Cittadinanza e apolidia
Poco numerose, almeno per quanto concerne la prassi giurisprudenziale dell’autorità giudiziaria ordinaria, risultano le pronunce emesse nel primo quadrimestre dell’anno (gennaio-aprile 2023). Al di là della consueta sensibilità dimostrata dai giudici civili nei confronti degli aspiranti cittadini c.d. per elezione, spesso sprovvisti di documenti di prova per così dire tradizionali riguardo allo loro nascita e permanenza in Italia sino al raggiungimento della maggiore età, spicca un orientamento di fondo antitetico del giudice ordinario rispetto a quello amministrativo in sede di verifica dei requisiti necessari per l’attribuzione della cittadinanza per matrimonio e per la concessione della medesima per naturalizzazione. Pur nella consapevolezza del grado di discrezionalità che connota quest’ultima, il divario esistente, ad esempio, nella valutazione di eventuali notizie di reato in capo al richiedente assume contorni netti.
Acquisto della cittadinanza per elezione
Individuo residente in un campo di rom; nozione di residenza legale. Esclusione della necessità di un permesso di soggiorno per il richiedente
Ancora una volta il Tribunale di Roma ha dovuto sopperire in via giudiziale alla carenza di certificazioni anagrafiche, utili per attestare la nascita e la permanenza in Italia fino al raggiungimento della maggiore età, a favore di un giovane di etnia rom, vittima per così dire dei comportamenti omissivi dei propri genitori. Alla luce di risultanze probatorie di varia natura il giudice censura il rifiuto del riconoscimento della cittadinanza italiana ex art. 4, co. 2, l. n. 91/1992, da parte del Comune di Roma, fondato appunto sulla carenza suddetta. Nella pronuncia si insiste sulla nozione di residenza del minore, che non può mai essere definita illegale, ad onta delle specifiche previsioni in tal senso contenute sia nella l. n. 91/1992 sia nel regolamento di esecuzione n. 572/1993 ( Trib. Roma, ord. 20.3.2023 ).
Gli estremi della prova della residenza legale, sempre ai medesimi fini, sono stati esaminati in un’altra pronuncia, relativa a un individuo il cui padre aveva perso il lavoro e perciò il connesso permesso di soggiorno, ma aveva potuto godere con la famiglia del permesso di soggiorno per assistenza ai minori della durata di due anni, ai sensi dell’art. 31 d.lgs. n. 286/1998. Il giudice affronta dapprima la questione relativa alla legittimazione passiva del Comune di riferimento accanto al Ministero dell’interno convenuto, risolvendola – in questo caso – a favore della sussistenza di tale legittimazione. Riguardo alla prova suddetta, alla luce del materiale probatorio prodotto dall’attore e della constatazione che il nuovo permesso di soggiorno del padre era stato rilasciato all’inizio dei due anni precedenti al raggiungimento della maggiore età da parte dell’interessato, viene disattesa la tesi del Ministero e del Comune circa la necessità di essere in possesso di un permesso di soggiorno individuale ai fini della richiesta di cittadinanza ex art. 4, co. 2, debitamente inoltrata dal ricorrente. Dopo aver compiuto un’analisi del concetto di residenza legale nei termini descritti in precedenza, viene riconosciuto il diritto alla cittadinanza italiana c.d. per elezione ( Trib. Bari, ord. 15.3.2023 ).
