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Fascicolo 2, Luglio 2023


Una volta ancora -non la prima volta, tanto meno l'ultima - il bacino del Mediterraneo è tracciato da esuli sconfitti e braccati alla ricerca di una patria appena abbandonata in macerie e perpetuamente promessa, di un'identità profonda che non mette radici se non nel futuro, e non si purifica se non contaminandosi
 
(Vittorio Sermonti, Eneide, Milano, 2008)
 

Ammissione e soggiorno

PERMESSO DI SOGGIORNO

La Corte costituzionale, con sentenza n. 88 del 9.3.2023, ha esaminato le questioni sollevate da due ordinanze del Consiglio di Stato (n. 5171 del 23.6.2022 e n. 5492 del 1.7.2022, segnalate nella Rassegna di questa Rivista n. 3/2022) aventi ad oggetto l’automatica ostatività delle condanne penali, anche non definitive, ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno per il combinato disposto di cui agli artt. 4, co. 3 e 5, co. 5 TU, d.lgs. 286/98. Con la sentenza qui in rassegna il Giudice delle leggi ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui ricomprende, tra le ipotesi di condanna automaticamente ostative al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, anche quelle, pur non definitive, per il reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.p.r. n. 309 del 1990 e quelle definitive per il reato di cui all’art. 474, secondo comma, cod. pen., senza prevedere che l’autorità competente verifichi in concreto la pericolosità sociale del richiedente».

Pur ribadendo che, in materia di ammissione e soggiorno sul territorio nazionale di cittadini di Paesi terzi, il legislatore gode di ampia discrezionalità, l’automatismo del diniego previsto dalle norme censurate è stato ritenuto manifestamente irragionevole e sproporzionato, sia perché quelle stesse condanne non sono state ritenute dal legislatore stesso ex se ostative al rilascio del titolo di soggiorno nell’ambito della disciplina dell’emersione del lavoro irregolare delle persone straniere, sia perché l’automatismo è in contrasto con il principio di proporzionalità di cui all’art. 8 Convenzione EDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare) qualora riferito a persone straniere già presenti regolarmente sul territorio nazionale (e che hanno iniziato o completato un processo di integrazione sociale). La Corte rappresenta come esista la concreta possibilità di accadimenti contrari alla presunzione automatica introdotta dalle norme censurate potendosi, ad esempio, verificare che un cittadino non comunitario commetta il reato di cui all’art. 73, co. 5, del d.p.r. n. 309 del 1990 ma che – per la sua lieve entità, per le circostanze del fatto, per il tempo ormai trascorso dalla sua commissione, per il percorso rieducativo eventualmente seguito alla condanna – ciò non costituisca comportamento idoneo a comportare un giudizio di pericolosità attuale; per altro, con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 474, secondo comma, cod. pen., tale ragionamento è ancor più valido ove si tenga in conto che la sanzione edittale (che arriva, nel massimo, alla pena di due anni di reclusione) non è neanche tale da comportare (come può avvenire a seguito della commissione del cd. piccolo spaccio) la misura dell’arresto facoltativo in flagranza (che richiede, in caso di delitto non colposo, la pena della reclusione superiore, nel massimo, a tre anni).

La Corte costituzionale, preso atto della giurisprudenza costituzionale e convenzionale in tema di proporzionalità sviluppatasi in particolare modo con riguardo all’art. 8 CEDU, supera il suo precedente orientamento negativo di cui alla sentenza n. 148 del 2008.

Per effetto di questa importante sentenza costituzionale, si modifica significativamente la normativa in materia di permesso di soggiorno, rendendola più flessibile e aderente alla realtà.

Conversione del permesso di soggiorno da motivi di studio a ricerca lavoro o imprenditorialità

Interponendo sospensione al provvedimento emesso della locale questura, con il quale veniva rigettata l’istanza del ricorrente di conversione del suo permesso di soggiorno per motivi di studio ex artt. 39 e 39-bis, co. 1, lett. a) d.lgs. 286/1998 e ss. mod., in quello per ricerca lavoro o imprenditorialità ex art. 39-bis 1, d.lgs. 286/1998 e ss. mod., il Tar Piemonte, ordinanza n. 114 del 20.4.2023, afferma che il TU d.lgs. 286/1998 disegna «un continuum logico-sistematico tra i percorsi formativi che danno titolo al permesso di studio e il successivo soggiorno per ricerca lavoro o imprenditorialità degli studenti al completamento del percorso (arg. ex art. 39-bis 1, co. 1 d.lgs. 286/1998 che richiama “la scadenza del permesso di soggiorno di cui agli articoli 39 e 39-bis, comma 1, lettera a)”», risultando dunque non comprensibile la decisione dell’Amministrazione resistente che, in una prima fase, aveva rilasciato il titolo di soggiorno per ragioni di studio e, successivamente, ne ha di fatto negato i presupposti per la naturale prosecuzione lavorativa e/o professionale pur prevista dalla normativa su citata.

