LO STATUS DI RIFUGIATO
Appartenenza ad un particolare gruppo sociale
Il
Tribunale di Bologna con decreto del 7.10.2021
ha riconosciuto lo status di rifugiata (pur in assenza di una espressa domanda in tal senso proposta dalla difesa) ad una donna della Nigeria, perché vittima di atti di persecuzione sotto forma di violenza di genere ed appartenente al «gruppo sociale» delle vedove.
Nel decreto in esame i giudici bolognesi hanno ravvisato l’esistenza di una persecuzione personale e diretta per l’appartenenza al gruppo sociale delle donne vedove, nella forma di «atti specificamente diretti contro un genere sessuale», da identificarsi nei rituali di vedovanza e nelle conseguenze dell’essersi la ricorrente sottratta a tali rituali. Di particolare interesse l’approfondimento istruttorio – in ossequio al dovere di cooperazione gravante sul giudice – compiuto attraverso i ricercatori EASO che supportano la Sezione specializzata del Tribunale di Bologna, relativo al trattamento discriminatorio e persecutorio delle vedove in Nigeria ed alla possibilità di qualificare i rituali di vedovanza come una forma di violenza di genere.
Ancora il
Tribunale di Bologna, con decreto reso all’esito della Camera di Consiglio del 30.9.2021
, ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una cittadina della Nigeria, fuggita dal Paese d’origine per sottrarsi all’atto persecutorio costituito dalla mutilazione genitale cui il padre e gli zii, nonostante l’età adulta (ventotto anni), volevano costringerla. La fondatezza del timore è stata ravvisata dai giudici bolognesi, anche grazie all’applicazione del principio del beneficio del dubbio (ancora molto raramente utilizzato nelle decisioni dei Tribunali), in ragione dell’omertà che circonda la pratica delle MGF, percepita come tradizionale nel contesto generale della Nigeria e come doverosa nel contesto etnico (la ricorrente appartiene al gruppo etnico degli Isoko Nord) e familiare della ricorrente e dell’inerzia delle autorità statali nel perseguirla effettivamente (nonostante le previsioni normative della sua punibilità).
L’atto persecutorio costituito dalla mutilazione genitale femminile giustifica, anche ad avviso del
Tribunale di Brescia – decreto del 2.3.2021
– il riconoscimento dello status di rifugiata in favore di una giovane donna del Ghana. Molto interessante quanto affermato dai giudici bresciani in merito al rischio prognostico in caso di rimpatrio, a fronte di una mutilazione già perpetrata: i maltrattamenti subiti dalla ricorrente dopo la mutilazione rivelano come l’assoggettamento a tale violenza di genere rappresenti una forma di controllo famigliare alla quale la ricorrente, nell’impossibilità di ricevere aiuto dalle autorità statuali, non potrebbe sottrarsi. Le conseguenze fisiche e psichiche di tale atto persecutorio non potrebbero che aggravarsi in caso di rimpatrio, proprio in ragione dell’impossibilità di ricevere supporto dalla famiglia o dallo Stato (che non ha dato alcuna attuazione alle previsioni legislative che vietano tali forme di violenza).
Con
decreto del 6.4.2021 il Tribunale di Bologna
ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una donna nigeriana, vittima di tratta a fini sessuali, in quanto appartenente ad un particolare gruppo sociale. Nel provvedimento in esame i giudici bolognesi si soffermano, in particolare, sul rischio prognostico in caso di rimpatrio, precisando come nonostante l’esperienza di tratta si sia ormai conclusa (come riferito dalla ricorrente), possa ritenersi sussistente il rischio di subire nuovi atti persecutori (con riferimento al rischio di cadere nuovamente nella rete dei trafficanti, all’esclusione sociale che subiscono le vittime di tratta una volta tornate nella propria comunità ed alla condizione di povertà in cui si trovano le dette vittime).
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 24397/2021, chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da un cittadino del Gambia, fuggito dal Paese d’origine in seguito alla scoperta del proprio orientamento omosessuale da parte delle autorità statuali, ha ribadito che la circostanza che nel Paese di provenienza del ricorrente sia previsto il reato di omosessualità rende di per sé il predetto soggetto vulnerabile in ragione del suo orientamento sessuale, che non è frutto di scelta consapevole ma di inclinazione naturale. Nella decisione in esame, i giudici di legittimità censurano la motivazione della Corte d’appello di Venezia – che ha ritenuto di precisare come il racconto del ricorrente fosse simile ad altri – precisando come il fatto che la storia possa assomigliare ad altre è circostanza priva di alcun rilievo atteso che la circostanza che l’omosessualità sia reato in Gambia «evidenzia ex se il trattamento ingiustamente discriminatorio riservato agli omosessuali, e rende tutte le loro storie inevitabilmente somiglianti, non essendo necessario alcun ulteriore circostanza, al di là della mera inclinazione sessuale dell’individuo, per far scattare la persecuzione». Del pari censurabile, ad avviso della Suprema Corte, la motivazione dei giudici di merito nella parte in cui ritengono non credibile il racconto del ricorrente perché egli, pur nella consapevolezza del rischio, aveva scelto di frequentare altre persone omosessuali. Con riferimento a tale aspetto, nella decisione in esame si legge che, ragionando come sopra «si finirebbe per affermare il principio per cui, in presenza di fenomeni repressivi delle più intime esplicazioni della personalità umana – la libera scelta sessuale rientra di certo in tale ambito – la persona sia tenuta a vivere la propria scelta di nascosto, frustrando quindi le proprie inclinazioni personali in ragione dell’esigenza di rispettare una norma sostanzialmente ingiusta».
Ancora con riferimento ad una domanda di protezione spiegata in ragione dell’orientamento omosessuale del ricorrente, la Corte di cassazione, con ordinanza n. 21394/2021, cassando una decisione del Tribunale di Milano, ha precisato che l’assunto per cui l’appartenenza a un orientamento omosessuale debba rispondere – in via necessaria (o pressoché necessaria) – a uno schema di consapevolezza sofferta, di travaglio interiore, di confusione e smarrimento, di mancanza di serenità del soggetto, «risulta affermazione in sé stessa autoreferenziale, oltre che priva, prima di tutto sul piano dell’essere, di una qualsivoglia base di razionalità scientifica». Con riferimento al rischio in caso di rimpatrio, la Suprema Corte, richiamando le linee guida UNHCR del 21.10.2012, ha ribadito come la fondatezza del timore di persecuzione debba essere stabilita in base alla valutazione della difficile situazione che il richiedente si troverebbe ad affrontare nell’ipotesi di un ritorno nel Paese di origine, senza che lo stesso sia tenuto a dimostrare che le autorità erano al corrente del suo orientamento sessuale e/o della sua identità di genere prima che egli lasciasse il suo Paese di origine.
Il
Tribunale di Milano, con decreto del 7.7.2021
ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Mali, proveniente dalla regione di Kayes, il quale era fuggito dal Paese d’origine per sottrarsi alla condizione di schiavitù nella quale la sua famiglia, ormai da generazioni, si trovava. Di particolare rilievo le argomentazioni svolte dal Tribunale in merito alla possibilità di qualificare gli schiavi come un particolare gruppo sociale: la provenienza da un’area nella quale le persone della stessa etnia del ricorrente sono nate schiave (conclusione raggiunta sulla base di un accurato e completo studio delle più aggiornate fonti di informazione), la conseguente possibilità di ritenere lo status di schiavo come «caratteristica innata» di tutte le persone provenienti dalla detta area e l’impossibilità di mutare la predetta caratteristica.
