alla valutazione di credibilità, la Corte di cassazione, con ordinanza del 9.7.2020 n. 14671 ha precisato che tale valutazione può dar luogo ad un «apprezzamento di fatto» (censurabile in Cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 5) solo ove la stessa risulti effettuata in conformità della legge. Ove, invece, tale valutazione non derivi da un esame effettuato in conformità con i criteri stabiliti dalla legge «è denunciabile in Cassazione – con riguardo all’esame medesimo – la violazione delle relative disposizioni, la cui sussistenza viene ad incidere “a monte” sulle premesse della valutazione di non credibilità, travolgendola non per ragioni di fatto ma di diritto».
Decidendo su un ricorso rigettato dal Tribunale in ragione di una valutazione negativa di credibilità della riferita persecuzione per motivi religiosi, la Suprema Corte, con ordinanza n. 5225/2020 ha delimitato l’oggetto della predetta valutazione, precisando che la scelta di fede costituisce, al pari di quella sull’orientamento sessuale, una delle primarie modalità di estrinsecazione della personalità umana e che, di conseguenza, «non può mai essere consentito al giudice di spingersi sino alla pretesa di valutare criticamente il percorso personale di avvicinamento alla fede seguito da un determinato soggetto, ovvero le modalità con le quali costui sceglie, in assoluta libertà – e fermi restando soltanto i limiti di ordine pubblico e sicurezza nazionale – di professare la propria fede». La Corte ha affermato come non possa rientrare nell’ambito della valutazione di credibilità della storia riferita dal richiedente la protezione, internazionale o umanitaria, ovvero di attendibilità dello stesso, il sindacato sul percorso individuale che il richiedente abbia seguito per abbracciare quel determinato credo, né il livello di conoscenza dei relativi riti.
Dovere di cooperazione e informazioni sul Paese d’origine (COI)
Il dovere di cooperazione del giudice con riferimento a quanto accaduto nel Paese di transito è esaminato dalla Suprema Corte, nell’ordinanza n. 13758/2020. Nella decisione in esame, gli Ermellini, partendo dal disposto dell’art. 8, co. 3, d.lgs. 25/2008, affermano che il giudice di merito «deve in ogni caso» esaminare la situazione del Paese d’origine e procedere alla verifica del c.d. Paese di transito, quando tale valutazione occorra nel caso concreto. Con riferimento alla valutazione del Paese di transito, si afferma che la stessa debba essere compiuta, in particolare, quando il “passaggio” nel Paese di transito si sia protratto nel tempo (atteso che il passare del tempo nel predetto Paese potrebbe aver assunto un significato per il vissuto del migrante richiedente protezione).
Il rapporto tra dovere di cooperazione del giudice, informazioni sul Paese d’origine e fatto notorio è oggetto di esame da parte della Suprema Corte, nell’ordinanza del 16.7.2020 n. 15215. Nella decisione in commento, la Corte di cassazione precisa che nell’attuale contesto normativo ed alla luce dell’elaborazione giurisprudenziale consolidatasi in tema di cooperazione istruttoria e di onere della prova attenuato, si deve ammettere, da un lato la possibilità del ricorrente di invocare il fatto notorio, e dall’altro il corrispondente dovere del giudice di non ignorarlo. In forza di tali argomenti, la Cassazione richiama una precedente decisione che aveva affermato che le risultanze delle fonti informative aggiornate sul Paese di origine del richiedente la protezione internazionale o umanitaria (le c.d. C.O.I.) costituiscono fatto notorio, proprio in ragione della loro diretta disponibilità da parte della collettività e della loro capillare diffusione mediante i canali informatici disponibili alla pluralità dei consociati (Cass., sez. 1, ordinanza n. 6280 del 05/03/2020).