Acquisto della cittadinanza per matrimonio
Irrilevanza della notizia di reato. Verifica della competenza giurisdizionale e rilevanza dell’esito del periodo di messa alla prova
Una prima pronuncia esamina l’incidenza delle notizie di reato nel procedimento relativo a questo tipo di acquisto della cittadinanza. Si trattava in particolare delle ipotesi di furto aggravato e furto con destrezza risalenti al 2005. Il giudice effettua una lettura dell’art. 6 co. 1, lett. b) antitetica rispetto a quella offerta dal Ministero dell’interno per respingere la domanda di una cittadina marocchina. La norma prevede come motivo ostativo all’accoglimento di tale richiesta la condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione. Il Tribunale, una volta accertata la sussistenza del vincolo matrimoniale e della residenza prescritte dall’art. 5 della legge sulla cittadinanza, dopo aver esaminato i certificati relativi al casellario giudiziale e ai carichi pendenti, non riscontra alcun procedimento a carico dell’istante. D’altra parte, rileva che al momento della presentazione della domanda del nuovo status civitatis non era ancora stato introdotto il requisito della adeguata conoscenza della lingua italiana di cui all’art. 9.1 della l. n. 91/1992, il quale peraltro non dipende dalla valutazione discrezionale della PA, bensì dall’attestazione di appositi enti. Di qui la dichiarazione di riconoscimento della cittadinanza italiana ( Trib. Brescia, ord. 7.3.2023 ). Tuttavia, si può supporre che l’interessata, la quale risultava destinataria di un permesso di soggiorno di lunga durata, fosse già in possesso della certificazione di conoscenza della lingua italiana, necessaria a tale riguardo, anch’essa prevista dall’art. 9.1 citato.
Lo stesso giudice è stato successivamente investito di un caso per certi aspetti analogo, in quanto la richiesta di cittadinanza era stata respinta a causa dell’esistenza di un procedimento penale in materia di stupefacenti, che aveva condotto peraltro all’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova dell’imputato. Prima di affrontare tale questione, il Tribunale si sofferma però sull’iniziale oggetto del ricorso contro il provvedimento prefettizio che aveva negato l’ammissibilità della domanda. Riprendendo il tema del riparto di giurisdizione, del tutto correttamente viene rilevato che, malgrado nelle conclusioni del ricorso sia stata formulata un’unica domanda relativa alla declaratoria di illegittimità del decreto di reiezione della Prefettura, nel corso dell’atto introduttivo si fa più volte riferimento alla titolarità di un diritto soggettivo in capo al ricorrente riguardo all’acquisto della cittadinanza per matrimonio. In effetti, si riconosce che, quanto alla domanda di declaratoria di illegittimità e di conseguente annullamento dell’atto impugnato, il Tribunale è pacificamente carente di giurisdizione. Peraltro, la formulazione delle due domande alternative non preclude la pronuncia nel merito sulla richiesta di accertamento dello status civitatis, in quanto la disciplina in materia non impone, ai fini dell’accertamento del relativo diritto, la domanda o l’iter amministrativo come presupposto o condizione per la domanda in sede giudiziale. Per di più, l’art. 19-bis d.lgs. n. 150/2011, nel disciplinare il rito delle controversie in materia di cittadinanza devolute al giudice ordinario, utilizza il concetto di accertamento dello stato di cittadinanza e non di impugnazione o opposizione. Una volta verificata così la propria giurisdizione, il giudice esamina anzitutto la sussistenza dei requisiti per così dire primari, ovvero attinenti alla sussistenza del vincolo matrimoniale e della residenza (qui, autenticamente “legale”) del richiedente. Riguardo poi alla presunta causa ostativa derivante dall’art. 6, co. 1, lett. b) l. n. 91/1992, si rileva che il ricorrente ha dimostrato di non essere stato condannato per i fatti indicati nel provvedimento prefettizio di diniego; quindi nessun tipo di bilanciamento o di valutazione discrezionale è necessaria ai fini del decidere. Successivamente si ricorda la natura dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova (artt. 168-bis ss. c.p. e 464-bis ss. c.p.p.), il cui esito positivo produce l’estinzione del reato per cui si procede e che tale effetto estintivo viene dichiarato in un provvedimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p. non avente la natura di condanna, bensì di sentenza di non doversi procedere. Dunque, è stata disposta dal competente giudice per le indagini preliminari l’archiviazione del procedimento. Tutto ciò porta alla dichiarazione giudiziale di acquisto della cittadinanza per matrimonio ( Trib. Brescia, ord. 28.3.2023 ).
