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Fascicolo 1, Marzo 2023


«Ogni classificazione delle popolazioni è arbitraria. Trovo disgustosa la situazione attuale e ammiro chi si oppone ma soprattutto l’ostinazione e il coraggio straordinario dei migranti»

(Étienne Balibar, in Confini, mobilità e migrazioni. Una cartografia dello spazio europeo, a cura di Lorenzo Navone, Milano, AgenziaX, 2020).

Famiglia e minori

Ricongiungimento familiare del minore non accompagnato che sia stato riconosciuto come rifugiato in un Paese europeo con i genitori – non ostatività dell’eventuale matrimonio del minore non accompagnato.
Nel caso di ricongiungimento familiare di un genitore con un figlio minore non accompagnato che abbia ottenuto lo status di rifugiato, la circostanza che il minore risulti coniugato non osta al diritto del minore di ottenere il ricongiungimento con i genitori (Corte di Giustizia, 17 novembre 2022, causa C-230/21).
Con la decisione in esame, la Corte di Giustizia è stata chiamata a chiarire se possa ottenere il ricongiungimento con i genitori anche il minore non accompagnato rifugiato che risulti coniugato.
Il diritto del minore non accompagnato cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato a ricongiungersi con i genitori trova la propria fonte nell’articolo 10, paragrafo 3, lett. a) della direttiva 2003/86 che prevede: «Se il rifugiato è un minore non accompagnato, gli Stati membri: a) autorizzano l’ingresso e il soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare degli ascendenti diretti di primo grado, senza applicare le condizioni previste all’articolo 4, paragrafo 2, lettera a)», condizioni che prevedono la possibilità che gli Stati membri autorizzino il ricongiungimento dei genitori ai figli, nel caso in cui i primi siano a carico dei secondi e non dispongano di un adeguato sostegno nel Paese di origine.
Nel caso esaminato, il Ministro del Belgio aveva negato il ricongiungimento del padre alla figlia minorenne che aveva ottenuto lo status di rifugiata in Belgio, sulla base della considerazione che la famiglia nucleare era costituita dai coniugi e dai figli minorenni non coniugati, con la conseguenza che la minore, avendo contratto matrimonio, non apparteneva più alla famiglia nucleare dei genitori.
La Corte di Giustizia ritiene infondata tale interpretazione restrittiva della normativa europea, sulla base della considerazione che la disposizione sopra richiamata, diversamente da altre presenti nella direttiva 2003/86 o nel Regolamento Dublino, non si riferisce allo stato civile del minore, non richiedendo «che il minore sia non coniugato per poter essere considerato un minore non accompagnato». Correttamente i Giudici osservano che non è corretto invocare disposizioni dettate ad altri fini al fine di determinare l’ambito di applicazione del diritto di ricongiungimento del minore non accompagnato rifugiato ai genitori.
La Corte di Giustizia svolge altre osservazioni di particolare interesse.
Ad avviso dei Giudici europei, «un rifugiato minore non accompagnato che soggiorna da solo nel territorio di uno Stato diverso dal suo Stato di origine si trova in una posizione di particolare vulnerabilità che giustifica che sia favorito il ricongiungimento familiare con i suoi ascendenti diretti di primo grado che si trovano al di fuori dell’Unione». Tale condizione di vulnerabilità non è «attenuata a causa del matrimonio»: significativamente, la Corte ricorda come «al contrario, il fatto di essere coniugati possa indicare, per quanto riguarda in particolare le ragazze minorenni, un’esposizione alla grave forma di violenza costituita dai matrimoni dei minorenni e dai matrimoni forzati».
Sotto un diverso profilo, i Giudici di Lussemburgo opportunamente rilevano come «lo stato civile di un rifugiato minore non accompagnato possa spesso essere difficile da stabilire, in particolare nel caso dei rifugiati originari di Paesi che non sono in grado di rilasciare documenti ufficiali affidabili. Pertanto, l’interpretazione secondo cui l’articolo 10, paragrafo 3, lettera a) della direttiva 2003/86 non limita il beneficio del ricongiungimento familiare con gli ascendenti diretti di primo grado ai soli rifugiati minori non accompagnati che non sono coniugati è altresì conforme ai principi di parità di trattamento e di certezza del diritto, in quanto garantisce che il diritto al ricongiungimento familiare non dipenda dalle capacità amministrative del paese di origine della persona interessata».
Entrambe le considerazioni svolte sono significative perché la Corte valorizza argomenti che vanno al di là dell’interpretazione normativa, dimostrando sensibilità verso la realtà vissuta dalle persone destinatarie delle disposizione europee. Al fine di rispondere al quesito sottopostole, i Giudici avrebbero potuto limitarsi al primo argomento relativo alla lettera della disposizione applicabile: la condizione dell’assenza di matrimonio non è prevista e pertanto, non è rilevante. La Corte però ritiene di soffermarsi anche sulla possibile violenza alla base dei matrimoni contratti durante la minore età e sul problema delle difficoltà di documentare gli status, proprie di molti Paesi di origine dei rifugiati. Tali considerazioni risultano preziose perché esportabili in numerosi altri contesti in cui si tratti di interpretare la normativa avente per destinatari stranieri in condizione di vulnerabilità.
 
