FAMIGLIA
Qualora sussista la condizione di effettiva convivenza, i fratelli di cittadini italiani possono attivarsi per ottenere dalla questura un permesso di soggiorno ai sensi del combinato disposto degli artt. 19, d.lgs. n. 286/1998 e 28, d.p.r. n. 394 del 1999
Il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte nell’ordinanza del 14.10.2021, n. 28201, secondo cui i fratelli di cittadini italiani laddove sussista una relazione di convivenza effettiva hanno diritto al rilascio di un titolo di soggiorno potrebbe apparire scontato:
l’art. 28, d.p.r. n. 394/1998 prevede infatti che ai cittadini stranieri che convivono con parenti entro il secondo grado di cittadinanza italiana sia rilasciato un permesso di soggiorno per motivi familiari.
Dalla ricostruzione dello svolgimento del processo contenuta nel provvedimento, tuttavia, si comprende che l’Avvocatura dello Stato aveva ritenuto che l’inespellibilità sancita dall’art. 19 del d.lgs. n. 286/1998 a favore del fratello o della sorella del cittadino italiano non potesse essere letta come «un canale preferenziale (svincolato da qualsiasi requisito economico e/o abitativo) idoneo ad aggirare le vie d’ingresso ordinarie nel territorio nazionale, e con il rischio di minare la coerenza interna dell’ordinamento dell’immigrazione». Osserva la Corte che, «secondo l’amministrazione, il trend in aumento del numero di cittadini naturalizzati comporta il rischio connesso dell’aumento esponenziale dei permessi di soggiorno rilasciati per inespellibilità, sul mero presupposto dell’ospitalità (difficilmente distinguibile da una reale “convivenza” in fase istruttoria amministrativa o giudiziale) presso un parente collaterale residente in Italia».
La Corte di cassazione considera simili argomenti infondati, così come «la tesi proposta dal Ministero secondo cui la condizione di inespellibilità del parente collaterale convivente troverebbe espressione e assumerebbe rilievo solo come strumento difensivo a disposizione dello straniero a fronte dell’attivazione di provvedimenti espulsivi da parte dell’Amministrazione e non potrebbe invece giustificare la richiesta, d’iniziativa dello straniero, di un permesso di soggiorno per motivi familiari».
La prima ragione di infondatezza, riportata per seconda, è legata a ragioni di ordine testuale: il rilascio di un titolo di soggiorno è espressamente previsto dagli artt. 28 e 29 del d.p.r. n. 394/1999 che pur essendo norme di rango sub-primario, sono attuative di una norma primaria, quale l’art. 19, d.lgs. n. 286/1998.
La seconda ragione (in realtà indicata per prima nel provvedimento) è di principio ed è in questa affermazione che risiede l’interesse del provvedimento in quanto, nell’argomentare le ragioni di tale infondatezza, il Supremo Collegio afferma un principio idoneo a risolvere anche questioni giuridiche più complesse di quelle oggetto del caso concreto: il principio secondo cui «la situazione soggettiva di “inespellibilità” deve potersi tradurre in un titolo consenta di soggiornare legittimamente» e ciò in base ai «principi generali che governano la materia».
In altre parole, afferma la Corte, laddove la legge disponga l’inespellibilità, deve essere previsto il rilascio di un permesso di soggiorno. Il principio è importante perché in altri Paesi, l’inespellibilità determina esclusivamente una situazione di tolleranza di fatto, senza che lo straniero acquisisca alcun diritto al rilascio di un permesso di soggiorno.
La Corte di cassazione, invece, correttamente appare trarre dalle disposizioni normative contenute nel Testo unico vigente in Italia un vero e proprio principio generale di corrispondenza tra situazione di inespellibilità e diritto al rilascio di un titolo di soggiorno. Per queste ragioni, la pronuncia appare meritevole di segnalazione.
