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Fascicolo 3, Novembre 2021


«Dal disincanto del mondo e nell’instabilità di tutte le parole che prima lo definivano, nacque un paesaggio insolito, simile allo spaesamento, in cui si annuncia una libertà diversa, non più quella del sovrano che domina il suo regno, ma quella del viandante che al limite non domina neppure la sua via. Consegnato al nomadismo, l’uomo spinge avanti i suoi passi, ma non più con l’intenzione di trovare qualcosa, la casa, la patria, l’amore, la verità, la salvezza. Anche queste parole si sono fatte nomadi, non più mete dell’intenzione o dell’azione umana, ma doni del paesaggio che ha reso l’uomo viandante senza una meta, perché è il paesaggio stesso la meta».

(Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 2009)

Ammissione e soggiorno

Il visto di ingresso per motivo di studio
L’autorità consolare italiana aveva negato il visto per studio (tipo D per immatricolazione universitaria) al richiedente, cittadino del Camerun, affermando che le garanzie economiche di cui questi deve dotarsi (pari all’importo annuale dell’assegno sociale) possono essere prestate solo dal diretto interessato o dai genitori, ovvero fornite da Istituzioni ed Enti italiani di accertato credito, comprese le Università, da Governi locali, da Istituzioni ed Enti stranieri considerati affidabili dalla Rappresentanza diplomatica italiana.
Nel caso specifico, invece, tali garanzie erano prestate dal fratello del richiedente, regolarmente soggiornante in Italia. Il Tar Lazio, con ordinanza cautelare 3198/2021 (R.G. 4983/2021), ha ordinato il riesame della domanda ritenendo illegittimo il diniego per contrasto con gli artt. 4, co. 4, d.lgs. 286/98 (che rinvia, per la individuazione dei mezzi di sussistenza, ad una direttiva del Ministero dell’interno) e 39, co. 3, lett. a), d.lgs. 286/98, che rinvia al regolamento di attuazione per la disciplina degli adempimenti di dettaglio. Ivi si fa riferimento alle garanzie economiche prestate «da parte di Enti o cittadini italiani o stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato». La decisione amministrativa dovrà dunque rispettare tali disposizioni.
 
Visto di reingresso in Italia e normativa emergenziale a causa di pandemia
La normativa emergenziale ha, con successive norme legislative, prorogato per lungo arco temporale la validità dei permessi di soggiorno dei cittadini stranieri. Nel caso in cui questi si trovassero all’estero nel periodo utile al rinnovo del titolo di soggiorno, ma impossibilitati a rientrare a causa della pandemia, le autorità consolari hanno negato il visto di reingresso in Italia sulla base della motivazione dell’intervenuta scadenza del titolo di soggiorno.
Pronunciandosi su uno di questi casi il Tribunale di Roma, con decreto cautelare ante causam, del 28 luglio 2021 (R.G. 46737/2021) , ripercorre la normativa emergenziale che ha prorogato la validità dei titoli di soggiorno ritenendo illegittimo, ingiustificato e lesivo, tra gli altri, dell’art. 8 CEDU, dell’art. 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e del principio del superiore interesse dei minori, il provvedimento del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale con cui era stato negato il reingresso in Italia di una madre nigeriana e delle sue figlie minori (di cui una, nel mentre, nata all’estero). Conseguentemente ha ordinato il rilascio del visto di ingresso alle autorità consolari.
 
LA REGOLARIZZAZIONE 2020 (art. 103, d.l. n. 34/2020)
Il comma 1, la prova della presenza prima dell’8 marzo 2020 e la sanabilità dei requisiti formali
Il Tar Umbria, con ordinanza cautelare n. 83/2021 (R.G. 395/2021), ha ritenuto che, ai fini della verifica del requisito della presenza in Italia prima dell’8 marzo 2020 previsto dall’art. 103, co. 1, d.l. 34/2020, l’Amministrazione deve valutare tutti i documenti utili forniti dal richiedente e tenere conto delle indicazioni interpretative fornite dal Ministero dell’interno, tramite la circolare del 30.5.2020 e le FAQ pubblicate sul sito della medesima Amministrazione. Si afferma, inoltre, che le irregolarità solo formali (nel caso specifico la documentazione relativa al pagamento del contributo forfettario e quella finalizzata a dimostrare la sua presenza nel territorio nazionale in data anteriore al 8 marzo 2020) della domanda amministrativa possono essere sanate dalla parte sino alla conclusione del procedimento amministrativo, che avviene con la formale comunicazione del provvedimento definitivo.
 