Procura alle liti
La Corte di Cassazione, con ordinanza dell’8.7.2020 n. 14346, si sofferma sul tema dei requisiti della procura alla lite, di cui all’art 35-bis, co. 13, d.lgs. 25 del 2008. Nella decisione, la Suprema Corte partendo dalla connotazione pubblicistica che la “certificazione” demanda al difensore, precisa che tale “certificazione” rinvia in modo specifico ad un unico soggetto autore della condotta e alla correlativa responsabilità. La stessa, ad avviso della Corte, appare strettamente connessa ad un “modo” predeterminato, scelto dalla legge, di far risultare la posteriorità del mandato rispetto alla comunicazione del decreto, perciò integrando direttamente, accanto ad una funzione di controllo della sottoscrizione e della sua provenienza (e, con essa, della volontà di impugnare, ex art. 83 c.p.c.), una speciale potestà asseverativa, di fidefacienza, conferita ex lege al difensore abilitato. Da tali premesse consegue l’inammissibilità del ricorso nel quale la procura non indichi la data in cui essa è stata conferita (nello stesso senso, cfr. anche Cass. 19263/2020).
LA PROTEZIONE UMANITARIA NEL PROCEDIMENTO DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE
La rilevanza nei Paesi di transito. La Libia
La rilevanza dei trattamenti subiti nei Paesi di transito, ed in particolare in Libia, sta emergendo sempre più nella giurisprudenza di legittimità ed in quella di merito, in quanto elemento considerato dall’art. 8 d.lgs. 25/2008 (si vedano le ordinanze della Corte di cassazione n. 29603/2020, n. 2558/2020, n. 1104/2020 nella rubrica del fascicolo 2/2020, oltre all’ordinanza n. 13758/2020, richiamata nella prima parte di questa rubrica). Valorizzazione che assume un particolare rilievo per la protezione umanitaria, così completando quel largocompasso nella individuazione dei diritti fondamentali, di cui alle pronunce a Sezioni Unite n. 29459 e 29460 del 2020. Interessanti sono i vari profili considerati dalla Cassazione.
L’ordinanza n. 17747/2020 la Cassazione censura una decisione della Corte d’appello di Messina che, rigettando la domanda di protezione di un richiedente asilo del Togo, ha omesso di valutare, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, le violenze subite in Libia, pur emerse dalle sue dichiarazioni, ritenendo che quanto accaduto nel Paese di transito sia irrilevante nella dovuta comparazione. Ricordando l’autonomia della tutela umanitaria rispetto alla protezione internazionale e la non tipizzazione delle situazioni meritevoli di tutela, la Corte di cassazione valorizza le vulnerabilità indicate nell’art. 19, co. 2-bis TU 286/98, tra le quali essere stati vittime di violenze psicologiche, fisiche o sessuali ed il divieto di respingimento o espulsione verso un Paese in cui vi sia il rischio di compromissione dei diritti umani, per poi affermare che le violenze subite in Libia possono ingenerare nella persona un «forte grado di traumaticità», tale da incidere sulla sua vulnerabilità, rendendo ostativo il rientro nel Paese di origine.
Nell’ordinanza n. 13758/2020 la Corte di cassazione annulla una decisione del Tribunale di Ancona che ha omesso di valutare, sempre ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, il lungo periodo trascorso in Libia da un richiedente asilo del Ghana, in violazione dell’art. 8, co. 3, d.lgs. 25/2008. Secondo la Corte, infatti, l’onere istruttorio del giudice riguarda anche i Paesi di transito, secondo quanto prescritto da detta norma e l’inciso «ove occorra», va inteso «nel dovere del giudice del merito di prendere comunque in considerazione l’eventualità di procedere all’esame anche della situazione del c.d. Paese di transito», valutando nello specifico il vissuto del richiedente asilo. Il Giudice di legittimità ritiene che la durata in concreto del soggiorno in un Paese di transito assuma particolare rilievo per l’esame della domanda di protezione, mentre può non essere necessaria per un passaggio di qualche giorno o settimana.