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione
Incidenza dei reati commessi dai figli dell’istante. Autonomia della valutazione amministrativa rispetto a quella penale. Valenza del periodo decennale di osservazione. Irrilevanza degli artt. 8 della CEDU e 7 del Patto sui diritti civili e politici. Irrilevanza degli esiti processuali di un procedimento penale. Necessità di una congrua motivazione. Effetti della irreperibilità al censimento
Come ripetutamente rilevato, in questo settore, nel quale si valutano i motivi di impugnazione presentati dagli interessati contro provvedimenti di rigetto delle istanze per la naturalizzazione ex art. 9, co. 1, lett. f) da parte del Ministero dell’interno, le pronunce risultano di gran lunga le più numerose. Merita semmai dar conto che, a seguito del trasferimento dell’ormai totalità dei ricorsi alla sezione V-bis del Tar del Lazio in sede di smaltimento dell’arretrato, si vanno enucleando ulteriori parametri interpretativi rispetto al passato. Questi tuttavia non scalfiscono minimamente, ma anzi rafforzano, l’atteggiamento di chiusura che connota i giudici amministrativi riguardo alle censure formulate verso i provvedimenti di rigetto delle istanze nei confronti della Pubblica amministrazione.
Un primo riscontro di questa tendenza è riavvisabile nella condivisione delle motivazioni del Ministero dell’interno, il quale aveva respinto una domanda di naturalizzazione di una straniera a causa dei reati (specialmente di furto, ricettazione, uso di droghe e stupefacenti), asseritamente commessi dai due figli, sebbene quello che aveva riportato alcune sentenze di condanna non convivesse con la madre e viceversa il figlio convivente risultasse destinatario (solo) di una denuncia-querela per violenza privata ex art. 610 c.p. Per di più, secondo i giudici amministrativi, a nulla vale il principio della personalità della responsabilità penale, semplicemente perché il diniego della PA non estende alla madre le conseguenze penali dei reati commessi dai figli (e come potrebbe?). Traspare piuttosto una forte preoccupazione sui possibili effetti derivanti dall’estensione ai figli della richiedente delle norme relative ai parenti del cittadino italiano: ovvero, l’impossibilità di espellere i parenti entro il secondo grado (art. 19, co. 2, lett. c), d.lgs. n. 286/1998), il diritto fondamentale alla vita familiare e soprattutto, secondo il Tar, la “trasmissione” dello status di cittadino del neo-genitore ai figli minorenni conviventi. Resta comunque accantonata la questione relativa alla situazione penale del secondo figlio, così come risulta poco chiara l’affermazione secondo cui questi era risultato destinatario di un provvedimento di «rigetto della cittadinanza», proprio a causa dei reati ascritti al fratello maggiore. Nella l. n. 91/1992 non sono previsti infatti casi di acquisto volontario della cittadinanza da parte dei minorenni (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 26.4.2023, n. 7144).
Desta poi qualche curiosità per l’inusuale oggetto della fattispecie di reato alla base di un’altra pronuncia dei giudici amministrativi nella quale il diniego da parte del Ministero alla richiesta di naturalizzazione si fondava su una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ex artt. 444 e 445 c.p.p. (c.d. patteggiamento) per il reato di violazione delle norme sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione e sulla commercializzazione e detenzione di esemplari vivi di mammiferi e rettili che possano costituire pericolo per la salute ed incolumità pubblica (art. 1, co. 1, l. n. 50/1992 e art. 62-bis c.p.) Né la natura di contravvenzione dei suddetti reati né la considerazione della loro risalenza a dieci anni prima né quella relativa ad una conseguente condotta corretta e di integrazione socio-economica dell’istante valgono a modificare le conclusioni negative adottate dal Ministero dell’interno, approvate dal Tar. Appaiono ormai consuete le motivazioni sulla discrezionalità della PA e sull’assorbente rilievo dell’interesse pubblico nelle determinazioni relative alla concessione della cittadinanza. Secondo i giudici le qualità ritenute necessarie per ottenere la cittadinanza sono inesorabilmente l’assenza di precedenti penali, la sussistenza di redditi sufficienti a sostenersi, una condotta di vita che esprima integrazione sociale e rispetto dei valori di convivenza civile. La concessione della cittadinanza rappresenta infatti per i giudici il suggello, sul piano giuridico, di un processo di integrazione che nei fatti sia già stato portato a compimento, ovvero la formalizzazione di una preesistente situazione di «cittadinanza sostanziale» che giustifica l’attribuzione dello status civitatis. Vengono poi, qui come altrove, evidenziate le ulteriori molteplici ragioni che sorreggono un atteggiamento più che restrittivo nei confronti della concessione stessa.