Religione
Il Tribunale di Milano, nell’esaminare la domanda di protezione spiegata da un ricorrente egiziano, di religione cristiano copta, con
decreto dell’8.9.2021
, ha precisato che, benché non vi siano informazioni che depongano nel senso di una sistematica discriminazione e persecuzione dei cristiani in Egitto, il rischio prognostico del ricorrente di essere esposto a discriminazioni in ragione della sua appartenenza alla minoranza cristiana in Egitto deve essere ritenuto sussistente in ragione del contesto socioculturale di provenienza e degli specifici atti persecutori già subiti da alcuni dei familiari. In forza dei predetti elementi ha riconosciuto al ricorrente lo status di rifugiato per motivi religiosi.
LA PROTEZIONE SUSSIDIARIA
D.lgs. 19.11.2007 n. 251, art. 14 lett. b)
Il
Tribunale di Firenze, con decreto del 15.9.2021
ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino del Senegal (il quale aveva riferito di essere stato denunciato e ricercato dalla Polizia) in ragione del ritenuto rischio effettivo di trovarsi nelle condizioni inumane e degradanti in cui versano le strutture carcerarie senegalesi. Di particolare rilievo l’esame delle fonti di informazione relative alle condizioni delle carceri in Senegal che rivelano le disumane condizioni in cui vivono i detenuti ed evidenziano altresì come le organizzazioni non governative non abbiano un’autorizzazione permanente all’ingresso nelle strutture carcerarie, ma debbano presentare domanda al direttore dell’autorità penitenziaria, che decide di volta in volta. Tale elemento, ad avviso dei giudici fiorentini, non consente un’analisi oggettiva della realtà degli istituti penitenziari poiché ben potrebbe consentire alle autorità «di preparare per tempo “l’accoglienza” degli osservatori delle Organizzazioni per i diritti umani».
D.lgs. 19.11.2007 n. 251, art. 14 lett. c)
Il
Tribunale di Catania, con decreto del 15.10.2021
ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un cittadino senegalese proveniente dalla regione di Kolda, nel territorio della Casamance. Ad avviso dei giudici catanesi il conflitto «a bassa intensità», che si protrae da oltre trent’anni, caratterizzato da un saldo radicamento nel territorio e organizzazione militare, non può ritenersi sopito (come affermato da numerose Sezioni specializzate), permanendo, invece, «una situazione politico-sociale estremamente precaria e ancora caratterizzata da scontri armati che non consente di escludere, in caso di rientro forzato, un rischio effettivo di “danno grave” da violenza indiscriminata diffusa nel senso indicato dall’art. 14 lett. c) del d.lgs. 251/2017».
Il
Tribunale di Milano, con decreto del 28.6.2021
ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un ricorrente proveniente dal territorio dell’Azad Kshmir in Pakistan. Il Collegio, dopo aver escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato (in ragione della ritenuta non credibilità delle dichiarazioni relative all’appartenenza del ricorrente al partito politico del Jammy Kashmir Liberation Front), in ossequio al dovere di cooperazione sullo stesso gravante, ha esaminato le più aggiornate fonti di informazione concludendo che la ragione del Kashmir si trova in uno stato di conflitto interno determinato dalla presenza di gruppi paramilitari che combattono per l’autonomia della zona. I predetti elementi hanno portato il Tribunale meneghino a ritenere sussistente una situazione di conflitto armato che giustifica il riconoscimento della protezione sussidiaria.
Ancora il
Tribunale di Milano, con decreto del 21.6.2021
ha ravvisato l’esistenza di un contesto di violenza indiscriminata all’interno di un conflitto armato in Burkina Faso. In particolare nel decreto esaminato si dà atto di come le più accreditate fonti di informazione sul Paese d’origine del ricorrente evidenzino serie criticità legate alla presenza di gruppi terroristici che dalla fine del 2016, nelle regioni del nord al confine con il Mali ed il Niger, e dal 2018 nelle regioni dell’est, hanno intensificato i loro attacchi. La presenza di gruppi armati non statali, il numero di attacchi terroristici, la diffusione territoriale degli stessi, la situazione di emergenza umanitaria, il numero degli sfollati interni, la tipologia dei conflitti ed il numero di morti costituiscono elementi rilevanti per il riconoscimento della protezione sussidiaria.
QUESTIONI PROCESSUALI
Domande reiterate
Il
Tribunale di Milano, con ordinanza del 18.10.2021
ha accolto il ricorso ex art. 700 c.p.c. proposto da un richiedente protezione ordinando alla questura di ricevere la domanda reiterata di protezione internazionale dallo stesso proposta. Nel provvedimento in esame, il giudice, dopo aver rilevato un contrasto tra l’art. 29-bis del d.lgs. 25 del 2008 (come introdotto dall’art. 9, comma 1, lett. d) del d.l. 4.10.2018 n. 113, convertito nella legge 1.12.2012 n. 132) e la normativa comunitaria e nazionale, ha effettuato un’interpretazione conforme della norma, accertando il diritto del ricorrente ad un esame preliminare della domanda reiterata. Con riferimento al requisito del periculum in mora, nella decisione in esame è stata sottolineata l’eccezionalità dell’emergenza sanitaria determinata dal virus Covid-19.
Il
Tribunale di Brescia, con decreto del 30 luglio 2021
ha esaminato una domanda reiterata proposta da un cittadino della Costa D’Avorio. Di peculiare interesse quanto affermato dai giudici bresciani in merito ai requisiti di ammissibilità della domanda reiterata. In particolare, nella decisione in esame, il Tribunale ritiene ammissibile non solo quanto non detto nella prima domanda dal ricorrente perché non conosciuto, ma anche quanto non detto perché il trauma prodotto e le tracce del trauma nella psiche della persona non gli consentiva, al momento della presentazione della prima domanda, di affrontare quanto accaduto e di tradurlo nel proprio racconto.
Udienza di comparizione ed audizione del ricorrente
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 32237/2021, esaminando la decisione dei giudici di merito che, dopo aver espressamente rinviato l’udienza allo scopo di rinnovare l’audizione del ricorrente, senza alcuna motivazione, decideva di non procedere a tale incombente istruttorio, ha affermato come la «inesistente motivazione» del Tribunale meneghino di non provvedere all’audizione (pur avendola ritenuta espressamente necessaria) non risulta, in astratto, conforme a diritto atteso che l’ipotetica revoca del pur disposto provvedimento di fissazione d’udienza espressamente funzionale alla nuova audizione del ricorrente, non avrebbe potuto essere deliberata senza una specifica motivazione fondata su (eventuali) fatti nuovi sopravvenuti alla prima decisione.
La Suprema Corte, con ordinanza n. 25216/2021 – con riferimento ad un motivo di ricorso proposto in ragione del fatto che il Tribunale non aveva accolto l’istanza della difesa volta ad ottenere la rinnovazione dell’audizione del ricorrente in ragione della presenza in atti delle dichiarazioni rese nella fase amministrativa – ha precisato che, a fronte dell’istanza di audizione proposta dal ricorrente, il giudice di merito deve procedere alla verifica delle ragioni giustificative addotte e pronunciarsi sulle stesse, non potendosi limitare alla mera constatazione della presenza in atti del verbale dell’audizione avanti alla Commissione per motivare il diniego della stessa.