Con
decreto 8.7.2020 R.G. 6080/2018 il Tribunale di Catanzaro
, sezione specializzata, ha riconosciuto ad un richiedente asilo del Bangladesh (che aveva reiterato la domanda) la protezione umanitaria in ragione sia della povertà che l’aveva costretto a lasciare il Paese nel 2015, sia per il tempo trascorso in Libia, ove aveva raccontato indicibili violenze subite. Il Tribunale ha accertato sulla base di specifiche COI la situazione in Bangladesh ed il tasso elevato di estrema povertà ivi esistente, comparando il rischio del rientro con la positiva integrazione, sociale e lavorativa, raggiunta in Italia. Nel contempo ha svolto accertamenti puntuali e motivati in riferimento al trattamento ed alle violenze inferte ai migranti in Libia, del tutto coerenti con il racconto del richiedente. Significativo il passaggio del decreto ove si esclude, di fatto, l’imprescindibilità, ai fini della credibilità, della certificazione medica delle violenze subite in Libia, stante l’oggettivo riscontro rinvenuto in plurime fonti di informazione.
Povertà e trattamento subito in Libia che, secondo il Tribunale calabro, ha determinato una condizione di particolare vulnerabilità meritevole di protezione.
La credibilità nella protezione umanitaria
L’ordinanza n. 12138/2020 della Cassazione ripercorre lo schema argomentativo della pronuncia 8819/2020, riaffermando il principio secondo cui solo per il riconoscimento del rifugio politico e della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. a) e b) d.lgs. 251/2007 non è dovuto il potere officioso del giudice qualora il racconto del richiedente risulti inattendibile secondo i criteri indicati nell’art. 3, co. 5, d.lgs. 251/2007, mentre è sempre dovuto per la valutazione della fattispecie di cui alla lett. c) dell’art. 14 e per la protezione umanitaria. Dovere di cooperazione che deve riguardare un puntuale accertamento della situazione nel Paese di origine attraverso l’analisi di COI aggiornate, la cui attualità deve risultare dalla decisione.
Sempre in tema di credibilità, la Corte di cassazione (ord. n. 11170/2020) ribadisce che la valutazione deve essere effettuata, in generale, sulla base dei criteri legali indicati dall’art. 3, d.lgs. 251/2007, che presuppongono un’attività valutativa discrezionale in cui non c’è spazio per mere opinioni soggettivistiche del giudice. Nello specifico della protezione umanitaria, la Corte censura la decisione della Corte d’appello di Venezia che ha omesso in concreto di valutare comparativamente sia la vulnerabilità del richiedente asilo del Ghana (che ha allegato critiche condizioni di salute), sia l’integrazione lavorativa in Italia, con il suo vissuto in Ghana prima della partenza ed il rischio a cui si troverebbe esposto in caso di rimpatrio.
La protezione umanitaria e la povertà
La Corte di cassazione, con ordinanza 19017/2020, annulla una sentenza della Corte d’appello di Torino che, in relazione alla domanda di protezione di un richiedente asilo del Gambia, ha omesso di effettuare una concreta comparazione tra il livello di integrazione raggiunto in Italia e il rischio di compromissione dei diritti umani in caso di rientro nel Paese di origine. Interessante è la parte dell’ordinanza che censura la pronuncia impugnata ove, con riguardo alla povertà del Paese allegata in giudizio dal richiedente, si limita ad affermare che «tutta l’Africa è in una condizione di estrema povertà», senza svolgere un’effettiva indagine officiosa sull’incidenza che la povertà induce, nello specifico Paese, sulla violazione dei diritti umani al di sotto del loro nucleo essenziale, a cui comparare l’integrazione raggiunta in Italia. Così la Corte: «All'allegazione della parte relativa alla situazione attuale in Italia ed a quella che conseguirebbe al rientro, deve seguire un’indagine officiosa specificamente rivolta a verificare se, nel Paese di origine, la situazione nella quale verrebbe a trovarsi il ricorrente, in relazione alla sua complessiva condizione soggettiva ed oggettiva, (età, salute, radici relazionali e parentali, condizione personale, appartenenza ad un gruppo sociale, grado d’integrazione sociale e lavorativa raggiunta, etc.) sia idonea a determinare non un mero peggioramento della migliore condizione di vita goduta nel nostro Paese, ma una compressione radicale dei diritti umani correlati al profilo del richiedente, che lo privi della concreta possibilità di condurre un’esistenza coerente con ii rispetto della dignità personale».