Il comma 1 e la regolarità del procedimento amministrativo
Per il Tar Puglia, Bari, sentenza n. 1428/2021 (R.G. 902/2021), la piena conoscenza del preavviso di diniego trasmesso ex art. 10-bis legge 241/1990, che deve essere provata dall’Amministrazione, è funzionale affinché la parte istante possa fornire un contributo dialettico al procedimento amministrativo e la sua mancanza «si ripercuote sul regime giuridico dell’atto emanato, trattandosi senz’altro di vizio invalidante».
 
Il comma 2 e il requisito dello svolgimento di attività lavorativa prima del 30.10.2019
Il Consiglio di Stato, con ordinanza cautelare n. 781/2021 (R.G. 326/2021), ha deciso che né l’art. 103, d.l. 34/2020, né il d.m. 27.5.2020 stabiliscono, ai fini dell’ammissibilità dell’istanza, un periodo minimo di durata dell’attività lavorativa svolta dal richiedente in uno dei tre settori di cui alla norma speciale ai fini dell’ottenimento del permesso di soggiorno temporaneo, «limitandosi a prescrivere che essa sia svolta antecedentemente al 31 ottobre 2019». Ha quindi accolto il ricorso avverso l’ordinanza del Tar Bologna ai fini dell’approfondimento in materia e della sollecita definizione del merito.
Conseguentemente il Tar Emilia Romagna, Bologna, con sentenza 646/2021 (R.G. 684/2021) resa all’esito dell’esame del merito, verificato che il diniego amministrativo era basato sull’avere il richiedente lavorato solo per 7 giorni quale bracciante agricolo, ha ritenuto tale provvedimento viziato da difetto di motivazione e violazione di legge, dato che «il secondo comma dell’art. 103 del sopra citato decreto non prevede limitazioni temporali in ordine alla durata del rapporto di lavoro o a quando debba essere intervenuto il rapporto di lavoro».
 
Il comma 2, il preavviso di rigetto e la sanabilità dei requisiti formali dell’istanza
Con ordinanza cautelare n. 369/2021 (R.G. 669/2021) il Tar Piemonte, sez. I, ha statuito l’illegittimità del diniego di regolarizzazione, presentata ai sensi del co. 2 dell’art. 103, d.l. 34/2020, motivato per il mancato invio al richiedente del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge n. 241/1990 (conforme Tar Puglia, Bari, sent. n. 1428/2021; difforme Tar Emilia Romagna, sent. n. 647/2021).
Con la stessa pronuncia ha rilevato, altresì, che le irregolarità della domanda amministrativa che abbiano natura meramente formale (nella specie, mancato versamento del contributo forfettario e mancata dichiarazione del domicilio), sono suscettibili di integrazione in fase istruttoria (conforme Tar Umbria, ord. n. 83/2021).
 
Il comma 2, la titolarità di un permesso di soggiorno per richiesta asilo e la titolarità di contratto di lavoro in settore non previsto dalla normativa
In un caso di istanza di regolarizzazione dichiarata inammissibile a causa della contestuale pendenza in sede giurisdizionale di un procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale e, dunque, di titolarità di permesso di soggiorno per richiesta asilo, il Tar Piemonte, con sentenza n. 739/2021 (R.G. 519/2021), ha ritenuto illegittimo il diniego non essendo coerente con la ratio legis ed i presupposti valori costituzionali, né esplicitamente imposto dalla normativa. La decisione da atto della «evidente difficoltà interpretativa e novità delle disposizioni», tuttavia, considerati gli obiettivi perseguiti dall’art. 103, d.l. 34/2021 («volti a favorire la coerenza tra titoli di soggiorno e posizioni lavorative in settori particolarmente afflitti dalla problematica dell’irregolarità diffusa e del lavoro nero») e tenuto conto della mancanza di coordinamento tra la normativa speciale e quella relativa ai richiedenti protezione internazionale, ha ritenuto che la posizione del richiedente protezione internazionale è caratterizzata da una «intrinseca precarietà di lunga durata» che non ha alcuna coerenza con le esigenze lavorative e, dunque, con le indicate finalità della normativa speciale. Secondo il Tar piemontese, pertanto, «Pare quindi indispensabile una lettura della normativa che favorisca tale coordinamento, in una logica di rispetto sostanziale dei valori ed interessi dichiaratamente oggetto di tutela normativa e per altro anche dei presupposti valori costituzionali», tenuto anche conto che analoga limitazione non si rinviene per l’accesso alla procedura di cui al comma 1 e che «L’asimmetria delle soluzioni proposte ... finisce per aggravare il senso di contrasto con i valori costituzionali (tra tutti art. 3, parità di trattamento, art. 36, tutela del lavoratore) che l’interpretazione seguita in via amministrativa presenta».
 
