FAMIGLIA
Applicabilità delle agevolazioni probatorie previste dall’art. 29-bis, comma 2, d.lgs. n. 286/1998 anche alla prova della vivenza a carico del familiare da ricongiungere e alla prova dell’assenza di altri figli – sussistenza – rilievo dell’autocertificazione come prova atipica di valore indiziario.
Con la sentenza n. 2168 del 24 gennaio 2023, la Corte di cassazione ribadisce la posizione già precedentemente assunta sulla necessità di interpretare in maniera estensiva l’ambito di applicazione dell’art. 29-bis, comma 2, d.lgs. n. 286/1998, che dispone «Qualora un rifugiato non possa fornire documenti ufficiali che provino i suoi vincoli familiari, in ragione del suo status, ovvero della mancanza di un’autorità riconosciuta o della presunta inaffidabilità dei documenti rilasciati dall’autorità locale […], le Rappresentanze diplomatiche o consolari provvedono al rilascio di certificazioni […], sulla base delle verifiche ritenute necessarie, effettuate a spese degli interessati».
La fattispecie in oggetto riguarda la domanda di ricongiungimento familiare che era stata presentata a favore della madre da una cittadina somala, titolare di permesso di soggiorno per ricongiungimento con il marito beneficiario di protezione sussidiaria.
La domanda di rilascio di visto di ingresso, presentata dopo l’ottenimento del nulla osta all’ingresso, veniva rigettata dall’Ambasciata d’Italia a Nairobi sulla base della motivazione che sarebbe mancata la prova che la richiedente il ricongiungimento fosse la sola fonte di sostegno economico della madre. Dopo le pronunce favorevoli alla straniera sia in primo che in secondo grado, il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e l’Ambasciata d’Italia a Nairobi impugnavano la sentenza della Corte d’appello, affermando che la Corte di merito aveva errato nell’estendere le agevolazioni probatorie previste dall’art. 29-bis d.lgs. n. 286/1998 alla moglie di un beneficiario di protezione internazionale e nel ritenere, inoltre, ammissibile come prova l’autocertificazione presentata dalla straniera per dimostrare il requisito di assenza di altri figli nel Paese d’origine e la circostanza della vivenza a carico. In relazione a quest’ultimo punto, le Amministrazioni ricorrenti eccepivano che le agevolazioni probatorie previste dall’art. 29-bis valevano solo per la prova del vincolo familiare, non potendosi estendere agli altri elementi costitutivi del diritto, quali la prova della vivenza a carico.
La Corte di cassazione, nel rigettare il ricorso delle Amministrazioni, prende posizione su di una serie di questioni interpretative che spesso si pongono nel decidere del diritto all’unità familiare dei titolari di protezione internazionale.
In primo luogo, la Corte ricorda di avere già più volte ribadito che, in tema di ricongiungimento del cittadino straniero che abbia ottenuto la protezione internazionale, le agevolazioni probatorie previste dall’art 29-bis d.lgs. n. 286/1998 non devono «essere interpretate in senso restrittivo come riferite alla sola dimostrazione del vincolo familiare, ma devono essere estese anche agli altri elementi che qualificano tale vincolo ai fini del rilascio del visto d’ingresso (come la vivenza a carico e l’assenza di altri figli in patria, in caso di ricongiungimento con un genitore) (Cass., n. 28200/2021)».
In proposito, i Giudici di legittimità rilevano che, benché nella norma in questione si faccia testualmente riferimento solo all’esistenza del vincolo familiare, tale indicazione deve ritenersi riferibile «alle caratteristiche complessive della situazione familiare con il ricongiungendo e non al solo rapporto di parentela, strettamente considerato, non sussistendo alcuna ragione per differenziare in senso più severo la prova dell’inesistenza di altri figli rispetto al rapporto di filiazione, perchè le difficoltà da affrontare per il rifugiato sono le stesse (Cass., n. 28202/2021)».
In secondo luogo, in merito al valore dell’autocertificazione come prova, la Corte di cassazione ricorda che, benché l’autocertificazione non abbia valore di prova tipica e non possa «costituire di per sé, nel giudizio in cui è prodotta, prova della verità del suo contenuto», essa costituisce pur sempre una prova atipica alla quale deve attribuirsi quanto meno valore indiziario e che, quindi, ben può essere valutata dal giudice unitamente agli altri elementi probatori acquisiti (v. Cass. n. 11223/2014, Cass. n. 27173/2011).
Nel caso concreto – osservano i Giudici di legittimità – la Corte territoriale, oltre ad avere preso in considerazione quale prova l’atto notorio, aveva altresì tenuto conto dell’esito dell’interrogatorio libero e dell’esistenza delle ricevute dei versamenti: tale valutazione di merito non poteva essere censurata in sede di legittimità.