Ancora in merito all’audizione del richiedente protezione, la Corte di cassazione, con ordinanza n. 18311/2021 ha precisato che il provvedimento del giudice, adottato sulla base del rigetto dell’istanza di audizione può essere impugnato: per «error in procedendo» ove il giudice del merito abbia negato in termini assoluti l’ammissibilità dell’incombente in una delle ipotesi in cui è, invece, astrattamente esperibile; per «violazione o falsa applicazione di legge», nel caso in cui il giudice abbia escluso l’audizione sulla base dell’erronea applicazione di norme di diritto ai fatti su cui il richiedente intenda rendere le proprie dichiarazioni; per l’anomalia motivazionale, che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, per l’assoluta mancanza di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, per motivazione apparente, per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e per motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, con riguardo alla carente indicazione delle ragioni per le quali la decisione può essere adottata allo stato degli atti.
Valutazione di credibilità
La Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi su un ricorso proposto avverso un decreto di rigetto del Tribunale di Milano, con ordinanza n. 31802/2021, ha ribadito che «in tema di valutazione della credibilità del richiedente asilo, costituisce errore di diritto, come tale censurabile anche in sede di legittimità, la valutazione delle dichiarazioni che si sostanzi nella capillare e frazionata ricerca delle singole, eventuali contraddizioni, pur talvolta esistenti, insite nella narrazione, volta che il procedimento di protezione internazionale è caratterizzato, per sua natura, da una sostanziale mancanza di contraddittorio (stante la sistematica assenza dell’organo ministeriale), con conseguente impredicabilità della diversa funzione – caratteristica del processo civile ordinario – di analitico e perspicuo bilanciamento tra posizioni e tesi contrapposte intra pares: al riguardo, è di fondamentale rilevo l’esame fatti “decisivi” del racconto del migrante, dovendosi configurare come tali tutti quelli che hanno caratterizzato la sua vulnerabilità, la quale deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio».
Ancora in merito ai criteri di valutazione della credibilità del ricorrente (la coerenza interna, la coerenza esterna, la plausibilità o verosimiglianza e la sufficienza di dettagli) la Suprema Corte, con ordinanza n. 30548/2021 ha precisato che il giudizio di verosimiglianza o plausibilità deve essere compiuto, come indicato in una pubblicazione EASO sulla valutazione delle prove (espressamente citata dalla Corte), valutando la plausibilità di fatti pertinenti nel contesto delle condizioni esistenti nel Paese d’origine e nel contesto del ricorrente.
Con specifico riferimento alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni di una richiedente cinese – la quale aveva allegato un rischio persecutorio legato a motivi religiosi – la Suprema Corte, con ordinanza n. 37657/2021, esplicitamente discostandosi dalle affermazioni contenute nella pronuncia n. 15219/2020, ha affermato che il sindacato del giudice di merito sulla sindacabilità del racconto del richiedente asilo, il quale alleghi un rischio legato all’adesione ad un determinato credo religioso, è pieno e non trova limiti in barriere che vietino al giudice indagini, compiute nel doveroso rispetto della dignità umana, circa il livello di conoscenza dei relativi riti o il percorso individuale seguito dal richiedente asilo per abbracciare il credo religioso. Molto interessante anche quanto affermato dalla Cassazione in merito al fatto che la frequentazione, da parte della ricorrente, di una chiesa evangelica in Italia ben può assumere rilievo ai fini di una tutela sur place.
Fonti di informazione (c.d. COI)
La Corte di cassazione, con ordinanza n. 22825/2021, ribadendo quanto già affermato dalla Suprema Corte (nell’ordinanza n. 262/2021) ha affermato che in tema di protezione sussidiaria ex art. 14 lett. c) del d.lgs. n. 251 del 2007, una volta che il richiedente aveva allegato i fatti costitutivi del diritto, la Corte si è limitata a richiamare genericamente «fonti internazionali», violando così il principio secondo cui il giudice è tenuto, a prescindere dalla valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente, a cooperare all’accertamento della situazione reale del Paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri officiosi di indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate, le cui fonti dovranno essere specificatamente indicate nel provvedimento, al fine di comprovare il pieno adempimento dell’onere di cooperazione istruttoria.
Ancora in materia di fonti di informazione, la Suprema Corte, dopo aver ribadito che la consultazione delle «raccomandazioni della Farnesina» – trattandosi di fonti che forniscono dati incompleti e cronologicamente generici, destinate a categorie di soggetti, come i turisti o i cittadini stranieri, non comparabili con i richiedenti protezione internazionale – non integra i requisiti di cui all’art. 8 del d.lgs. 25/2008, ha cassato la decisione della Corte d’appello di Brescia che aveva tratto le informazioni relative alla situazione del Mali, Paese di origine del richiedente, da un’unica fonte rappresentata da «Wikipedia» la quale, come espressamente riconosciuto dalla Corte «offre un’informazione di tipo generalistico ma risulta intrinsecamente inidonea a dare un quadro approfondito ed appropriato della situazione del Paese in funzione delle peculiari esigenze di tutela connesse al sistema della protezione internazionale; questo anche sotto il profilo della attualità delle informazione offerte».
Sul tema delle fonti di informazione e del dovere di cooperazione del giudice si sofferma ancora la Corte di cassazione, con ordinanza n. 26481/2021, nella quale si ribadisce come il dovere di cooperazione istruttoria rappresenti una peculiarità processuale del giudizio di protezione internazionale, cui il giudice di merito deve adempiere d’ufficio, fondando la propria decisione su fonti informative attendibili (e cioè riconducibili a quanto predicato dall’art. 8 co. 3 d.lgs. 25/2008), idonee allo scopo informativo rispetto alla vicenda narrata ed aggiornate alla data della decisione, in ragione della rapida mutevolezza delle condizioni sociopolitiche, economiche, climatiche e sanitarie dei Paesi di provenienza dei richiedenti asilo. Nella pronuncia in esame la Corte ha altresì affermato che il ricorrente non ha alcun onere di indicare specificamente, riportandone il contenuto, fonti alternative a quelle utilizzate, non essendo tenuto a supplire ad una carenza istruttoria che costituisce oggetto di uno specifico obbligo ex lege del giudice di merito.
Procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale: preclusioni istruttorie
Con ordinanza n. 37301/2021 la Suprema Corte ha affermato che le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti previsti dall’articolo 35 del d.lgs. 25 del 2008, anche per mancato riconoscimento dei presupposti per la protezione speciale a norma dell’articolo 32, co. 3, sono regolate dalle disposizioni di cui agli articoli 737 e ss. c.p.c., ove non diversamente disposto dall’articolo in esame e che, pertanto, l’acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, è ammissibile sino all’udienza di discussione in Camera di Consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio, che costituisce esigenza irrinunziabile anche nei procedimenti camerali. Nel caso di specie, in forza dei predetti principi, la Suprema Corte ha cassato la decisione del Tribunale di Catanzaro che aveva ritenuto tardiva la produzione di alcuni documenti, prodotti dal ricorrente non unitamente al ricorso introduttivo, ma solo nel corso del giudizio, a sostegno della domanda reiterata di protezione internazionale.