Ricongiungimento familiare sottoposto alla condizione che il lavoratore straniero superi un esame attestante un determinato livello di conoscenza della lingua ufficiale di tale Stato membro per essere autorizzato al ricongiungimento con il coniuge – Clausola di standstill prevista nell’Accordo di associazione CEE – Turchia – Valutazione della giustificazione della imposizione di un certo livello di conoscenza linguistica da parte dello straniero soggiornante.
La clausola di standstill prevista all’art. 13 della decisione 1/80 del Consiglio di associazione del 19 settembre 1980, relativa allo sviluppo dell’associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia, vieta l’introduzione di qualsiasi nuova misura interna che abbia per oggetto o per effetto di assoggettare l’esercizio, da parte di un cittadino turco, della libera circolazione dei lavoratori nel territorio dello Stato membro interessato a condizioni più restrittive di quelle che gli erano applicabili all’entrata in vigore di tale decisione nel territorio di tale Stato membro. Tra le misure precluse deve intendersi compresa anche la disposizione di uno Stato membro che subordina il ricongiungimento familiare tra un lavoratore turco e il suo coniuge alla condizione che tale lavoratore superi un esame attestante un determinato livello di conoscenza della lingua ufficiale di detto Stato membro. Una tale restrizione non è giustificata dall’obiettivo di garantire un’integrazione riuscita di tale coniuge, dal momento che tale normativa non consente di prendere in considerazione né le capacità di integrazione proprie del lavoratore, né fattori diversi dal superamento di tale esame che dimostrino l’effettiva integrazione di tale lavoratore e, pertanto, la sua capacità di aiutare il coniuge a integrarvisi (Corte di Giustizia, 22 dicembre 2022, causa C-279/21).
La decisione in esame si occupa di due questioni, una di interesse circoscritto, almeno quanto ai destinatari, l’altra di più ampia portata.
La prima questione attiene al perimetro di applicazione della clausola di standstill contenuta nell’Accordo di Associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia. In base a tale clausola, gli Stati membri non possono introdurre misure interne che abbiano per oggetto o per effetto di assoggettare l’esercizio, da parte di un cittadino turco, della libera circolazione dei lavoratori nel territorio dello Stato membro interessato a condizioni più restrittive di quelle che gli erano applicabili all’entrata in vigore di tale decisione nel territorio di tale Stato membro.
La portata di tale clausola è oggi estremamente limitata, dal momento che essa trova applicazione ai soli cittadini turchi che si trovavano in Europa al momento di entrata in vigore di tale risalente accordo. Nella fattispecie, tale clausola veniva ancora in rilievo, dal momento che il lavoratore turco che la invocava era resistente in Danimarca dal 1979. Sulla base del divieto di introduzione di misure più restrittive, tale cittadino turco lamentava di avere vista respinta la domanda di ricongiungimento familiare della moglie, sulla base della circostanza che egli non aveva dimostrato di avere superato un esame di danese richiesto dalla normativa sugli stranieri vigente in Danimarca.
Quanto all’ambito di applicazione della clausola di standstill, la Corte di Giustizia ritiene che essa si applichi anche alla fattispecie in esame, dal momento che la condizione del superamento di un esame linguistico rende più difficile il ricongiungimento familiare «di modo che il cittadino turco può eventualmente trovarsi costretto a scegliere tra la sua attività in detto Stato membro e la propria vita familiare in Turchia».
Al fine di rispondere a tale questione, i Giudici di Lussemburgo si trovano a prenderne in considerazione una seconda, di più ampia portata e cioè se la previsione del superamento di un esame di lingua da parte del lavoratore sia misura «idonea a garantire il raggiungimento dell’obiettivo legittimo perseguito e non vada al di là di quanto necessario per ottenerlo».
Questa verifica è interessante, dal momento che consente alla Corte di Giustizia di approfondire il tema del requisito di sufficiente conoscenza della lingua del Paese ospitante, requisito sempre più spesso previsto nelle legislazioni dei Paesi membri.
In proposito, la Corte osserva che una condizione come quella posta dalla normativa danese, che subordina l’autorizzazione al ricongiungimento con il coniuge al raggiungimento di un certo livello di conoscenza della lingua da parte del lavoratore soggiornante, parte dalla corretta ipotesi che «il possesso da parte del lavoratore di un livello sufficiente di conoscenza della lingua ufficiale di tale Stato membro è idoneo a consentire a tale lavoratore di accompagnare il familiare nel suo processo di integrazione». Tuttavia – secondo la Corte – una tale previsione «non consente in alcun modo di prendere in considerazione le capacità di integrazioni proprie del coniuge»: come confermato dal governo danese, «anche se la moglie di tale lavoratore padroneggiasse perfettamente il danese, la sua domanda di concessione di un diritto di soggiorno in Danimarca a titolo di ricongiungimento familiare sarebbe comunque respinta» qualora il marito non soddisfi la condizione del superamento dell’esame di lingua danese.
Ad avviso della Corte, la circostanza che non sia possibile prendere in considerazione, nell’ambito di una valutazione individuale, «le capacità di integrazione proprie del familiare che chiede il beneficio del ricongiungimento familiare» e di verificare «l’effettiva integrazione del lavoratore interessato» fanno sì che la normativa danese vada «al di là di quanto necessario per ottenere l’obiettivo perseguito» e quindi risulti, ai fini dell’applicazione dell’Accordo, ingiustificata.
Le osservazioni appena riportate risultano di interesse dal momento che evidenziano come la Corte non si astenga dallo scrutinare anche nel merito le misure di integrazione poste dai singoli Paesi membri, in ragione della loro idoneità a limitare significativamente la portata di diritti fondamentali come quello all’unità familiare.
 