Quanto alla questione della possibilità per il titolare di un permesso di soggiorno per motivi familiari di invocare l’art. 29-bis d.lgs. n. 286/1998, la Corte di cassazione osserva che, nel caso concreto, i Giudici d’appello avevano correttamente tenuto conto dell’oggettiva difficoltà di fornire attestazioni o riscontri probatori specifici, «senza far discendere l’accertamento positivo dei requisiti dall’automatica applicazione dell’art. 29-bis, comma 2». Sotto tale profilo, se ben si comprende questo passaggio della pronuncia in rassegna, i Giudici di legittimità escludono che l’art. 29-bis d.lgs. n. 286/1998 possa trovare applicazione in un caso in cui la richiedente il ricongiungimento aveva un titolo inquadrabile nei permessi a natura familiare e, tuttavia, significativamente affermano che ben è possibile valutare con minor rigore le prove presentate da un richiedente il ricongiungimento, laddove vi sia un’oggettiva difficoltà di fornire riscontri probatori specifici.
Così sintetizzata nei suoi passaggi motivazionali più rilevanti, si osserva come la pronuncia appaia estremamente significativa sotto due profili: da un lato, viene confermato l’orientamento favorevole a non onerare i titolari di protezione internazionale di adempimenti eccessivamente onerosi al fine di ottenere il ricongiungimento con i propri familiari, dall’altro, si consente di tenere conto dell’oggettiva difficoltà di dare la prova di fatti prodottisi all’estero anche per fattispecie non strettamente rientranti nell’ambito della protezione internazionale.
MINORI
Conversione del permesso di soggiorno per minore età ai 18 anni – minore presente sul territorio per più di tre anni con frequenza di un progetto di integrazione sociale e civile per due anni – carattere fallimentare del progetto – necessità di avviare un contraddittorio con l’interessato al fine di verificare la sussistenza di elementi che permettano comunque la conversione – rilevanza anche di circostanze sopravvenute - sussistenza
Ai sensi dell’art. 32, comma 1-bis, d.lgs. n. 286/1998, il minore straniero che sia presente in Italia da almeno tre anni e che abbia seguito un percorso di integrazione sociale e civile almeno biennale può ottenere, al compimento della maggiore età, la conversione del proprio permesso di soggiorno.
Nel caso giunto all’attenzione del Consiglio di Stato e deciso con la sentenza del 23 dicembre 2022, n. 11289, la struttura che aveva accolto lo straniero aveva definito “fallimentare” il percorso dallo stesso realizzato; sulla base di tale valutazione, la questura aveva ritenuto di negare la conversione del permesso senza procedere all’invio del c.d. preavviso di rigetto previsto dall’art. 10-bis l. n. 241/1990.
Lo straniero aveva impugnato la decisione prima avanti al Tribunale amministrativo per il Lazio e successivamente avanti al Consiglio di Stato, contestando la legittimità della decisione e depositando una serie di documenti, anche successivi al decreto di diniego di conversione, che dimostravano l’integrazione dell’interessato.
Nell’accogliere il ricorso dello straniero, il Consiglio di Stato afferma due principi particolarmente significativi.
In primo luogo, i Giudici amministrativi ricordano come la questura non sia vincolata al parere reso dai Servizi sociali potendo valutare ulteriori elementi rilevanti: più precisamente, l’Amministrazione, «ricorrendone i presupposti, può svolgere ulteriori approfondimenti e successive valutazioni» al termine delle quali eventualmente recepire, condividendolo, quanto rappresentato dall’Ente gestore del progetto di integrazione.
Non essendo dunque l’Amministrazione vincolata alle risultanze della relazione, la questura mantiene ferme le sue attribuzioni in ordine all’adozione dei provvedimenti riguardanti la conversione del permesso di soggiorno, similmente a quanto accade in presenza di un parere negativo reso dalla Direzione centrale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione per la prima ipotesi di cui all’art. 32, comma 1-bis.
Dalla qualificazione del potere della questura come discrezionale e non vincolato discende la conseguenza che prima di emettere un provvedimento di diniego alla conversione, l’Amministrazione deve necessariamente avviare il contraddittorio con l’interessato, affinché lo stesso possa «fornire elementi di prova positivi in ordine, ad esempio, alla sua scolarizzazione, all’acquisizione di una formazione professionale, al suo inserimento lavorativo, alla sua condotta civile e sociale, all’inesistenza di pericolosità sociale, ai legami familiari (se esistenti), all’alloggio, e così via».
Il Consiglio di Stato ricorda che la violazione dell’obbligo del preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. n. 241/1990 non può essere sanata dall’Amministrazione dando prova in giudizio che il contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato e che pertanto «l’omesso preavviso di rigetto comporta la caducazione dell’atto viziato».
In merito al caso concreto, il Consiglio di Stato osserva che già nel ricorso introduttivo, lo straniero aveva dimostrato la sussistenza di elementi rilevanti sopravvenuti rispetto al provvedimento impugnato che avrebbero potuto indurre la questura a rivedere la propria valutazione.