La protezione umanitaria e la pandemia da COVID-19
Il
Tribunale di Napoli, con decreto 25.6.2020 RG.23602/2018
, dopo avere escluso ogni forma di protezione internazionale per un richiedente asilo del Pakistan, per difetto di credibilità, gli ha riconosciuto la protezione umanitaria in ragione del rischio a cui andrebbe incontro in caso di rientro nel Paese di origine in conseguenza della pandemia da COVID-19 e stante l’inadeguatezza del sistema sanitario ivi esistente. Situazione che il Tribunale partenopeo ha accertato mediante precise fonti di informazione, dalle quali emerge, in Pakistan, una prevalenza di strutture sanitarie a pagamento ed una esiguità di ospedali pubblici ai quali possano rivolgersi anche coloro che versano in condizione di povertà, come il ricorrente.
Comparato quel rischio con la positiva integrazione in Italia, il Tribunale ha riconosciuto la protezione umanitaria.
La
Corte d’appello di Bari, con sentenza n. 1208/2020
, ha riconosciuto la protezione umanitaria ad un richiedente asilo del Senegal, che aveva fondato la sua domanda sulla condizione di estrema povertà nel Paese di origine, per la quale era stato costretto a lasciarlo. La Corte ha effettuato una comparazione tra l’ottima integrazione sociale in Italia e la situazione economico-sociale in Senegal, riscontrando in esso un’iniqua distribuzione della ricchezza ed un elevatissimo tasso di disoccupazione, aggravatasi ancora di più a seguito della pandemia mondiale da COVID-19 e resa problematica dalla inadeguatezza del sistema sanitario.
La protezione umanitaria e le ragioni di salute
Il
Tribunale di Milano (decreto 21.9.2020 R.G. 14863/2019)
ha riconosciuto ad un richiedente asilo della Guinea Conakry la protezione umanitaria dopo avere escluso la sussistenza della protezione internazionale. Tutela riconosciuta pur in assenza di indici di integrazione sociale in Italia ma dando rilievo sia all’età minorile, al momento dell’inizio della migrazione, sia al suo vissuto, sia alla attuale fragilità emotiva e psicologica, dimostrata in giudizio con precise e motivate relazioni psicologiche. Secondo il Tribunale «Proprio partendo dalla valutazione individuale e comparativa prospettata dalla sentenza di Cassazione n. 4455/2018, sopra richiamata, confrontando la situazione attuale del soggetto in Italia, con le condizioni di vita dello stesso in Guinea Conakry, tenendo in debita considerazione la summenzionata documentazione, è possibile delineare l’esistenza, allo stato attuale, di profili soggettivi di marcata vulnerabilità, che condurrebbero, in caso di rimpatrio, a una compromissione della sua dignità e del suo diritto a un’esistenza libera e dignitosa. L’altalenante attuale condizione emotiva rende infatti il ricorrente un soggetto in uno stato di instabilità e vulnerabilità, che egli si troverebbe ad affrontare, in caso di rientro nel Paese di origine, in completa solitudine ed autonomia, senza l’adeguato supporto al quale, in questo particolare momento, egli ha accesso sul territorio nazionale, tenute in considerazione anche le conseguenze che, allo stato, un nuovo sradicamento e successivo reinserimento in un’altra realtà, dove non troverebbe alcun tipo di supporto, potrebbero su di esso avere».
La protezione umanitaria e la violazione dei diritti umani nel Paese di origine
Con
decreto 25.6.2020 R.G. 14945/2020 il Tribunale di Milano
, dopo avere escluso ad un richiedente asilo egiziano la protezione internazionale (per difetto di individualizzazione e insussistente la violenza indiscriminata), gli ha riconosciuto la protezione umanitaria dopo avere accertato la sistematica violazione in Egitto dei diritti e delle libertà fondamentali, tale da indurre nel richiedente un concreto rischio di compromissione dei diritti umani. Accertamento giudiziale corredato da specifiche e pertinenti fonti di informazione, ampiamente riportate nella decisione, a cui è stata comparata la condizione attuale del richiedente in Italia, ove vive da più di 10 anni e in cui «ha sperimentato regole di convivenza del tutto diverse da quelle che si troverebbe ad affrontare una volta rientrato nel proprio Paese», giungendo a riconoscere il rischio di grave compromissione dei diritti umani in caso di suo rientro nel Paese di origine.