In senso prima facie difforme si segnala la sentenza n. 647/2021 del Tar Emilia Romagna (R.G. 738/2021), che ha, tuttavia, valutato la legittimità del diniego dell’Amministrazione nel negare il permesso di soggiorno temporaneo al richiedente sia perché titolare di permesso di soggiorno per richiesta di asilo, sia in quanto già impiegato con contratto a tempo indeterminato in un settore produttivo non previsto dall’art. 103, co. 3, d.l. 34. Secondo il Tar sia il citato co. 2 sia l’art. 3 del decreto ministeriale 27.5.2020 stabiliscono che l’istante abbia un permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno e, inoltre, la normativa in materia è rivolta a coloro che siano sprovvisti di un contratto di lavoro in quanto «lo speciale permesso di soggiorno temporaneo di cui al secondo comma dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020 ha lo scopo di permettere allo straniero di ottenere un lavoro, sul presupposto che ne sia privo». Tar che esclude una interpretazione estensiva della citata norma.
 
Il comma 2, la modalità di presentazione della domanda amministrativa ed i rapporti tra fonti normative
Il Tar Puglia, Bari, con tre contestuali sentenzenn. 1340/2021,1341/2021e1342/2021, confermative delle precedenti ordinanze cautelari ha ritenuto ricevibili le domande di regolarizzazione presentate a mezzo PEC e non tramite invio del kit postale, censurando i provvedimenti con i quali esse erano state dichiarate irricevibili (in senso conforme in sede cautelare cfr. Tar Salerno, ord. n. 608/2020, Tar Puglia, Bari, ord. nn. 718, 719, 721 del 2020). Nella sentenzapugliese si afferma, peraltro, un principio generale di diritto rilevante anche per altre fattispecie e relativo ai rapporti tra la normativa primaria (d.l. 34/2020, come convertita in l. 17 luglio 2020, n. 77) e la normativa regolamentare (decreto interministeriale 27 maggio 2020), ovvero «che i regolamenti devono essere autorizzati a monte da una norma di legge che ne disciplina l’ambito di intervento (cfr. art. 17, co. 3, legge n. 400/88) e che, nella fattispecie, l’art. 103, co. 16, citato, rinviava ad un decreto interministeriale [del 27 maggio 2020, n.d.r.] in via esclusiva per l’individuazione della documentazione da allegare all’istanza e non già per le modalità di presentazione dell’istanza stessa».
 
Il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo: revoca del titolo di soggiorno per allontanamento dal territorio dell’Unione europea per un periodo superiore all’anno
Il Tar Lombardia, Milano, con sentenza n. 1109/21 (R.G. 1177/2020) ha interpretato l’art. 9, co. 7, lett. d), d.lgs. 286/98 in base al quale l’assenza dal territorio dell’Unione europea da parte del titolare per un periodo di oltre dodici mesi consecutivi comporta la revoca del titolo di soggiorno nel senso che la revoca automatica del titolo di soggiorno sulla base della costatazione della mera sussistenza del superamento del detto limite temporale è illegittima, in quanto devono essere valutate le giustificazioni fornite in sede procedimentale dalla parte al fine di valutarne la rilevanza per l’integrazione dell’ipotesi dei «gravi e comprovati motivi». La presunta categoricità della norma va, infatti, interpretata unitamente al precedente comma 6, il quale nel disciplinare le assenze rilevanti ai fini della maturazione del periodo minimo necessario per poter ottenere il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo , «stabilisce che non si computano le assenze dal territorio nazionale inferiori a sei mesi e che non superino nel quinquennio la durata complessiva di dieci mesi, salvo quelle dettate “...dalla necessità di adempiere agli obblighi militari, da gravi e documentati motivi di salute ovvero da altri gravi e comprovati motivi”».
 
