LO STATUS DI RIFUGIATO
Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
Il
Tribunale di Milano, con decreto del 17.2.2021
, ha riconosciuto lo
status di rifugiata ad una donna della Guinea, vissuta sin da piccola in Costa D’Avorio, perché vittima di atti di persecuzione sotto forma di violenza di genere ed appartenente al “gruppo sociale” delle vittime di
mutilazione genitale femminile e di tratta di esseri umani. Molto interessante quanto precisato in merito al rischio in caso di rimpatrio:
le domande relative alla FGM non riguardano unicamente le richiedenti protezione che temono di dover affrontare una minaccia imminente di essere sottoposte alla pratica, bensì anche donne e ragazze che sono state già oggetto di violenza e di discriminazione e, in quanto tali, sono persone fragili ed esposte ad ulteriore violenza e discriminazione in caso di rimpatrio. Nel decreto in esame, i giudici meneghini hanno applicato il ragionamento relativo alle cosiddette compelling reasons, formulato dall’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati, in forza del quale ci sono circostanze in cui, per ragioni di straordinaria gravità e nei casi di atroce persecuzione subita o conseguenti durevoli effetti psicologici e traumatici della stessa, è la stessa persecuzione passata a fondare il presupposto per il riconoscimento della protezione internazionale.
Ancora il
Tribunale di Milano, nel decreto del 10.2.2021
, si sofferma sulla definizione di «particolare gruppo sociale», alla luce dell’interpretazione letterale dell’art. 10 della direttiva 2011/95/UE e del diverso orientamento dell’UNHCR, per affermare che un uomo pakistano, vittima di sfruttamento lavorativo, appartiene al gruppo sociale, ben identificabile, molto numeroso ed anche geograficamente localizzato, di persone soggette a
schiavitù lavorativa. Nella decisione in esame si precisa che la schiavitù lavorativa è una «storia comune» a milioni di persone in Pakistan: si tratta di persone la cui storia è «immutabile», nel senso che esse, per ragioni di grave vulnerabilità, non sono in grado di uscire dalla situazione di schiavitù per propria decisione o propria scelta, perché non possono ricevere protezione dallo Stato pachistano che, secondo le specifiche ed aggiornate fonti esaminate dal Collegio, non è in grado di governare ed eradicare il fenomeno.
Il
Tribunale di Bologna, con decreto del 15.7.2021
ha riconosciuto lo
status di rifugiato ad un uomo del Senegal il quale, con dichiarazioni ritenute credibili dal Tribunale anche in presenza di alcune contraddizioni, ha riferito di essersi
prostituito con «turisti bianchi» e di essere stato
ritenuto omosessuale dalla propria famiglia e dalle autorità statuali. I giudici bolognesi hanno riconosciuto la protezione maggiore espressamente precisando come sia irrilevante che il ricorrente, a prescindere dalle esatte caratteristiche recate dall’identità di genere, abbia l’effettiva intenzione di condurre uno stile di vita coerente rispetto a tale orientamento sessuale ove emerga la prova che nel Paese d’origine egli sarebbe percepito come omosessuale, in quanto questo basterebbe ad innescare condotte discriminatorie e persecutorie da parte della famiglia e delle autorità.
Sull’orientamento omosessuale di un ricorrente proveniente dalla Nigeria si sofferma la Corte di cassazione, con ordinanza n. 21394/2021 che, cassando la decisione del Tribunale di Milano, chiarisce come l’assunto per cui l’appartenenza ad un orientamento omosessuale debba rispondere ad uno schema di «consapevolezza sofferta, di travaglio interiore, di confusione e smarrimento, di mancanza di serenità del soggetto», come opinato dai giudici di primo grado (e come sovente si legge nei provvedimenti resi all’esito di domande di protezione formulate in ragione dell’orientamento omosessuale del richiedente), risulti un’affermazione autoreferenziale che tradisce l’esistenza di un «giudizio morale, che risponde ad una mera opinione personale del giudicante».
Opinioni politiche
Il Tribunale di Bologna, con decreto del 29.5.2021, ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino cubano ritenuto dallo Stato cubano «dissidente» e «pericoloso socialmente» il quale, nel corso degli anni, aveva subito numerosi fermi ed arresti, in assenza di un mandato, privi della formalizzazione di un’accusa e senza che il ricorrente abbia commessa alcun reato. Le specifiche ed aggiornate fonti consultante dal Tribunale, in ossequio al dovere di cooperazione, rivelano come la qualificazione di persona pericolosa socialmente si fondi sul concetto di «pericolosità pre-criminale» presente nell’ordinamento cubano e definita come la «particolare propensione di una persona a commettere crimini, dimostrata da una condotta in palese contraddizione con le norme socialiste». Questo viene utilizzato principalmente come strumento per controllare comportamenti «antisociali», come l’abuso di sostanze o la prostituzione, e le autorità utilizzano tale detenzione contro i dissidenti politici.
I predetti arresti e fermi, ad avviso del Collegio bolognese, possono essere considerati atti – seppur di bassa intensità – di una pervasività tale da impedire al ricorrente l’esercizio delle proprie libertà democratiche e dei propri diritti, primo tra tutti quello alla libertà, alla sicurezza e ad un processo equo. Tali condotte sono, pertanto, assimilabili a persecuzione nel senso di violazione di un diritto umano fondamentale, in quanto considerate come la somma di diverse misure il cui impatto eserciterebbe sul richiedente un effetto analogo alla violazione grave dei diritti umani fondamentali.
Nel procedimento promosso dalla moglie del predetto ricorrente cubano – la quale aveva allegato il rischio di subire atti persecutori in conseguenza dell’attività di dissidente e dei fermi subiti dal marito – il
Tribunale di Bologna, con decreto del 29.5.2021
si sofferma sulla rilevanza del motivo rappresentato dal fatto che un familiare del richiedente abbia un fondato timore di persecuzione o corra un rischio effettivo di danni gravi, per concludere con una decisione di riconoscimento della protezione maggiore. Nella decisione in esame, il Tribunale evidenzia come occorra tenere conto delle
minacce incombenti su un familiare del richiedente al fine di determinare se il richiedente, a causa del legame familiare con detta persona minacciata, sia a sua volta esposto a minacce di persecuzione o di danni gravi. Doveroso il richiamo al considerando 36 della direttiva 2011/95, laddove rileva come i familiari di una persona minacciata rischino di norma di trovarsi, anch’essi in una situazione vulnerabile.
Il
Tribunale di Milano, con decreto del 20.1.2021
, ha riconosciuto lo
status di rifugiato ad un
cittadino iraniano di etnia curda perseguitato dal governo per il suo attivismo politico a sostegno della causa curda, portato avanti attraverso la composizione di
poesie a tema politico. I giudici meneghini, all’esito di un’istruttoria articolata attraverso la rinnovazione dell’audizione del ricorrente, la lettura dei testi delle poesie ed un’accurata analisi delle fonti sul Paese d’origine, hanno rilevato il chiaro contenuto politico delle poesie scritte, trattandosi di messaggi di invito al popolo curdo ad agire contro il governo iraniano e a battersi per i propri diritti. Tale attività di scrittura, portata avanti per un periodo di tempo di oltre vent’anni, rappresenta una concreta espressione di convinzioni politiche contrarie a quello delle autorità di governo del Paese di origine e giustifica, pertanto, il riconoscimento dello
status di rifugiato.
Il rischio di subire persecuzioni per le opinioni politiche giustifica, ad avviso del
Tribunale di Brescia (decreto del 14.7.2021)
, il riconoscimento dello
status di rifugiato ad un ricorrente della Guinea Conakry. Il richiedente, membro del partito UFDG, era rimasto coinvolto negli scontri del settembre del 2015 ed in esito agli stessi, era stato arrestato e poi torturato. Particolarmente interessanti le considerazioni relative all’attualità del pericolo di essere considerato un oppositore del Presidente Condè, compiute sulla base di aggiornate fonti di informazione che danno conto di un graduale peggioramento dei rapporti tra governo ed opposizione, definiti dallo stesso Presidente come una «guerra» tra il suo governo e gli oppositori.
Il
Tribunale di Bologna, con decreto del 26.4.2021
, ha riconosciuto lo
status di rifugiato ad un
cittadino palestinese, esponente del partito studentesco di Fatah, Al Shabibah Al Fatahwiyah, più volte aggredito, minacciato e trattenuto arbitrariamente dalle forze di sicurezza israeliane. Il ricorrente, con dichiarazioni ritenute dal Collegio interamente credibili, ha riferito di essere stato più volte fermato senza motivo ai
checkpoint per controlli, sequestrato in luoghi carcerari, senza un processo a suo carico e, dunque, privato della libertà personale. Ha riferito di essere stato trattenuto in celle anguste, privo di qualsiasi contatto con l’esterno e violentemente percosso. Il Collegio ha ritenuto che le umiliazioni, le aggressioni, gli arresti ripetuti nel tempo e le lesioni cagionate siano di una pervasività tale da integrare la persecuzione patita dal ricorrente, nel senso di violazione grave dei suoi diritti umani fondamentali. Nella decisione in esame si conclude evidenziando come il fatto che il ricorrente abbia già subito persecuzioni da parte di apparati delle forze di occupazione israeliane per la sua nazionalità e le sue opinioni politiche è indice grave del rischio che tali persecuzioni possano ripetersi in caso di rientro in patria, che, tutt’oggi, è ancora sottoposta a strenuo controllo da parte delle autorità israeliane.
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
D.lgs. 19.11.2007 n. 251, art. 14, lett. b)
La
Corte di cassazione, con ordinanza n. 20278/2021, ha cassato la decisione della Corte d’appello di Cagliari che aveva rigettato la domanda di protezione spiegata da un cittadino del Senegal, il quale aveva dedotto di essere fuggito per una condizione di grave indigenza economica ed a causa degli aspri
dissidi con i fratellastri i quali, dopo essersi appropriati dell’eredità, lo avevano minacciato e picchiato. Nella pronuncia in esame gli Ermellini ribadiscono come i giudici di merito siano tenuti a compiere un approfondimento istruttorio sul livello di tutela che lo Stato garantisce ai cittadini in ordine alle aggressioni ed alle minacce di privati, anche familiari, per evitare i gravi danni derivanti da trattamenti disumani e degradanti previsti come presupposti della protezione sussidiaria.