Il permesso umanitario e le condanne penali. La giurisdizione ordinaria
All’esito di un complesso giudizio, svoltosi sia in sede amministrativa che ordinaria, la Corte di cassazione ha esaminato un caso particolare, in cui il questore di Bergamo ha negato il rilascio del permesso di soggiorno umanitario, riconosciuto nel 2016 dal Tribunale di Palermo, perché l’interessato era gravato da precedenti penali. Diniego basato, dunque, sulla ritenuta ostatività delle condanne per determinati reati di cui all’art. 4, co. 3, TU immigrazione d.lgs. 286/98. Dopo che il Tar ha declinato la propria giurisdizione a favore di quella ordinaria, il ricorso è stato riassunto davanti al Tribunale di Bergamo che l’ha rigettato e avverso questa decisione è stato proposto reclamo davanti alla Corte d’appello di Brescia, che l’ha accolto, escludendo che al questore residui alcuna discrezionalità per il rilascio del permesso umanitario ed escludendo, altresì, alcun automatismo ostativo.
La decisione della Corte bresciana è stata impugnata dal Ministero dell’interno ma la Corte di cassazione con ordinanza n. 11147/2020 ha rigettato il ricorso, affermando vari principi. Innanzitutto, la Corte ha escluso che il giudizio, svoltosi con il rito di volontaria giurisdizione di cui all’art. 737 e ss. c.p.c., dovesse essere invece assoggettato al rito di cognizione sommario, ex art. 702-bis c.p.c., irrilevante che il Tar (davanti a cui era stato originariamente impugnato il diniego) avesse indicato questa disposizione processuale nel disporre il rinvio al giudice ordinario. Inoltre, ha affermato che il giudizio afferente il permesso umanitario non rientra tra quelli per i quali il c.d. decreto riti (d.lgs. 150/2011) indica il rito sommario di cognizione, non potendosi nemmeno ritenere che il caso in esame rientri nelle impugnazioni di cui all’art. 35 d.lgs. 251/2007.
Quanto alla ostatività delle condanne penali al rilascio del permesso umanitario, la Cassazione esclude che, una volta riconosciuta la protezione umanitaria, al questore residui alcun margine discrezionale: «al questore non è più attribuita alcuna discrezionalità valutativa in ordine all’adozione dei provvedimenti riguardanti i permessi umanitari e tanto in coerenza con il rilievo che la situazione giuridica soggettiva dello straniero ha natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dall’art. 2 Cost. e dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e, pertanto, non e degradabile ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può pertanto rimettersi solo l’accertamento dei presupposti di fatto legittimanti la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato al legislatore (Cass. SU n. 19393 del 9.9.2009; Cass. SU n. 5059 del 28.2.2017; Cass. SU n. 30658 del 27.11.2018)».
Precisa, inoltre, la Corte che comunque il giudizio di pericolosità sociale non può essere assunto in maniera automatica in conseguenza delle condanne penali.
Infine, riconferma la giurisdizione ordinaria in materia di protezione umanitaria, compreso il rilascio del relativo titolo di soggiorno.
QUESTIONI PROCEDIMENTALI E DIRITTI CIVILI: IL PERMESSO DI SOGGIORNO UMANITARIO E LA SUA CONVERSIONE
Irretroattività della riforma di cui al d.l. n. 113/2018
Con sentenza n. 2912/2020 il Consiglio di Stato ha annullato un provvedimento del questore di Milano (e la decisione di rigetto del ricorso opposto dal Tar Milano) di rifiuto di conversione del permesso umanitario in permesso per lavoro, in forza di un parere negativo della Commissione territoriale.