Si può concordare inoltre sul diverso ruolo svolto dall’art. 6 della l. n. 91/1992, attinente esclusivamente alle ipotesi di rigetto nei casi di acquisto dello status civitatis per matrimonio. Sembrano viceversa eccessivamente severi gli ulteriori motivi addotti per suffragare l’operato del Ministero. Meno convincenti appaiono così le successive osservazioni secondo cui il sindacato giurisdizionale sulla valutazione compiuta dal Ministero – circa il completo inserimento o meno dello straniero nella comunità nazionale – non può spingersi al di là della verifica di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell’esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole. Dunque, il controllo giurisdizionale non può sconfinare nell’esame del merito della scelta adottata, riservata all’autonoma valutazione discrezionale dell’Amministrazione, la quale ben può rilevare che nell’ultimo decennio vi sono state condotte penalmente rilevanti, così come può valutare i fatti per periodi ancora maggiori rispetto ai dieci anni. Insomma, il decennio anteriore all’istanza costituisce il «periodo di osservazione» in cui devono essere maturati i requisiti per l’attribuzione della cittadinanza per naturalizzazione, inclusi quelli dell’irreprensibilità della condotta, salve le fattispecie di particolare gravità che possono essere apprezzate nel loro particolare valore “sintomatico” (violenza e maltrattamenti) anche oltre il decennio. Ed ancora, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui le valutazioni volte all’accertamento di una responsabilità penale si pongono su un piano assolutamente differente ed autonomo rispetto alla valutazione del medesimo fatto ai fini dell’adozione di un provvedimento amministrativo, è possibile che le risultanze fattuali oggetto di una vicenda penale vengano valutate negativamente sul piano amministrativo, anche a prescindere dagli esiti del parallelo iter giudiziale. Per di più, viene sottolineato il più generale principio della c.d. pluriqualificazione dei fatti giuridici, invocato dalla giurisprudenza amministrativa anche in relazione alla circostanza della riabilitazione pronunciata dal giudice penale. Difatti, mentre sul piano penale gli effetti della riabilitazione sono chiaramente diretti ad agevolare il reinserimento nella società del reo, in quanto eliminano le conseguenze penali residue e fanno riacquistare all’interessato la capacità giuridica persa in seguito alla condanna, viceversa, sul piano amministrativo, la valutazione che l’Amministrazione è chiamata a compiere per concedere lo status di cittadino ha riguardo principalmente all’interesse pubblico alla tutela dell’ordinamento.
Né poteva mancare il consueto richiamo alle conseguenze tendenzialmente irreversibili dell’acquisto della cittadinanza che interessano l’intera collettività in quanto il soggetto viene ad essere ammesso stabilmente nella comunità nazionale in via definitiva che giustificano una precauzione adeguatamente avanzata rispetto a determinati soggetti di cui si dubita che possano assicurare il rispetto dei valori fondamentali. Insomma, la natura di alta amministrazione del provvedimento impugnato non consente al giudice di sostituire valutazioni di merito, riservate all’autorità amministrativa preposta, con altre, a causa dei vincoli al sindacato giurisdizionale in questa materia. A questo punto può sembrare quasi beffarda la considerazione finale secondo cui la particolare cautela con cui l’Amministrazione valuta la rilevanza di condotte antigiuridiche è compensata dalla facoltà di reiterazione dell’istanza che l’ordinamento riconosce al richiedente una volta mutate le condizioni oggettive sottese all’esito negativo della domanda (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 6.4.2023, n. 5920).