D.lgs. 19.11.2007 n. 251, art. 14, lett. c)
Nell’
ordinanza 19337/2021 la Suprema Corte si sofferma sui presupposti normativi della fattispecie disciplinata dall’art. 14 lett. c), d.lgs. 19.11.2007 n. 251 per ribadire come il requisito della minaccia grave e individuale alla persona derivante da violenza indiscriminata scaturente da una situazione di conflitto armato interno o internazionale, come da tempo affermato dalla Corte di giustizia C.G. 30 gennaio 2014, in causa C-285/12,
Diakitè, punto 10.3), può, sia pur eccezionalmente, rilevare non in relazione alla situazione personale quando il livello di violazione dei diritti umani raggiunge un livello così elevato che il rischio risulta in
reipsa. Nella decisione in esame, gli Ermellini precisano, ancora una volta, che, «sul piano strettamente logico, prima ancor che cronologico, l’accertamento di tale situazione deve precedere, prescindendone, e non seguire, qualsiasi valutazione sulla credibilità (e comunque sul contenuto delle dichiarazioni) del ricorrente».
Il
Tribunale di Torino, con decreto del 17.12.2020
e il
Tribunale di Roma, con decreto del 13.4.2021
hanno riconosciuto la protezione sussidiaria a cittadini provenienti dall’area
centro meridionale del Mali. Nelle decisioni in esame si legge che la situazione che emerge dalle fonti consultate dimostra il serio pericolo cui sono esposti i civili, oltre alla continua e radicata violazione dei diritti fondamentali della persona: elementi che rendono irrilevante la prova del rischio specifico che correrebbe il ricorrente nel caso di rientro nel Paese di origine.
Il
Tribunale di Milano, con decreto del 23.4.2021
ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un ricorrente proveniente da
Conakry. L’esame delle più aggiornate e pertinenti fonti di informazione ha consentito al Collegio di individuare due gruppi contrapposti sufficientemente delineati tra i quali si sviluppano scontri ricorrenti che prevedono l’utilizzo di armi da fuoco e che hanno come conseguenza il coinvolgimento deliberato di civili. Con riferimento agli ulteriori requisiti necessari per ritenere sussistente un contesto di violenza generalizzata nell’ambito di un conflitto armato interno, il Tribunale ha valutato anche l’estensione geografica del conflitto (che, pur concentrandosi nella sua massima violenza all’interno della capitale Conakry, vede già diversi ulteriori «focolai» nella Regione) ed il ruolo dello Stato (parte del conflitto ed incapace ad assumere condotte a difesa dei numerosi civili coinvolti, le cui abitazioni non costituiscono neppure più sicuro rifugio).
Nel
decreto del 10.2.2021 il Tribunale di Milano
si sofferma sulla determinazione del
luogo di rimpatrio, rilevante per la decisione sulla domanda di protezione internazionale spiegata da un ricorrente che aveva affermato di avere la cittadinanza ghanese e di aver vissuto sin dall’età di quattro anni in
Libia. Alla luce dei criteri di cui all’art. 3 del d.lgs. 251/2007, il Collegio ha ritenuto non credibili le dichiarazioni del ricorrente sulla cittadinanza ghanese, soffermandosi poi sulla questione del dubbio sulla cittadinanza dei richiedenti protezione. In ragione del lunghissimo periodo trascorso in Libia (circa 15 anni), i giudici meneghini hanno ritenuto che nel predetto Paese il ricorrente avesse la dimora abituale. Rispetto alla Libia è stato, pertanto, valutato il rischio in caso di rimpatrio per concludere che, alla luce della situazione di scontro, qualificabile come conflitto armato determinante una violenza generalizzata, fossero sussistenti gli elementi necessari ad integrare la fattispecie di danno grave
ex art. 14, lett. c), d.lgs. 251/2007.
QUESTIONI PROCESSUALI
Provvedimenti cautelari di sospensiva
La
Suprema Corte, con ordinanza n. 6745 del 10.3.2021, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da un richiedente protezione internazionale avverso la decisione di inammissibilità adottata dalla Commissione territoriale ai sensi dell’art. 28-
bis, co. 1, d.lgs. 25/2008 (nella versione
ratione temporis applicabile e dunque per il periodo tra 30.9.2015 ed il 3.12.2018), ha precisato che la predetta norma rivela come le procedure accelerate seguono, anche nella fase istruttoria endoprocedimentale, una scansione temporale diversa da quella ordinaria. Di conseguenza, i giudici di legittimità, hanno affermato che «la decisione di manifesta infondatezza della domanda potrà ritenersi adottata sulla base di una procedura accelerata solamente qualora il Presidente della C.T., a seguito della trasmissione degli atti da parte della questura, abbia deciso in tal senso e l’
iter procedimentale seguito abbia rispettato i termini raddoppiati dell’art. 28-
bis, co. 1 pur sempre contratti rispetto a quelli ordinari, previsti per l’audizione del richiedente e per l’adozione della decisione finale. Pertanto, la qualificazione peculiare della procedura come accelerata deve porsi come antecedente logico alla statuizione finale, non potendo discendere dalla mera formula di “manifesta infondatezza” contenuta nel provvedimento di rigetto. Diversamente, si determinerebbe un grave
vulnus all’esercizio del diritto di difesa endoprocedimentale del richiedente, anche ove lo stesso non si sia avvalso di difesa tecnica, essendo l’accertamento dell’autorità decidente diretta al riconoscimento di un diritto fondamentale, realizzato con la partecipazione ed il diretto ascolto del cittadino straniero, al quale non può essere negata la possibilità di conoscere preventivamente il modello procedimentale con il quale verrà esaminata la sua domanda, anche al fine di contestare l’eventuale erronea individuazione da parte del Presidente della Commissione e di esserne avvisato in sede di comunicazione dell’esito». Il termine dimezzato di 15 giorni potrà operare, pertanto, solamente ove la procedura sia stata addotta sin dall’inizio nelle forme accelerate; in tutti gli altri casi, anche in presenza di un rigetto per manifesta infondatezza, il termine di ricorso sarà quello ordinario (nello stesso senso si sono pronunciati anche il
Tribunale di Napoli, con decreto del 13.7.2021
ed il
Tribunale di Firenze, con decreto del 26.7.2021
.
Procura alle liti
Le
Sezioni Unite della Corte di cassazione, con sentenza n. 15177 del 1.6.2021 – al fine di comporre il contrasto di giurisprudenza sui «problemi interpretativi in ordine alle modalità di rilascio della procura speciale per la proposizione del ricorso per Cassazione in materia di protezione internazionale» – dopo aver esaminato la disciplina contenuta nell’art. 35-
bis, co. 13, d.lgs. 25/2008 per valutarne la compatibilità con i parametri costituzionali ed il diritto dell’Unione, ha affermato che la norma, nella parte in cui prevede che la procura alle liti per la proposizione del ricorso per Cassazione deve essere conferita, a pena di inammissibilità del ricorso, in data successiva alla comunicazione del decreto impugnato, e che a tal fine il difensore certifica la data di rilascio, richiede, «quale elemento di specialità» rispetto alle ordinarie ipotesi di rilascio della procura, il requisito della posteriorità della data rispetto alla comunicazione, prevedendo una speciale ipotesi di inammissibilità del ricorso. Le Sezioni Unite affermano che tale interpretazione della norma non violi né la disciplina del diritto dell’Unione (in relazione al principio di equivalenza e di effettività), né l’art. 6 della CEDU, né gli artt. 3 e 24 della Costituzione.
Subito dopo la pubblicazione della decisione delle Sezioni Unite, le sezioni semplici della Corte di cassazione, in ossequio ai principi di diritto affermati, hanno dichiarato inammissibili i ricorsi nei quali la procura, sebbene rilasciata in data successiva alla comunicazione del provvedimento impugnato, non conteneva alcuna espressione dalla quale risultasse che il difensore aveva inteso certificare che tale data fosse successiva alla comunicazione del provvedimento impugnato (solo a titolo di esempio, non disponendo di tutte le moltissime decisioni di inammissibilità adottate dalla Suprema Corte all’indomani della decisione delle Sezioni Unite, si veda
Cass. 17474/2021,
Cass. 18145/2021.