La circostanza che il richiedente asilo viva in Italia con il coniuge e un figlio in tenera età giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria
Con l’ordinanza del 5.11.2021, n. 32237, il Supremo Collegio ha avuto modo di affermare che la circostanza per cui il richiedente asilo viva in Italia insieme al coniuge e ad un figlio in tenera età giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria al fine di garantire l’unità familiare, e ciò anche a prescindere dalla credibilità della vicenda narrata dal medesimo richiedente.
Tale conclusione, secondo la Corte, discende dalla necessità di «procedere da un’ottica costituzionalmente orientata di assistenza dei figli minori – cui va riconosciuto il diritto ad essere educati ed accuditi all’interno del proprio nucleo familiare onde consentir loro il corretto sviluppo della propria personalità – nonché alla luce del principio sovranazionale di cui all’art. 8 CEDU, dovendo riconoscersi alla famiglia la più ampia protezione e assistenza, specie nel momento della sua formazione ed evoluzione a seguito della nascita dei figli, senza che tali principi soffrano eccezioni rappresentate dalla condizione di cittadini o di stranieri, trattandosi di diritti umani fondamentali cui può derogarsi soltanto in presenza di specifiche, motivate e gravi ragioni».
Secondo i giudici di legittimità, «costituisce indizio di vulnerabilità soggettiva, al di là ed a prescindere dalla valutazione di credibilità del richiedente asilo, la circostanza di essere allontanato dal proprio nucleo familiare e respinto nel Paese di provenienza, costituendo tale allontanamento forzato un atto destinato ad incidere significativamente sulla psiche e sulle emozioni del soggetto che si vede privato del suo diritto di partecipare al sano ed equilibrato sviluppo della propria vita familiare, segnatamente nell’ottica dell’assistenza, dell’educazione e dell’accudimento di figli minori».
Il provvedimento si inserisce nel novero delle numerose decisioni della Suprema Corte e dei giudici di merito volti a definire i nuovi confini della protezione complementare, in particolare, con riferimento alla tutela della vita familiare e privata.
In caso di richiesta di permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare, la pericolosità sociale del richiedente quale elemento ostativo al rilascio del titolo di soggiorno va fondata su circostanze concrete e attuali, mentre il richiamo a precedenti penali del richiedente, se risalenti nel tempo, può avvenire solo come elemento di sostegno indiretto, quale indicatore della personalità dello stesso
Con l’ordinanza del 27.10.2021, n. 30342, il Supremo Collegio opportunamente richiama i principi espressi dalla Corte di Giustizia in materia di bilanciamento del diritto al rispetto alla vita familiare con quello alla protezione della sicurezza applicandoli ad una fattispecie in materia di rilascio di permesso di soggiorno per motivi di coesione familiare.
La Suprema Corte afferma che la sussistenza di ragioni ostative al rilascio di tale permesso, per effetto della pericolosità sociale del richiedente, implica la formulazione di un giudizio in concreto, tale da indurre a concludere che lo straniero rappresenti una minaccia concreta ed attuale per l’ordine pubblico e la sicurezza, sì da rendere recessiva la valutazione degli ulteriori elementi contenuti nell’art. 5, co. 5, d.lgs. n. 286/1998, quali la natura e la durata dei vincoli familiari, l’esistenza di legami familiari e sociali con il Paese d’origine e, per lo straniero già presente nel territorio nazionale, la durata del permesso di soggiorno pregresso.
Ne consegue secondo il Giudice di legittimità che «al fine di non incorrere nel vizio di motivazione, è onere dell’autorità amministrativa, prima, e di quella giurisdizionale, poi, esplicitare, in base ai richiamati parametri normativi e agli elementi di fatto aggiornati all’epoca della decisione ovvero a presunzioni fondate su circostanze concrete e attuali, le ragioni di tale pericolosità rispetto alle quali il richiamo a precedenti penali del richiedente, se risalenti nel tempo, può avvenire solo come elemento di sostegno indiretto, quale indicatore della personalità dello stesso».