Il giudice d’appello ribadisce, innanzitutto, la giurisdizione amministrativa in materia di conversione del permesso umanitario in lavoro, essendo fattispecie estranea all’art. 19-ter d.lgs. 150/2011.
Nel merito, censura il diniego questorile ritenendo che l’art. 1, co. 8 d.l. n. 113/2018, nel prevedere il rinnovo del permesso umanitario in permesso per protezione speciale, fa comunque salvi i casi di conversione, in tal modo rendendo alternative le due fattispecie: «l’art. 1, co. 8, dell’appena citato d.l. n. 113 del 2018, disposizione da applicarsi propriamente al caso di specie, non preclude allo straniero, che pure abbia richiesto il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari nel nuovo permesso per protezione speciale, di richiedere contestualmente o anche successivamente la conversione di detto permesso di soggiorno in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato, ove ne sussistano i presupposti».
Pertanto, il parere negativo emesso dalla Commissione territoriale per il rilascio del permesso per protezione speciale non impedisce che il questore debba esaminare anche la richiesta di conversione, a fronte di dimostrata attività lavorativa nelle more della validità dell’originario permesso umanitario. Il Consiglio di Stato richiama anche la giurisprudenza della Cassazione sulla irretroattività della riforma di cui al d.l. n. 113/2018 sui permessi umanitari precedentemente rilasciati.
I presupposti della conversione
Il Tar Lombardia, Milano, con sentenza n. 203/2020, ha accolto il ricorso proposto da un cittadino straniero titolare di permesso umanitario, più volte rinnovato e con titolo di viaggio rilasciatogli, al quale la questura di Milano aveva negato la conversione in permesso per lavoro senza adottare un provvedimento scritto. Conversione che è stata chiesta nel maggio 2019 (dunque dopo la riforma recata dal d.l. n. 113/2018), a cui la questura non aveva inteso dar corso volendo, invece, rilasciare un permesso per “casi speciali”, come previsto dall’art. 1, co. 9, d.l. 113/2018 e chiedendo la produzione del passaporto in una nota invita all’associazione a cui il cittadino straniero si era rivolto. Il Tar richiama l’obbligo di assumere entro 60 gg. il provvedimento in relazione alla domanda di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, come previsto dall’art. 5, co. 9, TU d.lgs. 286/98. Provvedimento che va assunto in forma scritta e motivata, irrilevante le note epistolari prive di analogo valore. Per questi motivi il Tar ha «dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione resistente di adottare un provvedimento espresso, secondo le valutazioni di competenza, nel termine di giorni trenta (30) dalla comunicazione della presente sentenza, o dalla notificazione a cura di parte se anteriore, sia in relazione all’istanza di conversione del permesso di soggiorno sia quanto all’istanza di rilascio di un utile titolo di viaggio».
Il Tar Emilia Romagna, Bologna (sentenza n. 40/2020) ha invece rigettato il ricorso proposto da un titolare di permesso di soggiorno umanitario, a cui il questore di Rimini aveva negato la conversione per mancanza di passaporto (nonostante la giustificazione addotta dall’interessato della impossibilità attuale di avere il certificato di nascita propedeutico al rilascio del passaporto) nonché per mancanza di attività lavorativa al momento della richiesta.
Il Tar non affronta la questione del passaporto ma rigetta il ricorso per mancata dimostrazione dell’attività lavorativa, in quanto la conversione presuppone che siano sussistenti i presupposti per lo specifico permesso di soggiorno, ovverosia l’attività lavorativa. Secondo il giudice regionale emiliano non è possibile la conversione del permesso umanitario in “attesa occupazione”, di cui all’art. 22, co. 11, TU d.lgs. 286/98, perché presuppone che vi sia stata antecedentemente attività lavorativa.