Con
ordinanza n. 17970 del 23.6.2021, la Terza sezione civile della Corte di cassazione si è interrogata sulla possibilità che la previsione normativa della necessità della certificazione dell’autenticità della data di rilascio della procura da parte del difensore a pena di inammissibilità del ricorso, limitatamente ai procedimenti di protezione internazionale (come interpretata dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 1577/2021) si ponesse in contrasto con l’art. 3 Cost. (inteso come principio di ragionevolezza, quale corollario del principio di eguaglianza), con l’art. 10 Cost. (sotto il profilo della tutela dei richiedenti asilo, quanto all’asserita necessità che i predetti siano presenti sul territorio nazionale al momento della presentazione del ricorso in Cassazione), con l’art. 24 Cost. (per lesione del diritto inviolabile di difesa riconosciuto, indiscriminatamente, a cittadini e stranieri), con l’art. 111 Cost. (poiché la norma, così come interpretata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 15177 del
2021, potrebbe violare il principio del giusto processo) e con l’art. 117 Cost., in relazione alla direttiva 2013/32/UE, con riferimento all’art. 46 (Diritto ad un ricorso effettivo: in particolare, p. 11, in tema di condizioni poste dagli Stati membri perché si possa presumere che il richiedente asilo abbia implicitamente ritirato o rinunciato al ricorso) e all’art. 28 (presunzione di rinuncia), all’art. 47 della Carta dei diritti UE, agli artt. 18 e 19, p. 2 della medesima Carta e agli art. 6, 7,
13 e
14 CEDU.
La decisione di rimettere la questione alla Corte costituzionale è frutto, come si legge nell’articolata ordinanza della Terza sezione, di un attento esame dei requisiti di rilevanza e di non manifesta infondatezza. Particolarmente interessante quanto osservano gli Ermellini in merito al principio di equivalenza. Se infatti, nel paragrafo 61 della decisione delle Sezioni Unite, era stato affermato che l’introduzione di un meccanismo di accesso alla Cassazione diverso da quello ordinariamente previsto dal codice di procedura civile per materie non regolate dal diritto UE non integra ex se alcuna violazione del principio di equivalenza, «per l’assorbente ragione che non vi è alcuna materia regolata dal diritto interno omogenea a quella della protezione internazionale e dell’asilo che qui viene precipuamente in discussione e che goda di una tutela maggiormente protettiva con riguardo alla proposizione del ricorso per Cassazione», nell’ordinanza di rimessione in commento ci si sofferma sulla scrupolosa ricerca di una «giustificazione della specialità del diritto alla protezione internazionale» per concludere che, quanto ad oggetto, causa ed elementi essenziali, i caratteri di omogeneità possono essere rinvenuti nei procedimenti attributivi di uno status, nel procedimento di apolidia (in particolare) e nel procedimento in tema di protezione umanitaria. Di conseguenza il d.lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, co. 13, pone, in guisa di diritto vivente, alla luce del predetto giudizio di equivalenza, «seri dubbi di costituzionalità in quanto introduce, per una determinata categoria di stranieri, un regime processuale peggiorativo – perché comportante un esercizio del diritto di azione più gravoso, con riferimento alle modalità di conferimento della procura e alle conseguenze derivanti dalla loro inosservanza – non solo rispetto a quello riservato ai cittadini, o ancora a quello applicabile per gli altri stranieri che agiscano davanti al giudice italiano (ai quali, secondo la giurisprudenza di legittimità, è, invece, consentito il rilascio del mandato ad litem nella forma prevista dall’art. 83 c.p.c., “dovendosi presumere la loro presenza nello Stato italiano, che costituisce il presupposto per la validità della procura medesima, dall’attestazione del procuratore che ne autentica la sottoscrizione”: Cass., sez. 6-1, ordinanza n. 665 del 13.1.2011), ma anche all’interno delle medesime categorie di soggetti – gli apolidi, i richiedenti la protezione umanitaria – senza che tale differenziazione in pejus risulti sorretta da alcuna giustificazione logica o razionale».
Domande reiterate
Con
decreto del 30.7.2021, il Tribunale di Brescia,
decidendo su una domanda reiterata proposta da un cittadino della Costa D’Avorio, si sofferma sull’interpretazione dell’art. 40, par. 4, della direttiva 2013/32/CE. Nella decisione in esame il Tribunale – non prendendo posizione in merito all’omesso recepimento della disposizione che richiede l’assenza di colpa nella proposizione della domanda reiterata – afferma che può considerarsi «legittimo», e dunque «privo di colpa» il silenzio del ricorrente sui fatti antecedenti alla partenza dal Paese d’origine, non solo se trattasi di fatti non conosciuti o non «dominati adeguatamente in termini cognitivi», ma anche se i fatti appartengono ancora all’«indicibile», «per il trauma prodotto e per le tracce permanenti di questo nella psiche del soggetto».
Ancora in merito all’ammissibilità di una domanda reiterata proposta da una cittadina nigeriana che ha affermato di essere vittima di tratta, il
Tribunale di Brescia, con decreto del 25.3.2021
, ha precisato come la «tardiva allegazione di nuove circostanze» relative alla tratta non portino a ritenere inammissibile la domanda, atteso che si deve tenere conto della «naturale ritrosia delle donne vittime di tratta a narrare degli aspetti più intimi e delicati del proprio vissuto, le cui difficoltà possono plausibilmente giustificarsi in ragione del timore di esporsi a giudizi e dell’evidente disagio nel rievocare situazioni ed eventi di profonda sofferenza fisica e psicologica».
Audizione del ricorrente
La
Corte di cassazione, con ordinanza n. 18311/2021, dopo aver richiamato i principi affermati dalla Suprema Corte in merito all’audizione, ha precisato che il «dovere di audizione» indicato dalla giurisprudenza di legittimità preveda comunque un margine di apprezzamento da parte del giudice di merito. In particolare, gli Ermellini hanno affermato che il ricorrente potrà far valere in sede di legittimità l’
errorin procedendo consistente non già nella propria mancata audizione (vizio non configurabile in presenza della discrezionalità rimessa al giudice con riferimento all’espletamento dell’incombente richiesto), quanto, piuttosto, nell’assenza della motivazione, nella motivazione illogica o nella motivazione recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice stesso per la formazione del proprio convincimento. La denuncia del vizio, prosegue la Corte, deve essere «vestita» con la rappresentazione dei fatti che il giudice avrebbe dovuto prendere in considerazione per vagliare la richiesta di audizione.
Nella pronuncia in esame si afferma, inoltre, che il rigetto dell’istanza di audizione potrà ritenersi motivato ove il giudice dia conto, in modo coerente e comprensibile, che i nuovi fatti dedotti dal ricorrente siano del tutto privi di rilevanza ai fini del riconoscimento delle forme di protezione invocate, o che la pronosticata manifesta infondatezza della domanda non avrebbe potuto essere superata con l’espletamento dell’incombente e la conseguente acquisizione dei chiarimenti che l’attore si era offerto di fornire. La Suprema Corte ha precisato, altresì, come il giudice sia tenuto a valutare l’opportunità di dar corso all’audizione pur in assenza di una iniziativa della parte non solo in ossequio alla regola posta dall’art. 117 c.p.c., ma in considerazione degli «ampi poteri istruttori di cui dispone il giudice chiamato a pronunciarsi sulla domanda di protezione internazionale».
Cause ostative
La
Corte di cassazione, con ordinanza n. 23290/2021, pronunciandosi in merito alla clausola di esclusione di cui all’art. 1F della Convenzione di Ginevra, ha confermato la decisione del Tribunale di Ancona che aveva rigettato le domande volte ad ottenere le protezioni maggiori, confermando il provvedimento della Commissione territoriale che aveva riconosciuto la protezione umanitaria. In particolare il ricorrente aveva allegato di aver partecipato, nel 1981, al dirottamento di un areo (in esito al quale era morto un diplomatico) su iniziativa del «Movimento per la Restaurazione della Democrazia», eseguito per liberare 54 prigionieri politici. La Corte di cassazione ha sottolineato come il delitto commesso dal ricorrente – che ha provocato la morte di una persona inerme ed ha esposto a pericolo l’elevato numero di persone a bordo dell’aereo – si connoti come «grave» e «crudele». Nella pronuncia in esame, in merito alla censura svolta dal ricorrente in merito al fatto che il dirottamento avrebbe consentito la liberazione di un cospicuo numero di oppositori politici, si legge che «la soppressione della vita non legittima e nega in radice qualsivoglia connotazione, proiezione e finalità politica: la salvaguardia della vita è causa e fine dell’azione politica. E tanto, ben vero, nel segno del principio “personalista”, irrinunciabile principio ispiratore della Costituzione del ‘48, alla cui stregua – si è scritto – non è “l’uomo in funzione dello Stato ma quest’ultimo in funzione dell’uomo”».
Ancora sulla clausola ostativa si è pronunciata la
Suprema Corte nell’ordinanza n. 17554/2021, precisando come l’art. 16 del d.lgs. 251/2007 richieda espressamente la sussistenza di «
fondati motivi» per ritenere che lo straniero possa essersi macchiato di uno dei crimini indicati dal primo comma, ovvero che possa averne istigato la commissione o concorso alla stessa. Più in generale, nella pronuncia in esame, la Corte di cassazione ha affermato che tutta la normativa in tema di protezione internazionale impone che la pericolosità del soggetto sia valutata in concreto, e non in termini meramente astratti o ipotetici, ravvisando un principio generale, alla luce del quale ogni qualvolta il legislatore preveda che lo straniero ritenuto pericoloso o indesiderabile, alla luce del suo personale vissuto o della sua condotta, non possa entrare, soggiornare o rimanere, sul territorio nazionale, o debba essere allontanato dallo stesso, la sussistenza del requisito della pericolosità, ovvero delle condizioni che l’ordinamento abbia predeterminato per fondare il giudizio di indesiderabilità, vada accertata in concreto ed all’attualità, anche quando la norma individui specifiche condotte, o precedenti, che il legislatore abbia ritenuto
ex se indicativi ai fini del predetto giudizio. In forza di tali premesse, gli Ermellini concludono che la ricorrenza di una o più delle ipotesi che, ai sensi del primo comma dell’art. 16 del d.lgs. n. 251 del 2007, costituiscono causa ostativa al riconoscimento della protezione sussidiaria «debba essere accertata in concreto, in base ad elemento di fatto che siano idonei a fondare un giudizio probabilistico o presuntivo che non trasmodi in mera ipotesi».
LA PROTEZIONE UMANITARIA
Protezione umanitaria e criteri di valutazione: la comparazione secondo le Sezioni Unite
Nel n. 1/2021 della Rivista si era dato conto del rinvio disposto, con ordinanza n. 28316/2020, alle Sezioni Unite, a cui la VI sezione-1^ della Corte di cassazione proponeva una possibile rivisitazione dei criteri per il riconoscimento della protezione umanitaria, nel regime normativo anteriore alla riforma del d.l. n. 113/2018, con particolare riguardo al valore da attribuire all’integrazione sociale e alla necessità, di cui dubitava, di mantenere il criterio della comparazione tra la condizione attuale del/della richiedente asilo e il rischio di violazione dei diritti fondamentali in caso di rientro nel Paese di origine. Problematiche determinate anche dalla novella legislativa recata dal d.l. n. 130/2020 che, modificando radicalmente l’istituto della protezione speciale, ha, tra le altre innovazioni, attribuito importanza all’integrazione sociale in Italia, la cui interruzione può determinare in sé una lesione al diritto al rispetto della vita priva e familiare.