DIRITTO AL RILASCIO DI VISTI UMANITARI
Con
decreto 21.12.2021 RG. 62652/2021, il Tribunale di Roma
ha accolto il ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., proposto da due cittadini afghani ai quali il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale aveva opposto il silenzio sulla loro richiesta di rilascio di visti umanitari per sottrarsi a rischi imminenti per la loro incolumità, a seguito della presa di potere in Afghanistan del nuovo governo dei cd. talebani.
La controversia ha presentato notevoli profili di interesse, a partire dalla procura alle liti rilasciata dai ricorrenti senza il rispetto delle regole ordinarie che la disciplinano in caso di rilascio all’estero (legalizzazione da parte della Rappresentanza consolare italiana o apposizione dell’Apostille ex Convenzione dell’Aja del 1961), rispetto a cui la difesa dello Stato ha eccepito il difetto di legittimazione attiva. Questione risolta dopo che, verificata l’assenza di Rappresentanza consolare italiana in Afghanistan (tutte le Ambasciate occidentali hanno lasciato il Paese in agosto 2021) e la possibilità per i due ricorrenti di trasferirsi in Pakistan, il Tribunale ha consentito la sanatoria della procura, ex art. 182 c.p.c., con
ordine
all’Ambasciata italiana in Pakistan di far accedere gli interessati negli uffici, a tale fine.
Nel merito, il Tribunale di Roma ha innanzitutto accertato, alla luce di allegazioni prodotte in giudizio, l’effettiva e concreta esposizione al rischio dei ricorrenti in ragione della professione svolta di giornalisti e di attivisti di associazioni di promozione culturale prima dell’avvento del nuovo governo e dunque l’esistenza del loro diritto alla protezione. Conseguentemente ha affermato che l’unico strumento giuridico idoneo a evitare tale rischio è il rilascio del visto umanitario di cui all’art. 25 del codice visti Schengen reg. UE n. 1810/2009.
Infatti, secondo il Tribunale detta norma europea «prevede che uno Stato membro possa eccezionalmente rilasciare un visto di ingresso ad un cittadino di un Paese terzo se lo ritiene necessario per motivi umanitari, di interesse nazionale o derivanti da obblighi internazionali. Il visto è detto di validità territoriale limitata (VTL) e consente di permanere e circolare unicamente nel territorio dello Stato che lo rilascia, in deroga alle condizioni di ingresso per i cittadini terzi previsti dal codice frontiere Schengen».
Visto il cui rilascio è nella facoltà discrezionale dello Stato, come affermato sia dalla Corte di giustizia UE che dalla Corte EDU, ma che diventa un obbligo per il giudice dei diritti fondamentali davanti a cui venga rappresentata e provata l’esposizione concreta al rischio per la propria incolumità.
Così il Tribunale: «Resta il fatto che davanti ad un giudice nazionale viene prospettata, con fondamento, una posizione di rischio specifico, imminente ed attuale, di cui sono portatori due cittadini stranieri, e viene contestualmente formulata la richiesta di adottare un provvedimento che possa scongiurare la concretizzazione di tale rischio ed il verificarsi di danni potenzialmente irreparabili. Si deve ritenere che tale condizione integri pienamente la ricorrenza dei motivi umanitari prefigurati dal codice visti, facendo scattare quella che – se per le autorità statali costituisce una mera facoltà – per il giudice dei diritti fondamentali rappresenta invece una attività doverosa: il nostro ordinamento attribuisce infatti al giudice il compito di adottare i provvedimenti di urgenza che appaiono secondo le circostanze più idonei a salvaguardare la posizione di chi ha fondato timore che durante il tempo occorrente per far valere il proprio diritto in via ordinaria questo sia minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile».
Irrilevante è, in tale prospettiva, dimostrare quale sarà la condizione di soggiorno dei ricorrenti una volta entrati in Italia, in quanto il visto ex art. 25 codice visti Schengen ha la funzione di preservare i richiedenti da un pericolo imminente nel Paese di origine.
La vicenda decisa dal Tribunale di Roma riveste una particolare importanza, perché risulta la prima in Italia a applicare direttamente, in sede giudiziale, l’art. 25 reg. UE n. 810/2009 e può avere uno straordinario impatto in tutte quelle situazioni nelle quali sia accertato un pericolo concreto e imminente per potenziali richiedenti asilo, per i quali non esistono, tuttavia, altri percorsi legali di ingresso in Italia (ma anche nell’Unione europea).
La vicenda ha avuto uno strascico altrettanto importante ma giudizialmente meno lineare. A fronte delle proposte del Ministero degli affari esteri di rilasciare il visto ordinato dal Tribunale nell’ambito dei corridoi umanitari, di cui al Protocollo per l’Afghanistan sottoscritto il 4.11.2021, o di dimostrare un percorso di accoglienza e integrazione «stabile, strutturato e duraturo, oltre che dotato dell’opportuna copertura finanziaria», i ricorrenti hanno rifiutato le stesse, presentando al Tribunale un ricorso ex art. 669-duodecies c.p.c. chiedendo all’autorità giudiziaria di chiarire le modalità di esecuzione dell’ordinanza 21.12.2021.
Con decreto 14.1.2022 il Tribunale di Roma ha rinvenuto nelle proposte del Ministero un comportamento ostruzionistico in quanto «il provvedimento emesso da questo ufficio non ha ad oggetto l’ordine di inserimento dei due ricorrenti nel corridoio umanitario per afghani dal Pakistan, bensì il rilascio in via autonoma di altrettanti VTL, sulla base di motivate ragioni di urgenza ed indifferibilità della cautela» e la richiesta di documentare un percorso di soggiorno stabile, strutturato e duraturo è stata «del tutto arbitrariamente inserita tra i requisiti pretesi per l’attuazione del provvedimento, stante la natura incondizionata dell’ordine giudiziale».
Conseguentemente,
il giudice ha ordinato al MAECI
di rilasciare i visti umanitari ex art. 25 codice visti Schengen entro 10 gg.
Tuttavia, in sede di reclamo, il
Tribunale di Roma
in composizione collegiale ha sospeso l’ordinanza del 21.12.2021 al fine di verificare l’avvio della fase attuativa dei corridoi umanitari.
LA PROTEZIONE UMANITARIA
La protezione umanitaria e la cd. comparazione attenuata
L’ordinanza n. 41778/2021 della Corte di cassazione, dopo avere ritenuto inammissibili i profili di ricorso con i quali il richiedente asilo della Nigeria contestava il giudizio di non credibilità del giudice di merito (essendo critica di merito inammissibile davanti al Giudice di legittimità), ha accolto il ricorso nella parte in cui è stata proposta la critica alla sentenza della Corte d’appello di Venezia che ha negato anche la protezione umanitaria senza effettuare una verifica del percorso di integrazione in Italia e delle condizioni alle quali il richiedente sarebbe esposto in caso di rientro nel Paese.