Il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo: rilascio del titolo di soggiorno, valutazione dei redditi delle annualità precedenti e prognosi sul futuro
Il Tar Lombardia, Milano, sentenza n. 1959/2021, ha ritenuto illegittimo il mancato riconoscimento del permesso di soggiorno di cui all’art. 9, d.lgs. 286/98 nei confronti di un richiedente precedentemente titolare di permesso di soggiorno per motivo di studio ed impegnato in studi universitari. Tale condizione non gli avrebbe permesso, durante gli studi, di procurarsi il reddito tramite attività lavorativa, mentre tale possibilità si è verificata esclusivamente negli anni successivi. In tale contesto, il requisito della disponibilità di un reddito minimo superiore all’importo dell’assegno sociale va verificata, secondo il Tar meneghino, relativamente alla annualità precedente alla richiesta, non anche a quelle ulteriori precedenti. Ciò in quanto «la finalità delle disposizioni comunitarie ed italiane riguardanti il requisito reddituale è quella di assicurare che il titolare del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo non vada a gravare sul sistema sociale dello Stato ospitante; ne consegue che, per procedere all’accertamento di tale requisito, occorre formulare, non solo una valutazione sul periodo pregresso, ma anche un giudizio prognostico che tenga conto di tutti gli elementi atti a dimostrare la perdurante futura disponibilità di risorse economiche sufficienti a garantire il mantenimento dello straniero durante tutta la sua permanenza nel territorio dello Stato (cfr. Corte di giustizia UE, sez. III, 3 ottobre 2019, causa C-302/18)».
 
Il permesso di soggiorno in favore di vittime di violenza domestica
Il Tribunale di Bari, ord. definitiva n. 5308/2021 (R.G. 38/2021) , si esprime per la prima volta in sede giurisprudenziale in merito al rilascio del permesso di soggiorno per vittime di violenza domestica di cui all’art. 18-bis d.lgs. 286/98. Il Tribunale ritiene che condizione necessaria per il rilascio del permesso di soggiorno sia il parere favorevole del P.M., il quale – essendo atto endoprocedimentale vincolante per l’Amministrazione – comporta, da un lato, la necessità che sia motivato e dall’altro che la motivazione possa essere sottoposta a controllo giurisdizionale nell’ambito del procedimento di impugnativa del provvedimento finale di rifiuto di rilascio del permesso di soggiorno emesso dal questore.
Precisa, tuttavia, il Tribunale che «Il fatto che il permesso di soggiorno ex art. 18-bis, co. 1, d.lgs. n. 286/1998 sia rilasciabile anche nel corso di un procedimento penale per il reato ex art. 572 c.p. deve essere interpretato nel senso che il parere del P.M. debba basarsi non sull’accertamento giudiziale (addirittura definitivo) dei fatti e della penale responsabilità ma sulla sussistenza di elementi concreti, in quel momento e in quella fase del procedimento penale, in ordine alla sussistenza dei fatti di violenza domestica, alla ipotizzabile responsabilità dell’accusato e al pericolo per la incolumità della vittima a seguito della scelta di costei di sottrarsi alla violenza o per effetto delle dichiarazioni dalla stessa rese…. “allo stato” degli atti e suscettibile quindi di successive ulteriori verifiche e valutazioni, finalizzate esclusivamente alla tutela della vittima».
La normativa nazionale va interpretata alla luce dell’art. 59 della Convenzione di Istanbul del 2011 (sottoscritta dall’Italia nel 2012 e ratificata con l. 77/2013) e il pericolo per l’incolumità della vittima deve essere «inteso quale diritto alla salvaguardia della integrità personale della vittima oggetto di tutela da parte della norma, in cui vanno ricomprese anche le possibili pressioni psicologiche che, pur non connotate da atti di lesione che attingano il fisico della persona, influiscano – per decisione del denunciato o per l’insorgere conseguente e inevitabile di situazioni di difficoltà – sulla libertà di autodeterminazione nel corso delle indagini e/o del processo, considerando che la vittima migrante si trova pure in una condizione generale di maggior debolezza».
All’esito del giudizio, svoltosi nella fase cautelare e in quella di merito, il Tribunale riconosce il diritto della donna straniera ricorrente di conseguire il permesso di soggiorno ex art. 18-bis d.lgs. 286/98.

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