Questioni alle quali ha dato risposta la
sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 24413/2021 che, dopo avere ricostruito l’impianto normativo chiarendo che al caso in esame non si applica né il regime introdotto dal d.l. n. 113/2018 (
ex SU n. 29459/2019), né quello successivo innovato con d.l. n. 130/2020 (
ex art. 15 del medesimo), bensì l’art. 5, co. 6 TU 286/98 originario (antecedente, cioè, l’abrogazione del 2018), ha innanzitutto ribadito che la protezione umanitaria è fattispecie distinta e autonoma rispetto alle due forme di protezione internazionale e che essa non trova fonte direttamente nel diritto dell’Unione europea, che si limita a prevederne la possibilità rinviando alla discrezionalità degli Stati membri. Nell’ordinamento nazionale italiano la fonte è nell’art. 5, co. 6 TU 286/98, attuativo del diritto d’asilo di cui all’art. 10, co. 3 della Costituzione (Cass. 30658/2018), riconoscibile a fronte di situazioni di vulnerabilità non tipizzate ma a «catalogo aperto» e «non necessariamente riconducibili ad un
minus» rispetto alla protezione internazionale (Cass. 23604/2017 e 28990/2018 tra le tante).
Tanto premesso, la pronuncia in esame richiama il fondamentale approdo a cui è giunta la Cassazione con la sentenza n. 4455/2018 che, con particolare riguardo al valore da attribuire all’integrazione sociale del richiedente asilo in Italia, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, ha indicato la necessità di effettuare una valutazione comparativa tra essa e il rischio di «privazione della titolarità e dell’esercizio di diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo della dignità umana» a cui il/la richiedente andrebbe incontro in caso di rimpatrio.
Criterio di valutazione che con le successive pronunce è stato declinato in termini non sempre coincidenti, distinguendosi quelle per le quali anche un elevato grado di integrazione non era di per sé sufficiente per la tutela umanitaria in difetto del rischio di vulnerabilità nel Paese di origine (Cass. n. 17072/2018 e n. 11110/2019) e quelle, invece, che hanno introdotto il principio della «comparazione attenuata» in presenza di una situazione di «particolare o eccezionale vulnerabilità» del richiedente (Cass. n. 1104/2020 e n. 20894/2020).
Ed è per comporre tale diverso orientamento giurisprudenziale che è stato chiesto l’intervento nomofilattico delle Sezioni unite, in quanto l’ordinanza di rimessione n. 28316/2020 ha proposto una tesi che, come si legge nella sentenza 24413/2021, «prospetta una lettura del sistema che sviluppa fino alle estreme conseguenze le implicazioni concettuali del principio di “comparazione attenuata” e propone di superare del tutto la necessità, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, di una qualsivoglia comparazione tra la condizione dello straniero in Italia e la condizione in cui lo straniero si troverebbe tornando nel proprio Paese di origine.» (p. 11), in quanto il rimpatrio in sé rappresenterebbe un’ingiustificata violazione del diritto alla vita privata e familiare, ex art. 8 CEDU, irrilevante il rischio nel Paese di origine.
Rispetto a tale questione, la risposta delle Sezioni unite è negativa, poiché conferma l’attualità della comparazione, ritenendo irrilevanti le modifiche alla protezione speciale introdotte dal d.l. n. 130/2020, in quanto per espressa previsione normativa la riforma è inapplicabile al giudizio di Cassazione (art. 15), né può applicarsi un criterio interpretativo-estensivo né analogico che di fatto vada oltre le statuizioni del legislatore (cfr. paragrafi da 25 a 34).
Tuttavia, la sentenza offre importanti precisazioni che chiariscono meglio i «contorni della comparazione che il giudice è chiamato a compiere … tra la situazione che il richiedente lascerebbe in Italia e quella che egli troverebbe nel suo Paese di origine.».
Partendo dalla pronuncia 4455/2018 e dalla necessità che la comparazione colga il rischio di «un’effettiva e incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.)», le Sezioni unite collegano tale criterio valutativo alla dignità della persona di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione e affermano che il suo centro sta proprio nel rispetto dei diritti fondamentali, tra i quali non può non comprendersi anche l’art. 8 CEDU. Diritto convenzionale che va declinato, precisa la sentenza, separatamente in riferimento alla vita privata o a quella familiare (Corte EDU 14.2.2019 Narijs c. Italia), ove la prima è costituta dall’insieme delle relazioni – economiche, familiari, sociali – costruite dal richiedente in Italia «le quali pure concorrono a comporre la “vita privata” di una persona, rendendola irripetibile, nella molteplicità dei suoi aspetti, «sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».
Il fondamento costituzionale della protezione umanitaria e il collegamento con gli artt. 2 e 3 della Costituzione consente, secondo le Sezioni unite, di comprendere «il senso e la tecnica della comparazione da effettuare tra ciò che il richiedente lascia in Italia e ciò che egli troverà nel suo Paese di origine, dovendo cioè valutarsi, nel giudizio sulla vulnerabilità, non solo il rischio di danni futuri – legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante (ri)troverà nel Paese di origine – ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, di professionalità maturate, di osmosi culturale riuscita.».
Facendo proprio il criterio della proporzionalità inversa già affermato da Cassazione n. 1104/2020 (nei casi in cui sia accertata la vulnerabilità conseguente alle violenze già subite, minor peso avrà la verifica delle condizioni nel Paese di origine), la sentenza 24413/2021 afferma che esso «è sussumibile in terminigenerali quale paradigma del modello di comparazione, c.d. attenuata [ndr: nostra sottolineatura], da svolgere per verificare la sussistenza dei presupposti della protezione umanitaria.», con la conseguenza che, nell’esame caso per caso delle singole domande e fermo restando che l’integrazione da sola non è sufficiente a riconoscere la tutela, «la valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alle condizioni soggettive e oggettive del richiedente nel Paese di origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano.» (p. 23).
Qualora, dunque, la situazione nel Paese di origine sia di deprivazione dei diritti fondamentali tali da non soddisfare i bisogni primari (da accertarsi in cooperazione istruttoria con il richiedente) l’integrazione sociale avrà minore o nessun peso ai fini comparativi, essendo sufficiente detta deprivazione e ciò in quanto «l’integrazione sociale non costituisce una condicio sine qua non della protezione umanitaria, bensì uno dei possibili fatti costitutivi del diritto a tale protezione, da valutare, quando sussista, in comparazione con la situazione oggettiva e soggettiva che il richiedente ritroverebbe tornando nel suo Paese di origine, anche – con riguardo alla situazione soggettiva – sotto il profilo della permanente sussistenza di una rete di relazioni affettive e sociali» (p. 24).
Per contro, afferma la Cassazione «in presenza di un livello elevato d’integrazione effettiva nel nostro Paese – desumibile da indici socialmente rilevanti quali la titolarità di un rapporto di lavoro (pur se a tempo determinato, costituendo tale forma di rapporto di lavoro quella più diffusa, in questo momento storico, di accesso al mercato del lavoro), la titolarità di un rapporto locatizio, la presenza di figli che frequentino asili o scuole, la partecipazione ad attività associative radicate nel territorio di insediamento – saranno le condizioni oggettive e soggettive nel Paese di origine ad assumere una rilevanza proporzionalmente minore» (p. 24).
Il principio di diritto affermato, conclusivamente, dalle Sezioni unite è di enorme importanza ed è il seguente:
«In base alla normativa del TU imm. anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. 113 del 2018, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia. Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano. Situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese di origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d’origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 della Convenzione EDU, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5 TU cit., per riconoscere il permesso di soggiorno».
Protezione umanitaria e necessità di effettiva comparazione
Sempre in relazione alla necessità di comparazione tra condizione vissuta dal richiedente asilo in Italia e rischio di compromissione dei diritti umani in caso di rientro, da effettuarsi in concreto caso per caso, si vedano anche le ordinanze della
Cassazione n. 19968/2021,
n. 18687/2021 e
n. 20218/2021. In particolare, quest’ultima offre ampie argomentazioni in ordine alla necessaria
individualizzazione del rischio in caso di rientro nel Paese di origine, avuto riguardo alla storia di vita del richiedente asilo e allo sviluppo della sua personalità «indipendentemente dalla circostanza che tale compromissione possa farsi risalire (o meno) a fattori di natura economica, politica, sociale, sanitaria; culturale, etc».
Secondo la Cassazione, infatti, «il giudizio fermato sull’entità della degradazione che l’interessato sarebbe destinato a subire a seguito del rimpatrio chiede d’essere calibrato in rapporto alle modalità concrete e irripetibili della vicenda esistenziale di quella specifica persona, sì che l’esame del modo della compromissione del c.d. nucleo ineliminabile della dignità personale (e dunque il senso della sua specifica “vulnerabilità”) consisterà propriamente nella verifica del grado di aggressione (“qualitativa”) della dignità di quella singolare ed unica esperienza individuale, sì da non potersi astrattamente escludere che, con riguardo a uno stesso Paese, l’esame diretto al riconoscimento della protezione umanitaria possa anche condurre ad esiti diversi in rapporto a storie di vita differenti e non commensurabili; e ciò, non già in forza di un’inammissibile (e inaccettabile) graduazione qualitativa della dignità umana, bensì in ragione dell’inevitabile conformazione di quest’ultima (anche) in correlazione ai differenti percorsi di vita che sostanziano in modo irripetibile il senso dell’identità individuale, da valutarsi anche in relazione alla situazione psico-fisica attuale del richiedente e al contesto culturale e sociale di riferimento (v., in tal senso, sez. I, ordinanza n. 13088 del 15.5.2019, Rv. 653884 - 02; e sez. I, ordinanza n. 1104 del 20.1.2020)».