I PROVVEDIMENTI ex REGOLAMENTO n. 604/2013 DUBLINO III
Con ordinanza n. 17963/2020 la Corte di cassazione ha esaminato il ricorso proposto da un richiedente asilo, destinatario di un provvedimento di rinvio verso la Germania ex Regolamento n. 604/2013, a cui il Tribunale di Trieste aveva rigettato l’impugnazione ritenendo irrilevante la violazione del diritto di informazione previsto dagli artt. 4 e 5 di detto Regolamento. Secondo il Giudice di legittimità, che ha annullato la decisione triestina, tali obblighi (informazione scritta e colloquio personale) sono essenziali ed imprescindibili per la legittimità della decisione di rinvio in altro Paese e sono immediatamente precettive, con carattere tassativo, perché stabilite direttamente dal Regolamento n. 604.
La Cassazione richiama la giurisprudenza amministrativa formatasi nel regime previgente la riforma del 2017, evidenziando che gli obblighi di fornire informazioni scritte ed il colloquio personale non si pongono tra loro in alternatività, ma devono essere entrambi assolti concretamente, irrilevante qualsiasi altra conoscenza assunta al di fuori di essi e tantomeno invocabile la presunzione di conoscenza. Vengono, dunque, censurati i richiami del giudice giuliano ai principi secondo i quali i vizi formali del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale non incidono sul dovere dell’autorità giudiziaria di esaminare nel merito la domanda, in quanto principi posti a garanzia del diritto del richiedente asilo e non a suo sfavore ed in quanto i doveri del Regolamento n. 604 costituiscono «una informativa non strettamente limitata al contenuto dei singoli atti del procedimento, ma comprendente tutti i diritti e le prerogative del richiedente asilo, tanto con riferimento allo svolgersi del procedimento, quanto in relazione alla sua capacità di orientarne l’esito, fornendo all’autorità informazioni rilevanti ai fini della determinazione dello Stato competente all’esame della sua domanda di protezione internazionale».
Solo un’informazione effettiva, pertanto, può condurre ad una decisione effettivamente motivata, con cui si dispone o meno il rinvio del richiedente asilo verso lo Stato astrattamente competente alla sua domanda di asilo. Il principio di diritto affermato nella ordinanza in esame è, dunque, questo: «Nei confronti dello straniero sottoposto a procedimento di trasferimento presso altro Stato membro dell’Unione europea che sia competente ad esaminare la sua domanda di protezione internazionale vanno sempre assicurate le specifiche garanzie informative e partecipative previste dagli artt.4 e 5 del Regolamento UE 604/2013, che sono finalizzate ad assicurare l’effettività dell’informazione e l’uniformità della stessa, e del trattamento del procedimento di trasferimento, in tutto il territorio dell’Unione europea. Ne consegue la nullità del provvedimento di trasferimento adottato all’esito di un procedimento in cui non siano state rispettate le prescrizioni di cui ai richiamati artt. 4 e 5 del Regolamento UE 604/2013, senza che possa darsi rilievo all’eventuale conoscenza aliunde conseguita dallo straniero circa le sue garanzie e prerogative in relazione al procedimento di cui si discute. Non rileva, ai fini della nullità del provvedimento finale, la mancata allegazione o dimostrazione, da parte dell’interessato, di uno specifico vulnus al suo diritto di azione e difesa in giudizio, poiché il rispetto delle prescrizioni del Regolamento UE 604/2013, alla luce delle superiori esigenze di assicurazione del trattamento uniforme della procedura di trasferimento in tutto il territorio dell’Unione europea che le ispirano, è rimesso alla buona prassi delle autorità degli Stati membri e non può essere condizionato dalle modalità con cui, in concreto, i singoli interessati reagiscono rispetto alle eventuali violazioni della predetta normativa eurounitaria».
Per analoghe decisioni che censurano la violazione degli obblighi informativi nei provvedimento di rinvio c.d. Dublino, si vedano le precedenti Rassegne, in particolare nel fascicolo 1/2020, che richiamano anche decisioni assunte dalla giustizia amministrativa.
LE MISURE DI ACCOGLIENZA
Con due sentenze rese a poca distanza l’una dall’altra (n. 4582/2020 e n. 4948/2020) il Consiglio di Stato interviene sulla questione della cessazione delle misure di accoglienza nel SIPROIMI per il titolare di protezione umanitaria, nel regime successivo alla riforma di cui al d.l. 113/2018 (che ha escluso dal sistema SIPROIMI i richiedenti asilo ed anche i titolari del permesso umanitario).