Sempre a proposito della valutazione relativa al periodo di tempo intercorrente tra la commissione di un reato (o, come riportato sopra, di una contravvenzione) e la presentazione della istanza di concessione della cittadinanza, i giudici amministrativi hanno modo di ribadire che il decennio richiesto dall’art. 9 della l. n. 91/1992 ai fini della residenza ai fini della residenza costituisce appunto il c.d. «periodo di osservazione» che rileva ai fini della valutazione dell’acquisizione dei requisiti per la cittadinanza, inclusi quelli dell’irreprensibilità della condotta. Non poteva perciò non rilevare in tale contesto una condanna per guida in stato di ebbrezza, risalente a dieci anni prima malgrado fosse poi sopraggiunta l’estinzione del reato contestato per avvenuta prescrizione dello stesso, a seguito della sentenza emessa dalla Corte d’appello (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 13.2.2023, n. 2434).
Talvolta le pronunce amministrative anche di primo grado si rivelano estremamente dettagliate, anche se la maggior parte della loro motivazione ripete pedissequamente concetti ormai noti. Tale è il caso di una sentenza di rigetto del ricorso, nella quale si condivide l’assunto negativo della PA circa l’attribuzione della cittadinanza in presenza di una sentenza del 2005 di applicazione della pena su richiesta ex artt. 444 e 445 c.p. per i reati di ricettazione continuata (artt. 81, 648 c.p.), di falsità materiale in atti pubblici continuato (artt. 81, 476, 482 c.p.) e uso di atto falso continuato (artt. 81, 489 c.p.). La relativa pronuncia, implacabilmente di contenuto negativo, anzitutto si diffonde ampiamente su tutto ciò che giustifica e consegue a quella che viene definita una “dilatata” discrezionalità dell’Amministrazione. Occorre sottolineare riguardo alle condotte penalmente rilevanti che i parametri di valutazione si rivelano sempre più alti poiché l’interesse pubblico ad inserire l’istante nella comunità nazionale appare teso, oltre che alla verifica della stabilità economico-sociale e del rispetto dell’identità nazionale, alla tutela della sicurezza. Dunque, quest’ultima viene invocata in ogni caso: non solo in presenza di attività che possano incidere direttamente sulla medesima (come avveniva normalmente in passato), ma ove ricorra qualsiasi precedente penale.
Viene tra l’altro ancora evocato l’art. 6 della l. n. 91/1992, sopra già citato, in quanto considerato «norma di tenuta dell’ordinamento»: nell’individuare i limiti entro i quali la cittadinanza non può essere attribuita per matrimonio, tali limiti a maggior ragione si riflettono nel giudizio della PA nel procedimento di cui all’art. 9.
D’altro canto, i provvedimenti di estinzione della pena e persino di riabilitazione non incidono sulla capacità dell’Amministrazione di negare lo status civitatis richiesto per naturalizzazione, perché di per sé confermano l’esistenza di un fatto storico adeguatamente accertato e sanzionato in sede penale, tale da incidere sull’accertamento, prognostico e complessivo, dei presupposti di concessione della cittadinanza. Neppure qui questo rigore si attenua a causa della evidente risalenza del tempo della condanna riportata dall’istante. E parimenti non incide neppure la dedotta capacità reddituale e stabile posizione personale dell’interessato.
Il Tar respinge infine anche le censure all’operato della PA fondate sul rispetto dei principi di buon andamento e del giusto procedimento, ovvero sull’obbligo di contemperare in ambito amministrativo l’interesse pubblico con quello del privato. Proprio in materia di concessione della cittadinanza è necessario che il suddetto operato sia informato al principio di proporzionalità e a quello di imparzialità, tanto in senso negativo, come divieto di discriminazione, quanto in senso positivo, come valutazione equa degli interessi coinvolti. Tuttavia, ad avviso dei giudici, le conseguenze discendenti dal provvedimento negativo sono solo temporanee e non comportano alcuna interferenza nella vita privata e familiare del ricorrente ex art. 8 CEDU e art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici. L’interessato può infatti continuare a rimanere in Italia e condurvi la propria esistenza alle medesime condizioni di prima. Rimane da chiarire in quale modo, di fronte ad un orientamento così restrittivo, il ricorrente possa far valere la «temporaneità di un siffatto diniego» (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 4.1.2023, n. 144).