Protezione umanitaria, criteri di riconoscimento, violenze nel Paese di transito (Libia)
Con
ordinanza n. 25734/2021 la Corte di cassazione ha accolto il ricorso di un richiedente asilo del Mali, a cui la Corte d’appello di Venezia aveva negato ogni forma di protezione, ritenendo errata la motivazione in relazione al mancato riconoscimento della protezione umanitaria.
Preliminarmente, merita attenzione anche la parte della pronuncia in cui, rigettando il vizio sollevato dal ricorrente in relazione al giudizio di non credibilità, la Cassazione ricorda che esso non può basarsi su singoli frammenti delle dichiarazioni ma deve riguardare il loro insieme e che una mera discordanza cronologica dei fatti non è sufficiente per escludere la credibilità quando non siano messi in dubbio i fatti stessi. Ricorda, infine, che il giudizio di Cassazione non può investire il merito della valutazione effettuata dal giudice a quo, a meno che la motivazione violi il «minimo costituzionale» e si discosti dai criteri legali indicati dalla vigente normativa.
Nello specifico della protezione umanitaria – negata dalla Corte veneta per difetto di credibilità della narrazione del richiedente, per mancata dimostrazione di un irreversibile integrazione nel tessuto sociale e culturale italiano e, infine, perché ritenute irrilevanti le violenze subite in un lungo arco temporale in Libia –, la Cassazione censura radicalmente la sentenza d’appello, sulla base di un’articolata e importante motivazione.
Innanzitutto, viene ribadita la diversa incidenza del giudizio sulla credibilità soggettiva per il riconoscimento della protezione internazionale (basata su un fondato timore o rischio individualizzato, personale e diretto) rispetto alla protezione umanitaria, per la quale può anche prescindersi dalla credibilità in quanto trova la sua fonte nell’art. 10, co. 3 della Costituzione, che richiede l’accertamento dell’impedimento delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione italiana. Pertanto, una volta che il richiedente abbia allegato i fatti costitutivi del diritto, sorge l’obbligo per il giudice, ex art. 8, co. 3 d.lgs. 25/2008, di cooperare nell’accertamento della situazione nel Paese di origine (Cass. n. 28435/2017, n. 18535/2017 e n. 25534/2016), non trovando spazio motivazioni seriali e di stile, trattandosi di vicende che afferiscono a diritti fondamentali della persona.
Dovere del giudice, dunque, è di acquisire, e indicare, specifiche informazioni sul Paese di origine «ma senza incorrere nell’errore di utilizzare le fonti informative che escludano (a torto o a ragione) l’esistenza di un conflitto armato interno o internazionale (rilevanti al solo fine di valutare la domanda di protezione internazionale sub specie dell’art. 14 lett. c) d.lgs. 251/2007) – al diverso fine di valutare la situazione del Paese di origine sotto l’aspetto della mancata tutela dei diritti umani e del loro nucleo incomprimibile – valutazione, questa, del tutto assente, nel provvedimento impugnato, che si limita a riportare il contenuto delle COI utilizzate al solo fine di escludere l’esistenza di un conflitto armato» (p. 10).
In altri termini, una COI può essere utilizzata per motivare l’esclusione di una situazione di violenza indiscriminata e diffusa ma per la protezione umanitaria il giudice deve indicare come e perché quella medesima COI escluda pure essa.
Il principio affermato, dunque, dalla Cassazione è il seguente: «in tema di protezione umanitaria l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del suo riconoscimento, occorre operare la valutazione comparativa della situazione oggettiva, oltre che eventualmente soggettiva, del richiedente asilo con riferimento al Paese di origine sub specie della libera esplicazione dei diritti fondamentali della persona, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza – pur senza che abbia rilievo esclusivo l’esame del livello di integrazione, se isolatamente ed astrattamente considerato – non potendo darsi seguito ad una risalente giurisprudenza di questa Corte (Cass. 21424/2016) che esige la presenza «di riscontri oggettivi tali da permettere una verifica sotto il profilo della attendibilità e della specificità (così confondendosi la rilevanza probatoria delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia in sede penale con quelle di un richiedente asilo, che ben possono essere ritenute credibili alla luce della valutazione complessiva di un racconto privo di tali riscontri, ma integrato, se necessario, dal doveroso esercizio di poteri officiosi di indagine da parte del giudice di merito)».
La pronuncia in rassegna, inoltre, affronta il tema della rilevanza, esclusa dalla Corte veneta, della lunga permanenza del richiedente in Libia e delle violenze ivi subite e giunge alla censura della sentenza d’appello perché non ha tenuto conto che, ai sensi dell’art. 8 d.lgs. 2572008, è onere del giudice valutare la vulnerabilità del richiedente anche in relazione ai Paesi di transito qualora sia accertata in esso la violazione sistematica dei diritti fondamentali e non sia posto in dubbio che anche il richiedente ne sia stato vittima. In proposito richiama il principio espresso da Cassazione n. 13096/2019, secondo cui quella violazione sistematica rileva «quale elemento in grado di ingenerare nella persona un forte grado di traumaticità destinato ad incidere sulla condizione di vulnerabilità e ad essere quindi ostativa ad un rientro nel Paese di origine».
La vulnerabilità soggettiva, infatti, derivante da violenze sia fisiche che psichiche nel Paese di transito, va valutata in relazione alle conseguenze sulla persona e al rischio che l’abbandono del Paese di accoglienza ove è approdato rappresenti una nuova violenza e incida negativamente sulla sua «residua capacità di resilienza». In questo senso, pertanto, secondo la Cassazione è necessario che il giudice di merito applichi il criterio di valutazione comparativa attenuata.
Infine, la sentenza 25734/2021 censura la Corte d’appello veneta, che aveva escluso che il richiedente avesse dimostrato una «effettiva e irreversibile integrazione nel tessuto sociale e culturale» in Italia, nonostante abbia ampiamente documentato le prestazioni lavorative svolte. Secondo la Cassazione, infatti, «la pretesa prova dell’integrazione non è, né potrebbe essere, costituita da ciò che, con formula ripetitivamente stereotipata, la Corte d’appello mostra erroneamente di ritenere necessaria, e cioè un’effettiva e irreversibile integrazione nel tessuto sociale e culturale del Paese ospitante (requisito di difficile verificabilità anche con riferimento a non pochi cittadini italiani)».
Conclusivamente, con riguardo alle violenze subite nel Paese di transito e al criterio della comparazione, la Corte di cassazione afferma i seguenti principi di diritto:
«a) A prescindere dalla credibilità della vicenda narrata dal richiedente asilo, la circostanza per la quale quest’ultimo sia approdato in Italia dopo aver subito per un considerevole lasso di tempo vessazioni e trattamenti inumani in condizione di prigionia nel Paese di transito costituisce un fattore di grave vulnerabilità, da valutare scrupolosamente al fine del riconoscimento della protezione umanitaria in seno al giudizio di comparazione tra situazione del Paese di respingimento e grado di integrazione raggiunto in Italia.
b) In tema di giudizio di comparazione tra la condizione di vulnerabilità soggettiva del richiedente asilo e la condizione politica e sociale del Paese di provenienza sotto il profilo della tutela dei diritti umani, una condizione di particolare vulnerabilità soggettiva consente al giudice una valutazione di “comparazione attenuata” tra fatti, da compiersi attraverso una meno severa e meno pregnante valutazione della situazione-Paese sotto il profilo della libera esplicazione dei diritti umani e della loro tutela, ed una rigorosa e puntuale valorizzazione dell’integrazione sociale, dando preminente rilievo allo svolgimento di un’attività lavorativa, specie se a tempo indeterminato o comunque di tipo continuativo».
Un’ulteriore
ordinanza della Cassazione, n. 19986/2021, da rilievo alle violenze subite (da una donna richiedente asilo) nel Paese di transito (Libia) ribadendo che, qualora ritenute credibili, impongono al giudice di applicare il criterio della
comparazione attenuata, senza che una forma di tutela possa essere esclusa se la vulnerabilità si sia prodotta in un Paese diverso da quello di origine, come affermato in precedenti giurisprudenziali (Cass. 1104/2020; Cass. 11912/2020; Cass. 13565/2020).
La Corte ribadisce, inoltre, la necessità che, ai fini della protezione umanitaria, sia effettuato un bilanciamento tra la situazione del richiedente asilo in Italia e la condizione in cui si troverebbe a vivere nel Paese di origine in caso di rimpatrio, tenendo conto del rispetto dell’art. 8 CEDU «quale fattore concorrente ma non esclusivo di un’eventuale situazione di vulnerabilità, anche dell’esistenza e della consistenza dei legami familiari del richiedente in Italia, effettuando un bilanciamento tra il pericolo di danno alla vita familiare e l’interesse statale al controllo dell’immigrazione (Cass. 23720/2020)».
Protezione umanitaria: art. 8 CEDU e differenza rispetto all’art. 31, co. 3 TU 286/98
Con
ordinanza n. 23834/2021 la Corte di cassazione si è pronunciata in un giudizio promosso da un cittadino del Marocco a cui il Tribunale e la Corte d’appello di Roma hanno negato il riconoscimento della protezione umanitaria, nonostante il matrimonio contratto in Italia con una connazionale e la nascita di una figlia, ritenendo mancanti seri motivi umanitari e/o profili di specifica vulnerabilità. La Cassazione censura tale decisione innanzitutto chiarendo la diversa natura dell’art. 8 CEDU e quella afferente all’art. 31, co. 3 TU 286/98: se quest’ultima norma protegge esclusivamente il minore e il suo diritto a vivere con i genitori qualora il loro allontanamento dall’Italia determini gravi pregiudizi al suo sviluppo psicofisico, l’art. 8 CEDU protegge il diritto dell’intera famiglia a vivere le proprie relazioni e «godere della reciproca compagnia» e, precisa la Corte, «Da un punto di vista sostanziale, l’art. 8 CEDU protegge l’interesse alle relazioni familiari effettive, a prescindere dal legame matrimoniale, come interesse del singolo e non esclusivamente del minore.».