L’accordo di convivenza tra un cittadino italiano e un cittadino straniero sottoscritto tra i conviventi, ma non registrato in Comune, può costituire prova della convivenza al fine del rilascio della carta di soggiorno, ai sensi dell’art. 3, co. 2, direttiva 2004/38
Con l’
ordinanza del 26 novembre 2021, il Tribunale di Firenze
si pronuncia sulla questione del rilievo dell’accordo di convivenza sottoscritto dal cittadino italiano con cittadino straniero non registrato in Comune al fine dell’ottenimento della carta di soggiorno come familiare di cittadino dell’Unione europea ai sensi dell’art. 3, co. 2, lett. b), d.lgs. n. 30/2007.
La questione è frequentemente oggetto di contenzioso, dal momento che gli Uffici immigrazione al fine del riconoscimento del diritto al soggiorno sulla base di un accordo di convivenza sottoscritto in Italia chiedono la registrazione dell’accordo in Comune. I Comuni però a loro volta subordinano la registrazione alla prova della regolarità di soggiorno del cittadino straniero convivente con il cittadino italiano. Sulla questione della registrazione è di recente intervenuta una circolare del Ministero dell’interno la n. 78/2021 del 21.9.2021, che ha escluso che tali accordi possano essere registrati, in assenza di regolarità del soggiorno di uno dei conviventi.
Nel caso deciso dal Tribunale di Firenze, la coppia non era riuscita, per questa ragione, a registrare l’accordo di convivenza in Comune, ma aveva comunque richiesto alla questura il rilascio della carta di soggiorno di cui all’art. 10, d.lgs. n. 30/2007.
Il Tribunale di Firenze, chiamato a pronunciarsi sul diniego della carta di soggiorno, ha affermato che la registrazione anagrafica del contratto di convivenza non può considerarsi «condizione indefettibile per il riconoscimento del diritto di soggiorno del partner extracomunitario di cittadina italiana». Ciò dal momento che l’art. 3, co. 2, della direttiva 2004/38, recepito dall’art. 3, co. 2, d.lgs. n. 286/1998, dispone che «lo Stato membro agevoli l’ingresso e il soggiorno» del partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata con documentazione ufficiale senza prevedere forme tipizzate per tale documentazione.
Il Tribunale richiama la giurisprudenza della Corte di cassazione, già oggetto di esame nella precedente Rassegna, che riconosce come prova della sussistenza di stabile relazione e quindi della convivenza anche una dichiarazione di ospitalità (Cassazione n. 4394/2021).
La questione per la frequenza della fattispecie sarà certamente oggetto di ulteriore contenzioso in futuro; sembra comunque al momento essere prevalente l’orientamento favorevole al riconoscimento del diritto al soggiorno a favore del partner del cittadino italiano sulla base di un accordo di convivenza non registrato.
MINORI
In tema di autorizzazione alla permanenza in Italia del genitore del minore ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, il giudice del merito deve svolgere un giudizio prognostico sul disagio psicologico o fisico derivante al minore dall’eventuale rimpatrio del genitore
La Corte Suprema negli ultimi anni ha continuato nella sua opera di progressivo chiarimento della portata dell’art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998, adottando pressoché senza esclusioni interpretazioni che fanno prevalere la tutela del minore rispetto a considerazioni relative alle norme regolanti il diritto di ingresso e soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale.
Con l’ordinanza del 31.12.2021, n. 42143, i Giudici di legittimità danno indicazioni al giudice del merito sulla tipologia di giudizio richiesto dall’art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998.
Secondo la Corte di cassazione, al fine di decidere di una richiesta di temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, il giudice del merito deve svolgere un giudizio prognostico che, alla luce delle allegazioni delle parti e dei riscontri probatori anche provenienti da relazioni di agenzie pubbliche o indagini tecniche, conduca a comprendere se l’allontanamento del familiare possa determinare nel minore, «un grave disagio psicologico o fisico dovuto al rimpatrio, precisando che tale disagio può discendere anche solo dalla mancanza di una figura genitoriale di riferimento».