In questo quadro di rigidità di giudizi si inserisce una sentenza del Consiglio di Stato che respinge un’impugnazione di un provvedimento del Tar, il quale aveva a sua volta avallato il diniego del Ministero dell’interno nei confronti di un cittadino indiano indagato con altri connazionali, ai sensi degli artt. 110, 112, n. 2, c.p. e 1-ter, co. 15 l. n. 102/2009, per aver presentato false dichiarazioni ed attestazioni nell’ambito di una procedura di emersione dal lavoro irregolare. A nulla è valsa l’esibizione del decreto di archiviazione del procedimento penale, per intervenuta prescrizione del reato. Anche secondo il Consiglio di Stato le risultanze penali ben si possono valutare negativamente sul piano amministrativo, anche a prescindere dagli esiti processuali, poiché il comportamento non è valutato ai fini dell’irrogazione di una sanzione, bensì allo scopo di formulare un giudizio sul grado di assimilazione dei valori e sulla futura integrazione. Alla luce delle condizioni di lavoro (e di eventuale ricattabilità dei soggetti) che quasi sempre connotano situazioni di questo genere sembra piuttosto difficile condividere il richiamato principio di cautela che imporrebbe di tener conto nella valutazione complessiva dell’istante di «qualsivoglia situazione di astratta pericolosità sociale» (Cons. St,. sez. III, sent. 8.3.2023, n. 2444).
Una volta delineato un simile quadro non si può allora non porre in evidenza un raro caso di accoglimento di un ricorso. Si trattava in particolare di un caso, risalente nel tempo, di occupazione abusiva. I giudici amministrativi non rinunciano a ribadire all’inizio che l’attribuzione dello status civitatis, lungi dal costituire per il richiedente una sorta di diritto che l’Amministrazione deve necessariamente e automaticamente riconoscergli ove riscontri la sussistenza di determinati requisiti e l’assenza di fattori ostativi, rappresenta il frutto di una meticolosa ponderazione di ogni elemento utile al fine di valutare la sussistenza di un concreto interesse pubblico ad accogliere stabilmente all’interno dello Stato-comunità un nuovo componente e dell’attitudine dello stesso ad assumersene anche tutti i doveri ed oneri. Tuttavia, il Collegio ritiene che, nel caso concreto, il decreto impugnato sia affetto da un vizio di illegittimità per insufficienza della motivazione, in quanto il Ministero si è limitato a constatare in modo meccanicistico la sussistenza di una notizia di reato per la quale è intervenuto un decreto penale di condanna, annullato poi con una decisione di proscioglimento. Viene perciò censurato l’aver qualificato automaticamente tale circostanza come un indice di inaffidabilità e di una non compiuta integrazione nella comunità nazionale. L’accoglimento del ricorso non comporta però il superamento di un secondo vaglio da parte della PA, relativo alla posizione complessiva del richiedente e alla sua effettiva integrazione nel tessuto economico e sociale del Paese (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 13.2.2023, n. 2424).
Sostanzialmente estranea a questo tipo di problemi appare infine un’ultima pronuncia dei giudici amministrativi nella quale la motivazione si concentra invece sulla necessità e il valore delle risultanze anagrafiche ai fini di fornire la prova della residenza decennale nel nostro Paese. In particolare, l’istanza di naturalizzazione era stata respinta in quanto il Comune di Roma aveva dichiarato l’interruzione della residenza per il periodo di un anno a seguito dell’irreperibilità dell’istante al censimento. Si tratta di una fattispecie espressamente prevista dalla legge, che dà origine a un procedimento amministrativo che deve essere gestito in conformità delle norme della l. n. 241/1990, oltre che della normativa anagrafica. La cancellazione per irreperibilità al censimento non può avere luogo prima di sei mesi a partire dalla data del medesimo. Ricade inoltre unicamente sul ricorrente l’onere di attivare gli appositi rimedi per correggere gli asseriti errori nelle relative certificazioni (ed in caso di esito positivo presentare un’eventuale istanza di riesame) presso i competenti uffici anagrafici comunali, oppure gli ulteriori rimedi giurisdizionali presso le autorità competenti. In ogni caso, le risultanze anagrafiche non possono essere rimesse in discussione in sede di impugnazione del provvedimento di rigetto, difettando il giudice amministrativo della relativa giurisdizione (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 3.2.2023, n. 1939).