La prevalenza del superiore interesse del minore non significa che non debba essere valutata anche la posizione soggettiva del genitore (Corte cost. 102/2020) ed è solo in caso di conflitto che il primo prevale. Richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, la Cassazione afferma, dunque, che il giudice deve operare un ragionevole e proporzionato bilanciamento di tutti i diritti coinvolti, come previsto anche dal diritto nazionale (artt. 5, co. 5 e 13, co. 2-bis TU 286/98 – Corte cost. 202/2013), escludendosi la possibilità di operare ogni automatismo.
Il principio di diritto espresso dalla Cassazione è il seguente: «Ai fini della concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, il giudice, al fine di dare concreta attuazione al diritto alla vita privata e familiare, protetto dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, deve tener conto, quale fattore concorrente ma non esclusivo di un’eventuale situazione di vulnerabilità, anche dell’esistenza e della consistenza dei legami familiari del richiedente in Italia, effettuando un bilanciamento tra il pericolo di danno alla vita familiare e l’interesse statale al controllo dell’immigrazione».
Protezione umanitaria e minore età
L’
ordinanza n. 17504/2021 della Cassazione censura la decisione del Tribunale di Potenza che aveva negato a richiedente asilo del Bangladesh ogni forma di protezione, omettendo di tenere in debita considerazione la minore età sia alla partenza dal Paese di origine che all’arrivo in Italia, le violenze subite nei Paesi di transito e la condizione di estrema indigenza in cui sarebbe stato rinviato. Dopo avere richiamato i principi giurisprudenziali per il riconoscimento della protezione umanitaria, che devono fare emergere situazioni di concreta vulnerabilità, il giudice di legittimità afferma che «tra le predette situazioni va indubbiamente annoverata la minore età del richiedente, la quale costituisce oggetto di specifica attenzione da parte della disciplina in tema di immigrazione, in quanto, oltre a precludere l’emissione del decreto di espulsione, ai sensi dell’art. 19, comma secondo, lett. a), del d.lgs. n. 286 del 1998, salvo che per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, giustifica l’applicazione di particolari misure di tutela, sia sotto il profilo sostanziale, ai sensi degli artt. 28, 31 e 33 del medesimo decreto, dell’art. 19 del d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142 e della legge 7 aprile 2017, n. 47, che sotto, quello procedimentale, ai sensi dell’art. 13, co. 3, e 28, co. lett. b), d.lgs. n. 25 del 2008 (v. Cass. n. 11743 del 2020)».
La Cassazione censura anche l’omessa valutazione da parte del Tribunale della condizione di minore straniero non accompagnato che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, rappresenta una condizione di «vulnerabilità estrema», con obbligo dello Stato di adottare specifiche misure di protezione, la violazione delle quali contrasta con l’art. 3 CEDU.
Protezione umanitaria e povertà
L’
ordinanza n. 16903/2021 della Cassazione censura la sentenza della Corte d’appello di Bologna che aveva negato ogni forma di protezione, sia internazionale che umanitaria, a partire dal ritenuto difetto di credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo della Nigeria.
Il giudice di legittimità non accoglie il profilo del ricorso che riguarda la credibilità, poiché valutazione di merito estranea al giudizio di Cassazione. Accoglie, invece, la censura relativa al diniego della tutela umanitaria in quanto, nonostante sia «stata dedotta l’estrema miseria, il diniego di istruzione, l’abbandono da parte della famiglia e poi da parte della compagna proprio a causa della estrema povertà» il giudice d’appello ha omesso di verificare se detta condizione esponga il ricorrente, in caso di rimpatrio, a grave compromissione dei diritti umani. Secondo la Cassazione, infatti, «ai fini dell’accertamento della condizione di vulnerabilità del richiedente, occorre procedere ad una valutazione comparativa tra le condizioni di vita alle quali lo straniero sarebbe esposto ove rimpatriato ed il raggiunto grado di integrazione sociale nel nostro Paese e la condizione di povertà del Paese di provenienza può assumere rilievo ove considerata unitamente alla condizione di insuperabile indigenza alla quale, per ragioni individuali, il ricorrente sarebbe esposto ove rimpatriato, nel caso in cui la combinazione di tali elementi crei il pericolo di esporlo a condizioni incompatibili con il rispetto dei diritti umani fondamentali (cfr. Cass. n. 18443 del 2020)».
Protezione umanitaria e diritto alla salute
L’
ordinanza n. 19795/2021 della Cassazione annulla la decisione del Tribunale di Catanzaro che aveva negato ogni forma di protezione a richiedente asilo del Gambia, a cui era stato diagnosticato un moderato deficit cognitivo. In primo luogo va evidenziato che la Cassazione respinge i motivi di ricorso relativamente al mancato rispetto delle prescrizioni di legge da applicarsi in sede di audizione di soggetto fragile (
ex art. 13, co. 2 d.lgs. 25/2008, elemento che non comporta nullità del procedimento, vertendosi in materia di riconoscimento di un diritto soggettivo) e afferma, in linea con un orientamento giurisprudenziale non unanime, che una volta esclusa la credibilità soggettiva il giudice non è tenuto a cooperare esplorando le pertinenti fonti di informazione sul Paese di origine. Accoglie, invece, il motivo con cui il ricorrente ha chiesto la censura della mancata valutazione della condizione di salute, debitamente certificata, affermando che «ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per gravi ragioni umanitarie (nella disciplina di cui all’art. 5, co. 6, d.lgs. n. 286 del 1998, applicabile
ratione temporis), la condizione di vulnerabilità per motivi di salute richiede, alla luce della giurisprudenza unionale (CGUE, 24 aprile 2018, in causa C-353/16), l’accertamento della gravità della patologia, la necessità ed urgenza delle cure nonché la presenza di gravi carenze del sistema sanitario del Paese di provenienza (n. 17118/20); avendo rilievo anche accertare se ed in qual misura il richiedente, in caso di rimpatrio, possa godere di terapie anche solo contenitive della sua patologia (cfr. n. 33187/19)».
Protezione umanitaria e vittima di tratta; inapplicabilità della nuova protezione speciale ex d.l. n. 130/2020
Il
Tribunale di Milano, con decreto 14.4.2021
, ha riconosciuto a donna richiedente asilo della Nigeria la protezione umanitaria,
ex art. 5, co. 6, TU 286/98, dopo avere rinvenuto nella sua vicenda la condizione di vittima di tratta, nonostante la richiedente non si sia auto-qualificata tale.
Il Tribunale ha escluso il riconoscimento dello status di rifugio politico, sia per mancata individuazione dell’agente della persecuzione, che per l’inattualità del fondato timore stante la risalenza nel tempo dei fatti narrati (fermo restando il dubbio sulla loro credibilità). Ha altresì escluso il riconoscimento della protezione sussidiaria in tutte le sue tre fattispecie sulla base di specifiche COI che escluderebbero l’esistenza di una violenza indiscriminata e comunque per difetto di prova di assoggettamento a trattamenti inumani e degradanti.
Ha, invece, riconosciuto la protezione umanitaria in quanto, pur avendo riscontrato contraddizioni, reticenze e inverosimiglianze nelle dichiarazioni della richiedente, il Tribunale meneghino le ha valutate secondo gli indici oggettivi indicati nelle Linee guida per l’identificazione delle vittime di tratta, elaborate dalla Commissione nazionale asilo e dall’UNHCR e i criteri di cui alle Linee guida UNHCR relative alle vittime di tratta e a rischio di tratta, riscontrandone la condizione nel caso oggetto di giudizio, laddove la stessa negazione della propria condizione di vittima è uno di detti indici, riscontrabile in innumerevoli casi analoghi.
Di interesse, infine, la parte in cui, nell’affrontare l’applicabilità della protezione speciale introdotta dal d.l. n. 130/2020, il Tribunale di Milano la esclude, perché, nonostante l’art. 15 espressamente preveda l’applicazione delle nuove previsioni anche ai giudizi in corso, dopo avere richiamato quanto statuito dalla Cassazione a Sezioni unite n. 29459/2020 (che ha ritenuto irretroattiva la disciplina introdotta dal d.l. n. 113/2028), ritiene che «la disciplina transitoria contenuta nell’art. 15 d.l. 130/2020 fissa il principio dell’immediata applicabilità delle nuove norme ai procedimenti già pendenti alla sua entrata in vigore ma non stabilisce che esse si applichino retroattivamente, né pone deroghe all’art. 11 delle preleggi, e non incide pertanto “sui fatti che si siano compiutamente verificati sotto la vigenza della legge” incisa o modificata» (punto 5.2 delle sentenze citate). Poiché i fatti oggetto di giudizio sono antecedenti la riforma del 2018, il Tribunale meneghino ritiene inapplicabile l’applicazione retroattiva anche della riforma 2020 (art. 11 preleggi al c.c.) perché «L’applicazione retroattiva delle nuove norme non sarebbe giustificata “sul piano della ragionevolezza”, in considerazione dei “valori costituzionalmente tutelati” di eguaglianza e di affidamento, che “sarebbero potenzialmente lesi dall’efficacia a ritroso della norma” (Cass. SU punto 6.5 e Corte cost. 22 febbraio 2017, n. 73), nei limiti in cui la diversa valutazione giuridica dei fatti già accaduti determinasse l’effetto di escludere il rilascio del permesso di soggiorno per seri motivi di carattere umanitario (Cass. SU punto 6.5)».
Tesi che, occorre evidenziare, va collegata a quella, oggi ancora non bene esplicitata, secondo cui la nuova protezione speciale introdotta dal d.l. n. 130/2020 sarebbe più restrittiva rispetto all’originaria protezione umanitaria ex art. 5, co. 6, TU 286/98, su cui si è abbattuta la scure del legislatore nel 2018, volendo pertanto, par di capire, salvaguardare l’ampiezza applicativa di detta norma. Sia consentito, al riguardo, ricordare che, al netto di vari profili afferenti la nuova protezione speciale, l’art. 5, co. 6, TU parzialmente ripristinato nel 2020 (con l’unica eccezione dei «seri motivi di carattere umanitario») con riferimento agli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato fa parte della nuova formulazione dell’art. 19, co. 1.1, TU 286/98 e dunque con amplissima, non tipizzata, possibilità di farvi rientrare anche oggi svariatissime situazioni (annotazione di Nazzarena Zorzella).