Formalizzazione della domanda di visto per ricongiungimento familiare in Ambasciata italiana – possibilità di ottenere la tutela cautelare dal Giudice italiano in caso di inadempimento da parte dell’Ambasciata all’obbligo di ricevere la domanda.
I familiari dei cittadini di alcuni Paesi terzi incontrano particolari difficoltà, dopo l’ottenimento del nulla osta, a formalizzare la domanda di visto presso l’Ambasciata italiana competente. In Paesi come lo Sri Lanka o il Pakistan – per citare solo i due Paesi oggetto dei provvedimenti in esame – il familiare può trovarsi anche per molti mesi privo della possibilità di presentare la domanda di visto per motivi familiari.
In assenza di effettività delle diffide, ci si è interrogati sulla possibilità di ottenere una tutela rapida avanti il Tribunale ordinario di Roma, competente in materia di visti per motivi familiari.
Con due interessanti decreti ( 11.1.2023 e 4.1.2023 ), il Tribunale di Roma, adito dagli stranieri interessati al fine di ottenere la condanna al rilascio del visto, ha ritenuto di accogliere la domanda cautelare volta a consentire la formalizzazione della domanda di visto da parte del familiare, ordinando al Ministero degli Affari Esteri di fissare con urgenza un appuntamento al fine della formalizzazione della domanda di visto.
Simili provvedimenti consentono di estendere il vaglio giurisdizionale anche a fasi del procedimento avanti le Ambasciate come quello di formalizzazione della domanda che spesso rimanevano prive di vero scrutinio, con allungamento dei già rilevantissimi tempi complessivi del procedimento.
Appare significativo che in uno dei due provvedimenti il requisito del periculum venga rinvenuto «nella natura dei diritti azionati, e nella circostanza che la situazione di stallo verificatasi impedisce al giovanissimo richiedente di formulare un progetto di vita indirizzandosi verso una attività lavorativa o di studio, nell’incertezza relativa al luogo ove proseguirà la sua esistenza di qui in avanti».
Anche in questo caso, come già nelle decisioni della Corte di Giustizia sopra prese in esame, il Giudice prende in considerazione la realtà della vita dello straniero, dando rilievo ai progetti dello stesso, messi a rischio dal protrarsi di una condizione di incertezza discendente dall’inadempimento delle Autorità chiamate ad attuare il diritto al ricongiungimento.

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