La Corte precisa, innanzitutto, che lo scrutino riguarda l’istituto della protezione umanitaria previgente alla riforma operata dal d.l. 113/2018 (Cass., SU, 29459/2019) ma evidenzia che esso deve tenere conto anche degli sviluppi ermeneutici indicati dalla ancora più recente Cassazione a Sezioni unite n. 24413/2021 [n.d.r. intervenuta dopo l’ulteriore riforma dell’istituto introdotta dal d.l. 130/2020], che ha «ratificato» il principio (già introdotto in pronunce delle sezioni semplici,) della cd. comparazione attenuata. Infatti «ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie deve instaurarsi una relazione di proporzionalità inversa tra fatti giuridicamente rilevanti, che impone un peculiare bilanciamento tra la condizione soggettiva del richiedente asilo e la situazione oggettiva del Paese di eventuale rimpatrio; il principio va ricondotto in termini generali al paradigma del modello di comparazione, cd. “attenuata”».
Principio che, applicato caso per caso, può condurre a dare maggiore rilievo al percorso di integrazione in Italia del richiedente asilo qualora le condizioni nel Paese di origine siano di deprivazione dei diritti fondamentali, potendo peraltro accadere che il “peso” dell’integrazione sia del tutto irrilevante qualora siano accertate «situazioni di particolare gravità (quali la seria esposizione alla lesione dei diritti fondamentali alla vita o alla salute, conseguente, ad esempio, a eventi calamitosi o a crisi geopolitiche che abbiano generato situazioni di radicale mancanza di generi di prima necessità)».
Per altro verso, secondo la pronuncia in commento, se il livello di integrazione del richiedente in Italia è effettivo ed elevato, il ritorno nel Paese può determinare un significativo scadimento delle condizioni di vita privata o familiare, sì da consentire il riconoscimento della protezione umanitaria ex art. 5, co. 6, TU 286/98 in relazione all’art. 8 CEDU.
Cassazione secondo cui è irrilevante che vi sia stato un giudizio negativo sulla credibilità del richiedente asilo, in quanto le uniche ipotesi nelle quali questa può incidere afferiscono all’incertezza sulla identità o sulla nazionalità. Al riguardo, la Corte di legittimità si confronta con la giurisprudenza secondo cui «la necessità dell’approfondimento da parte del giudice di merito non sussiste se, già esclusa la credibilità del richiedente, non siano state dedotte ragioni di vulnerabilità diverse da quelle dedotte per le protezioni maggiori (sez. 1, n. 29624 del 24.12.2020, Rv. 660128 - 01).», affermando che «la vulnerabilità scaturisce dall’integrazione e dal radicamento realizzati dal richiedente asilo, meritevoli di protezione ai sensi dell’art. 8 CEDU, posti a raffronto con la situazione in cui egli si verrebbe a trovare nel Paese di origine e quindi proprio da circostanze intrinsecamente “diverse da quelle dedotte per le protezioni maggiori”».
L’ordinanza n. 41786/2021 la Cassazione, pur richiamando i medesimi principi della precedente in rassegna, in materia di protezione umanitaria, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un richiedente asilo del Pakistan perché ha mancato di assolvere al proprio onere di allegazione del percorso integrativo seguito in Italia, proponendo doglianze generiche e senza indicare in quale fase del giudizio abbia prodotto documentazione ad esso relativa.
Con l’occasione la Corte ricorda la ripartizione tra dovere di allegazione del richiedente di elementi che riguardano la sua domanda e dovere di cooperazione istruttoria che afferisce al versante della prova, rispetto al quale, in presenza di precise allegazioni, sorge il dovere del giudice di cooperare con il richiedente acquisendo le informazioni «limitatamente alle circostanze concernenti la situazione sociale, economica o politica del Paese di provenienza del richiedente e non, quindi, relativamente alle circostanze attinenti alla integrazione sociale, culturale, lavorativa e familiare del richiedente asilo in Italia».
Pronuncia che interroga, implicitamente, il ruolo dell’avvocatura, che deve essere bene a conoscenza della natura del giudizio di protezione internazionale ma anche di quello di legittimità, in cui non solo non possono essere dedotti profili che riguardino il merito della valutazione operata dal giudice di 1^ o 2^ grado, ma è retto dal principio di autosufficienza, tale per cui è onere della difesa indicare in quali atti e/o in quale fase processuale ha ottemperato compiutamente al dovere di allegazione.
Protezione umanitaria e violenze nel Paese di transito (Libia)
In tema di rilevanza delle violenze subite nei Paesi di transito interviene l’ordinanza della Corte di cassazione n. 25734/2021, in un giudizio proposto da un richiedente asilo del Mali, a cui il Tribunale di Verona e la Corte d’appello di Venezia avevano negato il riconoscimento di ogni forma di protezione per difetto di credibilità. La Corte ricorda i criteri in materia di valutazione della credibilità, escludendo che nel caso di specie il giudice di merito li abbia disapplicati (analitica è la ricostruzione dell’iter motivazione della sentenza d’appello), ma censura, invece, il diniego di riconoscimento della protezione umanitaria per avere omesso di accertare l’attualità la situazione in Mali, ancorandosi a fonti di informazioni precedenti quelle più recenti allegate dal ricorrente e per avere fondato il diniego sul giudizio negativo di credibilità. Secondo la Cassazione, infatti, la credibilità non rileva ai fini della tutela complementare, il cui accertamento riguarda la comparazione tra la condizione attuale del richiedente e l’esposizione a rischio di «violazione del nucleo incomprimibile dei diritti della persona che ne vulnerino la dignità». Comparazione che origina dal precetto di cui all’art. 10, co. 3 della Costituzione anche se si ritenga che esso sia stato interamente attuato dalla legislazione in materia di protezione internazionale, in quanto «tale indirizzo (non da tutti condiviso) deve pur sempre confrontarsi con la norma costituzionale (e con le norme sovranazionali), di rango superiore in sede di interpretazione della legge ordinaria, escludendone l’applicabilità tutte le volte che tale interpretazione si ponga in conflitto con la norma gerarchicamente sovraordinata».
Quello che la Cassazione censura al giudice di merito è di non avere assolto al dovere di cooperazione (cioè di accertamento della situazione nel Paese di origine), ai fini della protezione umanitaria, per la sola ragione della ritenuta non credibilità delle dichiarazioni del richiedente, quando invece il paradigma normativo da essa prescinde.
Inoltre, la Corte censura il giudice d’appello anche nella parte in cui ha escluso la rilevanza di quanto subito dal richiedente in Libia, Paese di transito, perché in totale dissonanza rispetto al disposto di cui all’art. 8, co. 3, d.lgs. 25/2008, senza, peraltro, avere posto in dubbio che egli abbia ivi effettivamente subito violenze ma escludendone la rilevanza perché il rimpatrio non avverrebbe in Libia ma nel Paese di origine.
Interpretazione, afferma la Cassazione, che comporterebbe una «sostanziale abrogazione dell’art. 8 del d.lgs. 251/2007 poiché la rilevanza della situazione del richiedente asilo con riferimento al Paese di transito non potrebbe mai riguardare l’eventualità del rimpatrio, da individuarsi ex lege nel Paese di origine».