La PROTEZIONE SPECIALE al di FUORI DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Con
ordinanza 12.3.2021 RG. 77024/2019 il Tribunale di Roma
ha riconosciuto la protezione speciale a giovane ricorrente della Tunisia che, avendo beneficiato durante la minore età, insieme alla madre, di un permesso
ex art. 31, co. 3, TU 286/98, aveva raggiunto la maggiore età e chiesto alla questura di Roma la conversione in permesso per motivi di famiglia, negatagli per difetto dei requisiti di legge.
Il Tribunale ha ritenuto legittimo il diniego ma applicato le nuove previsioni di cui all’art. 19, co. 1 e 1.1 TU 286/98, novellato dal d.l. n. 130/2020, riconoscendogli la protezione speciale in relazione al diritto al rispetto della vita privata e familiare, in quanto «il ricorrente è presente sul territorio italiano dal 2013, è privo di contatti rilevanti con i propri familiari nel Paese di origine e ha, altresì, svolto in Italia tutto il percorso scolastico. Dalla documentazione depositata in atti si evince come questi si sia velocemente integrato sul territorio nazionale sul piano sia scolastico e sociale. È chiaro, pertanto, che il rientro in Tunisia comprometterebbe il percorso di integrazione avviato dal ricorrente nel nostro Paese e, di conseguenza, la sua vita privata intesa in conformità dell’interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU, 14 febbraio 2019, Narjis c. Italia, n. 57433/15; Corte EDU, Grande Camera, Üner c. Paesi Bassi, n. 46410/99. Si veda anche Corte EDU, Grande Camera, 23 giugno 2008, Maslov c. Austria, n. 1638/03), quale nuova identità e stabilità, alla luce, peraltro, dell’attuale situazione economica del Paese d’origine che allo stato presenta forti criticità».
Sempre il
Tribunale di Roma, con ordinanza 21.6.2021 RG. 30334 /2021
, ha riconosciuto la protezione speciale a cittadino straniero che, nel marzo 2021, aveva inoltrato specifica richiesta di rilascio alla questura di Roma, conseguendone un rigetto (dal testo dell’ordinanza non si comprende se vi sia stato un espresso provvedimento di diniego o un silenzio della questura).
Il giudice romano riconosce, invece, detta tutela alla luce del percorso di vita intrapreso in Italia, attestato attraverso documentazione lavorativa che «di regola, contribuisce alla nascita e allo sviluppo di relazioni sociali, fattore anch’esso indicativo dell’esistenza di un legame effettivo con il Paese di accoglienza. Va, infatti, sottolineato che il rapporto instaurato dal soggetto immigrato con la comunità può essere ricondotto alla nozione di “vita privata” di cui all’articolo 8 della CEDU (Corte europea diritti dell’uomo sez. I, sent., (ud. 22.1.2019) 14.2.2019, n. 57433/15; Ü. c. Paesi Bassi [G.C.], n. 46410/99, § 59, CEDU 2006-XII)».
I PROVVEDIMENTI ex REGOLAMENTO n. 604/2013 DUBLINO III
Bulgaria e carenze sistemiche del sistema asilo e di accoglienza
Con
ordinanza n. 18621/2021 la Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal Ministero dell’interno - Unità Dublino, avverso il decreto con cui il Tribunale di Roma aveva annullato il provvedimento di trasferimento in Bulgaria di un richiedente asilo del Pakistan, ai sensi dell’art. 18 Regolamento c.d. Dublino, avendo accertato l’esistenza del rischio di trattamenti inumani e degradanti a causa delle carenze sistemiche nel sistema di accoglienza e asilo di detto Paese UE.
La Cassazione ha precisato che, contrariamente a quanto sostenuto dal Ministero, il Tribunale di Roma non aveva preso in considerazione il rischio di rimpatrio indiretto ma unicamente le carenze sistemiche nelle procedure del sistema asilo e di accoglienza della Bulgaria, in applicazione dell’art. 3 del Regolamento. Inoltre, ha richiamato i principi espressi in materia dalla costante giurisprudenza di legittimità, ovverosia: l’unitarietà della procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, pur distinta in fasi, tra le quali quella dell’accertamento della competenza dello Stato all’esame (Cass. SU 8044/2018); la competenza amministrativa per l’individuazione dello Stato competente è assegnata in Italia all’Unità Dublino del Ministero ma la decisione è soggetta al controllo giurisdizionale (Cass. n. 31675/2018 e n. 31566/2019) anche in relazione al rischio di violazione dell’art. 4 della Carta fondamentale dell’Unione europea (analogo all’art. 3 CEDU), come affermato dalla Corte di giustizia UE, 16 febbraio 2017, causa C-578/16 PPU; il principio di reciproca fiducia tra Stati dell’UE (mutual trust) «deve essere bilanciato con il principio di cautela a garanzia degli incomprimibili diritti fondamentali dello straniero, principio che impone al giudice nazionale di annullare il provvedimento di trasferimento tutte le volte in cui non solo vi sia la prova certa, ma anche il ragionevole dubbio – cioè “fondati motivi” – per ritenere che nello Stato membro inizialmente designato come competente sussistano “carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti in tale Stato membro”, che implichino il rischio di un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, siccome interpretato dalla Corte di Strasburgo (sul principio del ragionevole dubbio, in linea generale, v. la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 22 marzo 2005, Av c. Turchia, e in particolare i §§ 59-60)».
Applicando detti principi al caso esaminato, la Cassazione esclude che il Tribunale di Roma abbia errato annullando il rinvio del richiedente asilo in Bulgaria, tenuto conto che dalla Risoluzione del Parlamento europeo dell’8 ottobre 2020 sullo Stato di diritto ed i diritti fondamentali in Bulgaria (2020/2793[RSP]) emerge una preoccupante violazione di diritti fondamenti e una non indipedenza della magistratura, al punto da chiedere che la Commissione europea si occupi con urgenza della procedura di infrazione già avviata.
Il termine per la «ripresa in carico»
L’
ordinanza n. 19518/2021 della Cassazione affronta un ricorso c.d. Dublino, proposto da un richiedente asilo del Pakistan avverso la decisione con cui il Tribunale di Ancona aveva respinto l’impugnazione di un provvedimento di trasferimento per «ripresa in carico» in Germania, ove in precedenza aveva già inoltrato domanda di riconoscimento della protezione internazionale.
La pronuncia presenta un primo profilo di interesse perché, pur ritenendo inammissibile il ricorso per nullità della procura (perché non recante la data della sottoscrizione, pur se nel suo contenuto era compiutamente indicato il provvedimento impugnato), la Corte ha ritenuto di esaminare comunque il ricorso e di esprime un principio di diritto nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363, co. 3, c.p.c. stante «la particolare importanza della questione giuridica posta dal motivo in esso formulato – soprattutto in considerazione della notoria esistenza di numerosissime controversie analoghe a quella giunta all’esame della Corte». Applicazione della norma processualcivilistica che, come si legge nell’ordinanza in rassegna, è oggetto di contrasto giurisprudenziale, che viene affrontato con ampie argomentazioni (pp. 9-14).
L’ordinanza è complessa e ampiamente argomentata e ricostruisce nel dettaglio le disposizioni del Regolamento n. 604/2013, c.d. Dublino III, che contiene i vari criteri per l’individuazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale, l’astratta possibilità di deroga in base a una duplice clausola di discrezionalità (art. 17), e una deroga generale a tutti i criteri rappresentata dall’art. 3 del Regolamento, che impedisce il trasferimento verso lo Stato formalmente competente se vi sia il rischio di «carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti» in detto Stato.
La pronuncia si dipana nel ricostruire, con ampi richiami alla giurisprudenza della Corte di giustizia UE, la differente disciplina della «presa in carico» rispetto alla «ripresa in carico», ai sensi degli artt. 18, 20, 23 e 24 del Regolamento, cioè dopo che nello Stato competente sia stata presentata la domanda di protezione internazionale, eventualmente rinunciata o definita negativamente, specificando che la procedura di esame è distinta da quella di individuazione dello Stato competente. Secondo l’ordinanza in rassegna, «si deve ritenere che l’articolo 18, paragrafo 1, lettere da b) a d), del medesimo Regolamento possa applicarsi solo ove lo Stato membro in cui una domanda sia stata precedentemente presentata abbia condotto a termine tale procedura di determinazione riconoscendo la propria competenza per l’esame di detta domanda ed abbia avviato l’esame della stessa conformemente alla Direttiva 2013/32».
Nel caso di specie la Cassazione ritiene che il ricorrente versi in una situazione di «ripresa in carico» da parte della Germania, indipendentemente dal fatto che in quel Paese egli abbia ritirato la domanda o se il suo esame sia stato avviato.
La Corte ricorda poi che l’effettività del ricorso riguarda «“tanto il rispetto delle norme che assegnano le competenze per l’esame di una domanda di protezione internazionale quanto le garanzie procedurali stabilite dal regolamento medesimo” (cfr., in termini, Corte di giustizia del 2 aprile 2019, nelle cause riunite C-582/17 e C-583/17, punto 40. Nello stesso senso, si vedano anche le sentenze della medesima Corte del 26 luglio 2017, A.S., C-490/16, punti 27 e 31; del 26 luglio 2017, Mengesteab, C-670/16, punti da 44 a 48, nonché del 25 ottobre 2017, Shiri, C-201/16, punto 38)», ritenendo irrilevante che l’impugnazione riguardi la presa in carico.
Con specifico riguardo al termine entro cui deve avvenire la presa in carico (art. 27 Regol.), la Cassazione richiama la pronuncia della Corte di giustizia dell’UE 26 luglio 2017, Mengesteab, C-670/16, secondo cui la sua inutile decorrenza (cui consegue il venire meno della competenza dello Stato primo) può essere invocata anche dal richiedente e questo anche se lo Stato cui dovrebbe essere rinviato ha accettato la presa in carico.