Dopo una ricostruzione del sistema di accoglienza, il giudice amministrativo di secondo grado, esclude che il titolare di permesso umanitario possa aspirare ad entrare e/o a rimanere nel sistema di accoglienza c.d. di secondo livello dopo la riforma al d.lgs. 142/2015 operata dal d.l. n. 113/2018. Precisa l’Alto consesso che trattasi di «cessazione di effetti, ex art. 14, co. 4, d.lgs. n. 142/2018, per il raggiungimento dello scopo voluto dal Legislatore, ovvero assicurare l’accoglienza per il tempo necessario all’esame della domanda di protezione internazionale, e non, invece, di revoca ai sensi dell’art. 23, per le ipotesi tipizzate di violazioni gravi, abbandono del Centro, mancata presentazione all’audizione davanti all’organo di esame della domanda, etc.», che non richiede nemmeno la comunicazione dell’avvio del procedimento (ex art. 7, l. 241/90 e s.m.), perché delle modalità e dei presupposti dell’accoglienza il richiedente asilo è informato all’inizio della procedura amministrativa per il riconoscimento della protezione internazionale (art. 3, d.lgs. 142/2015).
Decisioni che paiono applicare formalmente le nuove previsioni normative del 2018, senza farsi carico della questione dell’applicazione retroattiva, o meno, delle stesse e/o della loro legittimità costituzionale, di cui invece si occupa il Tar per il Lazio, con l’ordinanza cautelare n. 4529/2020, con cui è stato sospeso il provvedimento di rifiuto di inserimento nel SIPROIMI di titolare di protezione umanitaria vulnerabile, con ordine alla prefettura di riesaminare la domanda, trattandosi di richiesta formulata prima dell’entrata in vigore della riforma del 2018. L’ordinanza cautelare del Tar Lazio richiama l’ordinanza n. 172/2020 del Tar Marche, che ha rinviato alla Corte costituzionale per sospetta illegittimità delle nuove previsioni se applicate retroattivamente al richiedente asilo che ha chiesto l’inserimento nello SRAR (poi SIPROMI) precedentemente alla riforma del d.l. n. 113/20218.
Sempre in relazione al diniego o alla cessazione delle misure di accoglienza per i titolari di protezione umanitaria, a seguito dell’entrata in vigore della riforma di cui al d.l. n. 113/2018, è intervenuto anche il Tar Puglia, Lecce, con sentenza n. 678/2020, che ha annullato la decisione del Servizio centrale del SIPROMI di rifiuto di inserimento nella struttura di secondo livello ad un titolare di protezione umanitaria per effetto della suddetta riforma. Il Tar pugliese richiama la decisione della Corte di cassazione a Sezioni Unite n. 29460/2020, che ha dichiarato l’irretroattività della abrogazione della protezione umanitaria nei procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale iniziati prima della riforma del 5 ottobre 2018, e ricorda la natura dichiarativa e non costitutiva (anche) della protezione umanitaria, arrivando alla conclusione che le misure di accoglienza afferiscono alla medesima condizione giuridica sorta prima della riforma del 2018 e dunque inapplicabile. Il Tar evidenzia che, diversamente opinando, il tempo impiegato per il riconoscimento della protezione internazionale in base a domanda inoltrata dal richiedente asilo prima della riforma «si ritorcerebbe ingiustamente in danno dello stesso, in evidente violazione dei principi costituzionali di effettività della tutela giurisdizionale e di uguaglianza sostanziale (artt. 24 e 3 Cost.)». Vengono richiamate analoghe pronunce di altri Tar (cfr., ex plurimis, Tar Toscana, 12.5.2020, n. 564; Tar Brescia, 11.6.2020, n. 443; Tar Venezia, 20.12.2019, n. 1395) che danno rilievo alla data di presentazione della domanda di protezione internazionale e non alla data di richiesta di inserimento nel sistema SIPROIMI, ponendosi il Tar Lecce in esplicito dissenso.