Invero, per dare alla norma corretta applicazione, quanto avvenuto nei Paesi di transito assume rilevanza per accertare se i trattamenti ivi subiti possano avere inciso sulla vulnerabilità del richiedente (di cui la Cassazione precisa il concetto etimologico), la quale, se rinvenuta, rappresenta uno dei corni di valutazione comparativa, necessariamente attenuata: «quanto più risulti accertata in giudizio (con valutazione di merito incensurabile in sede di legittimità se scevra da vizi logico-giuridici che ne inficino la motivazione conducendola al di sotto del minimo costituzionale richiesto dalle stesse Sezioni unite con la sentenza 8053/2014) una situazione di particolare, di grave, o addirittura di eccezionale vulnerabilità, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il secundum comparationis, costituito dalla situazione oggettiva del Paese di rimpatrio, onde la conseguente attenuazione dei criteri rappresentati “dalla privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”».
Interessante anche il passaggio in cui la Corte afferma che «Può legittimamente ricondursi alle massime di comune esperienza (che, giusta l’insegnamento di cui a Cass., SU., 26792/2008, costituiscono un mezzo di prova di pari dignità rappresentativa rispetto alla prova storica o documentale), il convincimento per il quale la condizione emotiva di una persona che, approdato in Italia dopo una traumatica esperienza nei campi di prigionia libici, si vede costretto ad abbandonare il Paese di accoglienza ben possa integrare gli estremi della grave vulnerabilità».
Infine, la Corte censura la decisione d’appello anche nella parte in cui ha omesso di valutare il grado di integrazione del richiedente asilo in Italia, nonostante le allegazioni offerte in giudizio.
Protezione umanitaria e rischio di matrimonio forzato (Gambia)
L’ordinanza n. 31801/2021 della Cassazione censura il decreto con cui il Tribunale di Milano ha negato a donna richiedente asilo del Gambia la protezione umanitaria, omettendo di effettuare una reale comparazione tra la situazione nel Paese di origine in relazione al rischio di matrimonio forzato, su cui la richiedente aveva motivato la sua domanda di protezione, e il percorso di integrazione seguito in Italia, pur allegato in giudizio.
La Corte ribadisce che il giudizio sulla credibilità non rileva ai fini dell’accertamento della tutela complementare, a differenza che per le protezioni maggiori, e che il giudice deve accertare la situazione nel Paese di origine per la valutazione sulla vulnerabilità della richiedente, «proprio al fine di accertare se l’aspirazione ad una esistenza migliore fosse meramente riconducibile ad una mera questione economica (in assenza di una condizione di povertà inemendabile nel Paese di origine) o rappresentasse, invece, il risultato di una ribellione ad una condizione di sacrificio della proprio dignità tale da configurare quelle ragioni umanitarie sulle quali è fondato il riconoscimento della tutela garantita dall’art. 5, co. 6, d.lgs. 286/1998».
La protezione speciale nel regime transitorio
Con un lungo
decreto del 13.10.2021 RG. 4781/2019, il Tribunale di Lecce
ha riconosciuto a richiedente asilo della Costa d’Avorio la protezione speciale, in ragione dell’instabile situazione nel Paese di origine, del lungo tempo trascorso dal richiedente fuori dal Paese e tenuto conto del positivo percorso di integrazione allegato in giudizio.
La pronuncia è interessante per il richiamo ai criteri interpretativi elaborati dalla giurisprudenza di Cassazione per la valutazione della credibilità, soggettiva e oggettiva, e per l’ampia e dettagliata indicazione delle COI sulla Costa d’Avorio, sulla base delle quali il Tribunale ha escluso che al richiedente possa essere riconosciuto il rifugio politico o la protezione sussidiaria ma che hanno consentito il riconoscimento della protezione speciale.
Interessante è anche la ricostruzione degli istituti della protezione umanitaria e di quella speciale, introdotta dal d.l. 130/2020 e applicabile nel giudizio per effetto di quanto disposto dall’art. 13 di detto decreto legge. Dal raffronto delle due tutele il Tribunale ha ritenuto che «la nuova disciplina, in particolare, con il ripristino nel comma 6 dell’art. 5 del d.lgs. 1998 dell’inciso: “fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali dello Stato italiano” e la sostituzione del comma 1.1. dell’articolo 19 del medesimo decreto legislativo, abbia in sostanza operato una sorta di reviviscenza della vecchia protezione umanitaria, potenziandone l’applicazione e chiarendo i relativi presupposti, sulle orme del percorso tracciato dai principi affermati nel corso dell’ultimo decennio dalla gran parte dei giudici di merito con l’avallo della Suprema Corte», affermando dunque che «la significativa rivisitazione, in particolare delle due norme di cui innanzi, operata dal legislatore con il decreto legge in esame, oltre alla resurrezione di fatto della protezione umanitaria (previgente al d.l. n. 113/2018), integri un’emblematica sintesi dei principii andati via via affermandosi nel corso degli ultimi anni nella giurisprudenza più sensibile ed attenta alle problematiche connesse alla grave tragedia umanitaria contemporanea costituita dell’inarrestabile fenomeno migratorio».
Applicati detti principi al caso di specie, il Tribunale ha rinvenuto nel richiedente una vulnerabilità oggettiva «in relazione al Paese di origine del richiedente, correlata agli effetti di altissimi livelli di fame e di povertà che provocano i disordini politici sviluppatisi negli ultimi mesi».
LA PROTEZIONE SPECIALE
La protezione speciale richiesta al questore e l’accertamento in giudizio del diritto
Il
Tribunale di Milano, con decreto 8.11.2021 RG. 20199/2021
, ha accolto il ricorso proposto da un cittadino straniero che aveva presentato al questore domanda di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale, ex art. 19, commi 1, 1.1 e 1.2 TU d.lgs. 286/98, diniegata dall’Autorità di P.S. perché già oggetto di diniego nel 2020, prima della riforma operata dal d.l. 130/2020.
Il giudice meneghino ha dichiarato inammissibile la domanda giudiziale di ordinare alla questura il rilascio del permesso per protezione speciale, non essendo consentito all’autorità giudiziaria ordinare un facere alla PA, mentre ha riconosciuto il diritto del cittadino straniero al rilascio di detto permesso.
Nella pronuncia si dà conto, innanzitutto, che la circolare del Ministero dell’interno del 19.3.2021 (secondo cui non era possibile presentare direttamente al questore la domanda di rilascio del permesso per protezione speciale) è stata superata da quella della Commissione nazionale asilo del 19.7.2021, che riconosce l’esistenza di due percorsi per il riconoscimento della protezione speciale, ovverosia nell’ambito del procedimento di protezione internazionale oppure con domanda diretta al questore.
Sul piano processuale, il Tribunale ha ritenuto applicabile il rito di cui all’art. 19-ter d.lgs. 150/2011, previsto in materia di giudizio per la protezione umanitaria ex art. 5, co. 6 TUI, in quanto la nuova protezione speciale richiama espressamente anche detta norma, oltre al fatto che vi è sostanziale continuità tra i due istituti e a fronte di diritti soggettivi il giudice naturale è certamente il Tribunale ordinario.
Nel merito, la pronuncia ha affermato il potere del giudice di valutare le condizioni di vita del richiedente protezione al fine di verificare se il respingimento/rimpatrio comporterebbe lesione alla sua vita privata e familiare, tenendo conto dei criteri di valutazione indicati dall’art. 19, co. 1.1 TUI. Verifica che il Tribunale ha effettuato ricostruendo il percorso di vita e lavorativo del ricorrente, accertando la sua effettiva integrazione in Italia e arrivando, in conclusione, al riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale.