All’esito dell’ampia motivazione, la Cassazione pronuncia il seguente principio nell’interesse della legge: «In tema di protezione internazionale, il ricorso effettivo previsto dall’art. 27, paragrafo 1, del Regolamento n. 604/2013, avverso una decisione di trasferimento adottata nei confronti del richiedente asilo all’esito di una richiesta di “ripresa in carico”, può investire anche il rispetto dei termini indicati all’articolo 23, paragrafo 2, del medesimo Regolamento, concernendo un siffatto accertamento la verifica della sua corretta applicazione. In tale ipotesi, spetta al Tribunale adito ex art. 3, co. 3-bis, del d.lgs. n. 25 del 2008, verificare se, per come concretamente motivato, il provvedimento impugnato rechi, o non, gli elementi e/o i riferimenti essenziali al fine di riscontrare la tempestività della menzionata richiesta in rapporto ai termini predetti».
Con riguardo alla questione della nullità della procura per difetto di data (ex art. 35-bis, co. 13, d.lgs. 25/2008) si ricorda che, al momento della pronuncia qui in rassegna, depositata l’8 luglio 2021, erano già intervenute le Sezioni unite che si erano espresse nel senso della nullità in caso di mancata indicazione espressa della data (SU n. 15771/2021), ma con ordinanza n. 17970/2021 del 23 giugno 2021 la terza sezione della Cassazione ha rinviato alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell’art. 35-bis, co. 13, d.lgs. 25/2008 per sospetta incostituzionalità in riferimento agli artt. 3, 10, 24 e 111 e 117 della Costituzione e dell’art. 47 della Carta fondamentale UE.
LE MISURE DI ACCOGLIENZA
Accoglienza nel SAI e permesso per cure mediche
Con
ordinanza emessa il 19.8.2021 in sede cautelare, il Tribunale di Roma
ha esaminato l’interessante caso di un cittadino straniero – già titolare nel 2015 di permesso umanitario, poi di permesso per cure mediche nel 2018, il cui rinnovo era stato successivamente negato nel 2020 dalla questura di Roma e oggetto di diverso giudizio di impugnazione, nell’ambito del quale aveva ottenuto la pronuncia
inaudita altera parte di rilascio del permesso per cure mediche – il quale ha presentato un ricorso d’urgenza,
ex art. 700 c.p.c., chiedendo al Tribunale il riconoscimento del diritto ad essere inserito in una struttura SAI del Comune di Roma, posto che il Servizio centrale non aveva risposto alla sua richiesta presentata in via amministrativa. Nel corso del giudizio cautelare erano, tuttavia, intervenuti sia la conferma giudiziale, nel diverso giudizio, di rilascio del permesso per cure mediche, sia la risposta del SAI di inserimento in una struttura del Comune di Brindisi, ragion per cui il ricorrente aveva modificato la propria domanda giudiziale chiedendo un ordine di inserimento nello specifico progetto psicoterapeutico a cui già era stato ammesso a Roma e dunque nel SAI attivo sul territorio di Roma Capitale.
Il Tribunale evidenzia, in primo luogo, la questione della giurisdizione (ordinaria o amministrativa) in quanto «all’originaria domanda di inserimento nel sistema di accoglienza (inteso nella sua interezza e nella sua dimensione nazionale) si è sostituita la domanda di inserimento in una specifica articolazione territoriale di detto sistema (e cioè quella di Roma). Non sarebbe, allora, peregrino ipotizzare che, così facendo, la parte ricorrente finisca per chiedere un provvedimento giurisdizionale che potrebbe ritenersi incidente sull’autonomia e organizzativa della PA, caratterizzata da elevato grado di discrezionalità.». Tuttavia, ritiene ininfluente nella sede cautelare la decisione sulla giurisdizione (rinviandone l’esame approfondito nell’eventuale giudizio di merito) per l’urgenza di garantire il diritto alla salute e all’integrità psico-fisica della persona, avente natura di diritto fondamentale, sia nell’ordinamento nazionale che in quelli sovranazionali.
Quanto al merito, esaminata la particolare patologia psichica del ricorrente, affrontabile non solo con i farmaci ma con una presa in carico più complessiva, e accertato che il ricorrente è già inserito in un progetto a Roma comprensivo anche di un percorso psico-terapeutico e ha una determinata collocazione logistica e dunque relazioni con persone nelle quali ha riposto l’imprescindibile fiducia, il Tribunale ha ordinato alle Amministrazioni SAI convenute «di ricercare – pur nell’esercizio della loro autonomia organizzativa – una soluzione alternativa che consenta al sig… di proseguire, almeno nelle more del giudizio di merito, il percorso di terapia e recupero psicologico e riabilitativo già ampiamente avviato nelle strutture romane, inserendolo nel sistema SAI della capitale».
Accoglienza nel SAI di titolare di rifugio politico vulnerabile
Il
Tar Marche, Ancona, con sentenza n. 632/2021, si è pronunciato su un ricorso (RG. 213/2020) proposto da una rifugiata politica della Siria, a cui la prefettura di Ancona aveva revocato le misure di accoglienza nel CAS dopo il riconoscimento dello
status, in difetto di risposta da parte del SAI di inserimento in una struttura di seconda accoglienza per persone vulnerabili. Revoca che ha comportato che la donna sia stata costretta a vivere per strada e poi accolta in una casa rifugio, sistemazione non solo precaria ma inadeguata alle sue condizioni di salute.
A seguito di sollecitazioni del legale della ricorrente e all’esito di un decreto cautelare del Tar, il Servizio centrale aveva risposto negando l’indisponibilità di una struttura, all’interno del SAI, idonea ad accogliere persone con patologie psichiche, evidenziando che detto sistema non ha natura sanitaria ma preordinata al raggiungimento dell’autonomia del/della titolare di protezione, mentre la rifugiata siriana non appariva autonoma.
Con la sentenza n. 632/2021 il giudice regionale marchigiano censura il provvedimento del Servizio centrale, o meglio la nota con cui aveva risposto al provvedimento giudiziale interinale (ritenuto impugnabile, avendo contenuto di diniego della misura richiesta) in quanto il d.m. 10.8.2018 (Linee guida SPRAR) prevede espressamente tra i progetti di accoglienza anche quelli «in favore di persone disabili e/o con disagio mentale o psicologico e/o con necessità di assistenza sanitaria, sociale e domiciliare, specialistica e/o prolungata», irrilevante che quei progetti siano attivabili su base volontaria in quanto «la carenza di posti nei progetti dedicati alla presa in carico dei soggetti vulnerabili per patologie afferenti alla sfera psichica o la poca adesione da parte degli enti locali a tale tipo di progetti non possono andare a discapito di chi necessita dell’accoglienza, essendo invece necessario un intervento coordinato di tutte le Amministrazioni coinvolte e dei Servizi presenti sul territorio affinché sia garantita quella tutela psico-socio-sanitaria che le anzidette Linee guida del 2019 hanno individuato quale servizio minimo obbligatorio nell’ambito dell’accoglienza.», richiamando, in proposito la pronuncia della Corte di giustizia 27 febbraio 2014, n. 79.
Poiché nel corso del giudizio la ricorrente aveva trovato collocazione in una struttura SAI in Sicilia, ove beneficiava delle cure necessarie, il Tar ha dichiarato improcedibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.
Tuttavia, ha condannato l’Amministrazione al risarcimento del danno (richiesto dalla ricorrente ex art. 2059 c.c. e liquidato in € 5.000,00), avendo riscontrato sia il pregiudizio subito a causa della privazione delle condizioni di accoglienza che hanno leso la dignità della persona, ovverosia valori costituzionalmente protetti, che l’elemento soggettivo della colpa della PA, non essendo scusabile la condotta dell’Amministrazione a fronte della natura fondamentale dei diritti violati.
Revoca delle misure di accoglienza - limiti
Con
sentenza n. 9592/2021 il Tar Lazio, Roma, ha accolto il ricorso di un richiedente asilo a cui erano state revocate le misure di accoglienza per violazione delle regole della struttura di accoglienza. Accoglimento motivato perché «La violazione da parte del richiedente asilo delle regole relative ai Centri di accoglienza non legittima l’applicazione di sanzioni e misure che incidono sulle sue esigenze della vita quotidiana e che non rispettano il principio di proporzionalità e la dignità umana», richiamando in proposito la pronuncia della Corte di giustizia dell’UE del 12 novembre 2019 causa C-233/18, secondo cui, afferma il Tar, «ai sensi dell’articolo 20, parr. 4 e 5, della Direttiva 2013/33/UE, letto alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni che possono essere inflitte ad un richiedente, anche se a seguito di gravi violazioni delle regole dei Centri di accoglienza nonché di comportamenti gravemente violenti, una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, le condizioni materiali di accoglienza, relative all’alloggio, al vitto o al vestiario, dato che avrebbe l’effetto di privare il richiedente della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari. L’imposizione di altre sanzioni deve in ogni caso rispettare le condizioni indicate nelle citate previsioni e, in particolare, quelle relative al rispetto del principio di proporzionalità e della dignità umana».
Il Tar Roma censura il provvedimento di revoca anche nella parte in cui ha violato l’art. 7 legge 241/90 e s.m., omettendo di comunicazione al richiedente l’avvio del procedimento e dunque impedendogli la partecipazione procedimentale, richiamando il proprio consolidato orientamento (Tar Lazio, Roma, n. 5961/2019 e n. 4755/2019) oltre che del Consiglio di Stato (n. 5445/2018). Ribadendo la natura sanzionatoria della revoca delle misure di accoglienza (Cons. St. n. 80/2018), il Tar sottolinea l’importanza del rispetto delle regole del giusto procedimento amministrativo e di obbligo di specifica, non generica, motivazione (Cons. St., n. 3297/2018; Tar Milano n. 2201/2018).