Quanto alla possibilità per l’Amministrazione e per il Giudice di prendere in considerazione anche circostanze sopravvenute, i Giudici amministrativi affermano che eventuali «circostanze sopravvenute ben potranno costituire elemento di valutazione da parte dell’Amministrazione in sede di riesercizio del potere», condividendo il Collegio «l’orientamento espresso dalla Sezione secondo cui nella specifica materia dell’immigrazione, il giudizio amministrativo come giudizio sulla situazione giuridica soggettiva e non solo sull’atto impugnato, impone la valutazione degli elementi che si sono effettivamente concretizzati nelle more tra l’istanza presentata, il suo esame da parte dell’Amministrazione e il giudizio dinanzi al Giudice, perché se è vero che questi elementi non potevano incidere sull’atto, incidono sulla situazione giuridica dell’appellante e la loro mancata valutazione può comprometterla irrimediabilmente, arrecando un pregiudizio a diritti fondamentali della persona umana (cfr. Cons. St. sez. III, 1 giugno 2022, n. 4467)».
È questo il secondo principio rilevante che il Giudice amministrativo ha inteso ribadire con la sentenza in rassegna, principio che avvicina il giudizio avanti il giudice amministrativo in materia di immigrazione a quello avanti al giudice ordinario ove questo insegnamento può considerarsi consolidato.
Speciale autorizzazione al soggiorno ex art 31, comma 3, d.lgs. n. 286/1998 – interpretazione estensiva del rischio per il minore provocato dall’allontanamento del familiare
Il bilanciamento tra il rispetto della vita familiare del minore e l’interesse pubblico generale ha sempre ricevuto una particolare attenzione da parte della giurisprudenza chiamata a fare applicazione del comma 3 dell’art. 31 d.lgs. n. 286/1998.
Come noto, la Corte di Cassazione, già con la sentenza 21799 del 2010 ha definito il contrasto giurisprudenziale in materia sottolineando che la normativa non richiede l’esistenza di situazioni di emergenza o eccezionali per giustificare l’applicazione del comma 3, dal momento che il rischio per il minore può riguardare «qualsiasi danno effettivo concreto, percepibile ed obiettivamente grave che in considerazione dell’età o delle condizioni di salute sia ricollegabile al complessivo equilibrio psico-fisico».
In quell’occasione, la Suprema Corte ha precisato che si deve trattare di «situazioni non di lunga o indeterminabile durata e non caratterizzate da tendenziale stabilità che, pur non prestandosi ad essere catalogate o standardizzate, si concretino in eventi traumatici e non prevedibili che trascendano il normale disagio dovuto al proprio rimpatrio o a quello del familiare».
Nel caso deciso dalla Corte d’appello di Roma con il decreto del 15 novembre 2022 , il Tribunale per i minorenni aveva revocato il decreto con il quale lo straniero era stato autorizzato a permanere in Italia nell’interesse delle figlie, a seguito di una segnalazione circa un delitto tentato dallo straniero decine di anni prima.
La Corte d’appello, nell’accogliere l’impugnazione dello straniero, sottolinea come lo stesso, da anni in Italia con la compagna e le due figlie, fosse sempre stato una risorsa fondamentale per la tenuta dell’intero nucleo familiare sia da un punto di vista economico che sociale. Alla luce di tale considerazione, tenuto conto che le figlie avrebbero subito un rilevante danno dall’allontanamento del padre, la Corte annulla la revoca del decreto.
Permesso per minore età – spettanza sulla base della sola circostanza che la domanda di rilascio sia presentata dallo straniero durante la minore età
Con sentenza n. 176 del 15 marzo 2023, il Tar per le Marche accoglie il ricorso avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di rilascio di permesso di soggiorno per minore età avanzata da straniero prima del compimento dei 18 anni.
Nel caso concreto, il minore era stato affidato allo zio materno dai genitori con procura redatta da notaio albanese. Lo zio aveva chiesto al Tribunale per i minorenni competente di essere nominato quale tutore, ma l’istanza era stata ritenuta irricevibile, dal momento che si era ritenuto che l’apertura della tutela dovesse essere richiesta dal Pubblico ministero. I successivi tentativi dello zio di sollecitare l’apertura della tutela, eventualmente tramite la Procura, non avevano avuto esito positivo, con la conseguenza che il nipote aveva raggiunto la maggiore età senza avere né un permesso di soggiorno né un provvedimento di affidamento o di tutela.
Ad avviso del Tribunale amministrativo, l’accoglimento dell’istanza di rilascio del permesso di soggiorno per minore età è subordinato, ai sensi dell’art. 19, comma 2, lett. a) d.lgs. n. 286/1998, e 28, comma 1, lett. a), d.p.r. 394/1999, alla sola verifica che il richiedente sia minore al momento della presentazione dell’istanza, senza che venga in rilievo la circostanza che l’istanza sia presentata a poca distanza dal compimento dei 18 anni ovvero prima della nomina del tutore.
Ad ogni modo, l’interessato aveva dato prova di avere fatto quanto gli era possibile per regolarizzare la propria situazione rivolgendosi al Tribunale per i minorenni e non potevano pertanto essergli imputato un comportamento inerte, come chiarito in una vicenda sostanzialmente sovrapponibile dal medesimo Tribunale amministrativo per le Marche con la sentenza n. 578/2021.
Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale, in accoglimento del ricorso, annulla il provvedimento della questura, ordinando all’Amministrazione di rilasciare allo straniero “ora per allora” il titolo di soggiorno per minore età richiesto.