Trattasi di una delle poche pronunce di merito, successive alla riforma del 2020, con le quali il giudice riconosce il diritto alla protezione speciale e non, semplicemente, alla presentazione della domanda al questore con avvio del sub-procedimento per l’acquisizione del parere da parte della Commissione territoriale, come previsto dall’art. 19, co. 1.1 TUI. Pronuncia che, allo stato, appare minoritaria.
I provvedimenti di irricevibilità per mancanza di passaporto
Il
Tribunale di Bologna, con decreto 29.12.2021 RG. 15058/2021
, ha accolto il ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., proposto da un cittadino straniero che aveva presentato alla questura domanda di rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale e al quale era stato dato immediatamente un provvedimento di irricevibilità per mancanza di passaporto (trattavasi di ex richiedente asilo).
Con decreto inaudita altera parte il giudice felsineo ha precisato che la categoria della irricevibilità, di cui all’art. 2, co. 1, legge 241/90, deve essere di stretta interpretazione in materia di diritti soggettivi devoluti alla competenza del giudice ordinario, perché un’estensione della sua applicazione «rischierebbe di sottrarre la domanda al proprio giudice naturale». Ciò è tanto più necessario in materia di protezione internazionale o complementare, in quanto il provvedimento amministrativo deve acquisire l’obbligatorio parere della Commissione territoriale.
Richiamata anche la circolare della Commissione nazionale asilo del 19,7.2021 (laddove differenzia l’ammissibilità della domanda dalla sua fondatezza e afferma che il richiedente protezione speciale allega alla domanda la documentazione che egli ritiene pertinente al proprio diritto), il Tribunale afferma che la carenza documentale, anche se fosse decisiva ai fini della decisione, non può mai dare adito a irricevibilità o inammissibilità, che può essere giustificata solo se risulti ictu oculi che il richiedente non abbia la titolarità del diritto soggettivo (ad esempio: cittadino italiano), mentre la (ritenuta) carenza documentale dovrà essere oggetto di valutazione nel merito dell’accertamento del diritto alla protezione speciale.
Quanto alla richiesta, formulata nel ricorso, di accertamento del diritto alla protezione speciale, il Tribunale l’ha ritenuta inammissibile perché intervenuta prima del procedimento amministrativo delineato dal legislatore.
Questione, quest’ultima, differente da quella decisa dal Tribunale di Milano, sopra richiamata.
Sempre il
Tribunale di Bologna, con ordinanza 14.12.2021 RG. 13474/2021
, ha accolto il ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., proposto da un cittadino straniero, già minore non accompagnato, il quale aveva chiesto alla questura il rilascio di un permesso per protezione speciale (ex art. 19, commi 1.1 e 1.2 TU d.lgs. 286/98) e in via subordinata quello per lavoro (ex art. 32 TU d.lgs. 286/98) e al quale era stato notificato immediatamente un provvedimento di irricevibilità per il primo (ndr: motivato «in quanto ancora titolare di permesso di soggiorno per motivi di affidamento valido fino al 11.1.2022») e rilasciato il cedolino, invece, per il secondo.
Il Tribunale ha censurato il provvedimento questorile evidenziando che l’art. 5, co. 4, TUI prevede che la richiesta di rinnovo del permesso sia presentata almeno 60 gg. prima della scadenza del titolo e dunque ben può essere presentata anche precedentemente. Nel contempo ha riconosciuto il diritto del giovane a presentare la domanda di rilascio del permesso per protezione speciale, con dovere del questore di trasmettere la richiesta di parere alla Commissione territoriale, ex art. 19, co. 1.2, TUI.
Diniego di rinnovo del permesso per protezione umanitaria e accertamento della protezione speciale
Il
Tribunale di Napoli, con decreto 2.12.2021 RG. 26194/2020
, ha riconosciuto la protezione speciale ex art. 19, commi 1, 1.1 e 1.2, TU d.lgs. 286/98 a cittadino della Guinea, già titolare di permesso per protezione umanitaria riconosciutogli dalla Commissione territoriale per ragioni di salute, al quale il questore aveva negato il rinnovo del titolo sulla base di un parere negativo della predetta Commissione, motivato sul superamento delle ragioni sanitarie.
Nella pronuncia si ricostruisce la successione legislativa 2018 e 2020, si confrontano i due istituti della protezione umanitaria e di quella speciale di nuovo conio, arrivando a concludere che vi è «continuità di disciplina tra la protezione umanitaria di cui all’art. 5, comma 6, TUI, nel testo vigente quando il permesso fu riconosciuto, e la protezione speciale, di cui all’art. 19 comma 1.1, come introdotto dal d.l. 130», perché sovrapponibili le nuove disposizioni a quelle che regolavano la “vecchia” protezione umanitaria come interpretata dalla giurisprudenza, in quanto in entrambi i casi «ricognitivi del diritto dello straniero, che versi in condizioni di un concreto bisogno di aiuto, di ricevere protezione dallo Stato ospitante in virtù del dovere di solidarietà sociale assicurato dall’art. 2 Cost., affinché egli non subisca, in caso di rimpatrio nel Paese di origine, il rischio di una grave deprivazione dei diritti fondamentali, che gli spettano non in quanto partecipe di una determinata comunità politica, ma in quanto essere umano, non potendo la sua condizione giuridica di straniero giustificare trattamenti diversificati e peggiorativi (Corte cost. 10 aprile 2001, n.105; 8 luglio 2010, n. 249)».
Dopo un passaggio non chiarissimo o forse non adeguatamente sviluppato (in cui il Tribunale afferma necessaria anche per la nuova protezione speciale la comparazione tra condizioni di vita attuale e il rischio di esposizione a lesione di diritti fondamentali in caso di rimpatrio), il giudice partenopeo esamina la situazione in Guinea alla luce di precise e aggiornate COI (relative al colpo di Stato avvenuto nel settembre 2021, alla violazione di diritti umani perpetrata dalle forza di sicurezza in occasione della pandemia da COVID-19 e alla ripresa di altre emergenze sanitarie quali Ebola e il virus di Marburg), arrivando a riconoscere al richiedente la protezione speciale perché «Questo clima di instabilità politica e le sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate in Guinea, che per fatto non contestato è il Paese di origine del ricorrente, non possono, dunque, che rendere, ancora all’attualità, quest’ultimo inespellibile, ai sensi dell’art. 19, co. 1.1. TUI, essendovi il concreto rischio che lo stesso, tornando nel suo Paese, possa subire la violazione grave dei suoi diritti fondamentali, subendone l’inaccettabile deprivazione, in particolare alla salute».
DIRITTI - VARIE
Conversione permesso di soggiorno per asilo o protezione umanitaria in permesso per lavoro
Il Tar Marche, con ordinanza cautelare n. 314/2021 RG. 449/2021, ha concesso la sospensiva del provvedimento con cui il questore aveva negato a cittadino straniero titolare di permesso per asilo la conversione in permesso per lavoro. Il giudice marchigiano afferma che, pur avendo l’amministrazione indicato nel provvedimento di diniego la possibilità per il richiedente di presentare un’altra domanda di permesso, ciò rappresenta un aggravio procedimentale (escluso dall’art. 1 legge 241/90) e la PA avrebbe dovuto esaminare la richiesta ai sensi dell’art. 5, co. 5, TU d.lgs. 286/98 (ndr: elementi nuovi sopravvenuti).
Il Tar ha ordinato, dunque, al questore di riesaminare la domanda di conversione, in contraddittorio con il richiedente tenuto a rappresentare adeguatamente la propria condizione, e con termine di 60 giorni per la definizione del procedimento.
Con ordinanza n. 318/2021 RG. 505/2021 il Tar Lombardia, Brescia, ha sospeso il provvedimento con cui la questura aveva negato a persona straniera la conversione del permesso di soggiorno da protezione umanitaria a lavoro per mancanza di passaporto.
Il giudice regionale evidenzia che la regola generale che richiede l’esibizione del passaporto per l’ingresso e il soggiorno della persona straniera in Italia (artt. 4, co. 1 e 5, co. 1 TU 286/98 e art. 9, co. 3 d.p.r. 394/99) presenta un’eccezione per i richiedenti asilo (art. 9, co. 6 d.p.r. 394/99), intendendo che detta categoria si riferisca «all’insieme delle posizioni collegate in via diretta o graduata al diritto di asilo, e riguardi pertanto anche i richiedenti protezione internazionale e i titolari di permessi di soggiorno per motivi umanitari o per protezione speciale. In tutti questi casi, infatti, la ricerca di un contatto con le autorità del Paese di origine, e a maggior ragione il rientro, potrebbe risultare inutile o esporre a rischi personali».
Precisa ulteriormente il Tar che, quando si esce dall’ambito dell’asilo e si chiede un permesso di soggiorno ordinario, la regola generale viene ripristinata, con onere di esibizione del passaporto o di un titolo equipollente, perché solo in tal modo le autorità italiane hanno certezza dell’identità della persona straniera; esigenza che recede solo quando la tutela del singolo prevalga sulle esigenze di certezza della PA, come nel caso dell’asilo.
Tuttavia, la mancanza di passaporto in fase di conversione del permesso umanitario in lavoro non può determinare automaticamente il diniego perché è necessario «gestire ordinatamente la transizione dalla situazione di emergenza a quella del soggiorno per motivi di lavoro», accertando se sia effettivamente impossibile per la persona ottenere in Italia il passaporto o se sia necessario un suo rientro nel Paese di origine, senza pregiudizio per la sua incolumità. Accertamento che il Tar afferma essere onere dell’autorità di P.S., che dovrà inoltrare richiesta di chiarimenti all’Ambasciata del Paese di origine del ricorrente e, in caso di silenzio entro 60 gg., dovrà rilasciare il permesso di soggiorno “condizionato” per attesa occupazione o per lavoro (a seconda della documentazione offerta dal ricorrente), «rinviando alla fase di rinnovo del suddetto titolo l’obbligo per il ricorrente di allegare un passaporto in corso di validità».
PROTEZIONE SUSSIDIARIA, RINNOVO DEL PERMESSO E ALLOGGIO
Il
Tribunale di Bologna, con ordinanza 28.10.2021 RG. 11207/2021
, ha accolto un ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., proposto da un cittadino straniero beneficiario di protezione sussidiaria, al quale la questura aveva dichiarato irricevibile l’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per ritenuta inidoneità della documentazione relativa all’alloggio.
Il giudice bolognese precisa la netta distinzione tra ricevibilità dell’istanza e valutazione nel merito della domanda, che è affidata alla competente autorità amministrativa, nel caso di specie alla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.
Nel merito, il Tribunale afferma l’illegittimità del provvedimento questorile sia perché l’irricevibilità si traduce in una valutazione di merito rispetto a cui il questore è incompetente, sia perché l’art. 23 d.lgs. 251/2007, in materia di protezione sussidiaria, «non subordina il rinnovo ad altri adempimenti o ad altre condizioni (diverse dalla valutazione della persistenza dei presupposti che avevano consentito il riconoscimento di tale protezione internazionale)».
PROTEZIONE SUSSIDIARIA E TITOLO DI VIAGGIO
Davanti al Tar Sicilia, Palermo, è stato proposto ricorso da persona straniera titolare di permesso per protezione sussidiaria, al quale la questura aveva negato il rilascio del titolo di viaggio (già in precedenza rilasciato) motivato in ragione di un procedimento in corso per la revoca della protezione, per avere fornito generalità diverse al momento dell’ingresso in Italia e per non avere dimostrato l’impossibilità di ottenere dal proprio Paese il passaporto. Con sentenza in forma abbreviata n. 3382/2021 RG. 1871/2021 il Tar Palermo ha accolto il ricorso rilevando, quanto alle diverse generalità fornite, che il rilascio di successivi permessi di soggiorno consente di ritenere superata la difformità anagrafica e quanto al procedimento di revoca che l’amministrazione dello Stato non ha dimostrato che sia stato effettivamente avviato o comunque che si sia concluso negativamente per il ricorrente.
Nel merito, il giudice regionale ha ritenuto che le ragioni che avevano indotto la competente autorità a riconoscere al richiedente la protezione sussidiaria sono le stesse che giustificano il rilascio del titolo di soggiorno e che escludono possa rivolgersi alle autorità del suo Paese per acquisire il passaporto (art. 24 d.lgs. 251/2007), in quanto «sarebbe, infatti, del tutto illogico e irrazionale, da un lato, tutelare il soggetto da un danno grave, così come definito dall’art. 14 del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, cui il titolare dello status di protezione sussidiaria andrebbe incontro nel proprio Paese di origine, e, dall’altro, imporre al medesimo soggetto di contattare obbligatoriamente le autorità del responsabile di tale danno ai fini del rilascio del titolo di viaggio connesso alla titolarità dello status di protezione sussidiaria (v. ex plurimis Tar Campania, sede di Napoli, 6/21.7.2021, sentenza n. 5329; Tar Veneto, sede di Venezia, 8/15.9.2021, sentenza n. 1097)».
MINORI E RICHIESTA DI RICONOSCIMENTO PROTEZIONE INTERNAZIONALE
Con ordinanza cautelare ex art. 700 c.p.c, del
6.12.2021 RG. 60165/2021 il Tribunale di Roma
ha censurato il rifiuto della questura di consentire ai figli minori di richiedente asilo di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale insieme alla madre; rifiuto che era stato motivato per l’assenza di certificati di nascita legalizzati dall’autorità consolare del Paese di origine.
Il giudice ha verificato l’effettività del rapporto genitoriale attraverso copia dei certificati di nascita (non legalizzati) per cinque dei sei figli e altra varia documentazione, mentre solo per uno mancava il solo certificato di nascita. Pertanto, richiamati l’art. 6 direttiva 2013/32/UE (che vieta alle PA di chiedere documentazione aggiuntiva al richiedente asilo in fase di presentazione della domanda di protezione) e l’art. 6 d.lgs. 25/2008 (che consente ai minori di presentare la domanda di protezione per il tramite dei genitori), il Tribunale ha ritenuto sproporzionata la richiesta della questura di documentare il rapporto genitoriale con esame del DNA e privo di potere discrezionale il questore di rifiutare la presentazione della domanda di protezione, conseguentemente ordinando all’autorità di P.S. di riceverla per tutti i figli minori della richiedente asilo.