Permesso di soggiorno richiesto e valutazione dei presupposti per il rilascio di differente titolo di soggiorno

Secondo il Tar Emilia Romagna, Bologna, ordinanza n. 35 del 25.1.2023, il rilascio di un permesso di soggiorno deriva dall’istanza che la parte avanza all’Amministrazione, di talché in caso di suo diniego la questura non è tenuta a valutare autonomamente e senza alcuna istanza di parte la sussistenza dei requisiti per il rilascio di un diverso permesso di soggiorno. Sul cittadino non comunitario incombe sempre l’onere di individuare il tipo di permesso di soggiorno da richiedere e, contestualmente, quello di allegare la necessaria documentazione in quanto «attività rientranti nell’esclusiva disponibilità dell’interessato e non surrogabili dalla PA». Tuttavia, in circostanze particolari e allorquando sia stato quantomeno dedotto in sede giudiziaria che gli elementi “nuovi” sono stati forniti oralmente dalla parte alla PA è possibile all’autorità giudiziaria amministrativa valutare il grave pregiudizio che discenderebbe in capo alla persona dal rimpatrio nel suo Paese di origine o cittadinanza. In tale caso l’Amministrazione può essere invitata a rivalutare la posizione di regolarità del soggiorno per un titolo differente da quello originariamente richiesto «ferma la possibilità per l’interessato di presentare, nelle more della definizione del merito, una nuova domanda di rilascio del permesso di soggiorno che, alla luce delle particolari circostanze del caso concreto, dovrà essere valutata con priorità dalla PA».

Permesso di soggiorno per sfruttamento lavorativo

Con   ordinanza n. 11090 del 27.4.2023  la Corte di cassazione ha esaminato il ricorso proposto da un cittadino straniero a cui il questore di Lecce aveva rifiutato il rilascio del permesso di soggiorno “casi speciali” ai sensi dell’art. 22, co. 12-quater TU immigrazione in quanto, per ciò che è dato comprendere dalla ricostruzione dei fatti di causa, era stato destinatario di provvedimento di espulsione nel 2019, aveva già reso le dichiarazioni all’autorità penale nell’ambito di un procedimento per sfruttamento lavorativo ed era stato condannato per contraffazione di segni falsi e ricettazione. La Cassazione, ribadita la giurisdizione ordinaria «essendo la situazione giuridica del ricorrente qualificabile come diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali tutelati dall’art. 2 Cost. e dall’art. 3 CEDU», afferma che al questore non è riservata alcuna discrezionalità e anche il parere del P.M. è qualificabile come discrezionalità tecnica «che esaurisce la sua rilevanza all’interno del procedimento amministrativo (Cass., SU, n. 32044/2018; Cass., SU, n. 30757/2018)». Secondo il Giudice di legittimità la ratio del permesso per particolare sfruttamento lavorativo risiede sia nell’esigenza processuale di consentire un legittimo soggiorno allo straniero nelle more del giudizio, sia di collaborare proficuamente e di verificare il comportamento successivo alla denuncia (Cass. n. 7845/2019). Erroneamente, dunque, secondo la Cassazione il Tribunale ha negato il diritto al rilascio del permesso ex art. 22, co. 12-quater TU immigrazione prima della definizione del procedimento penale, così come ha errato a ritenere ostative le due condanne penali, peraltro risalenti, precisando che «le “condotte incompatibili” con il mantenimento del beneficio vanno ravvisate in eventuali ritrattazioni, o in altre condotte contrarie alla volontà di mantenere fermo il contenuto della denuncia sporta contro il datore di lavoro.».

LA REGOLARIZZAZIONE del 2020

Anche nell’ambito della presente Rassegna continuano gli aggiornamenti in merito alla procedura di emersione/regolarizzazione disposta dall’art. 103, d.l. n. 34/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 77/2020.

L’insufficienza reddituale del datore di lavoro

Il Tar Liguria, con sentenza n. 567 del 30.6.2022, offre una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 103, d.l. n. 34/2020 e conformemente ad altre precedenti pronunce (tra le quali Tar Puglia, Bari, sentenza n. 270 del 18.2.2022) afferma che il mancato rispetto di taluni requisiti per esclusiva responsabilità della parte datoriale e, in particolare, la ritenuta insufficienza dei suoi redditi non può comportare il rigetto dell’istanza essendo inverosimile che il lavoratore possa avere alcun controllo o anche solo contezza della relativa consistenza e dunque, conformemente a quanto in passato previsto dall’art. 5, comma 11-bis, d.lgs., 109/2009, deve comportare il rilascio del permesso di soggiorno per attesa occupazione.

È opportuno rammentare che, nell’ambito di tale specifica questione il Tar Marche, ordinanza n. 680 del 14 novembre 2022 (reg. ord. n. 149 del 2022, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 21 dicembre 2022, n. 51), ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 103, cit. nella parte in cui non prevede la possibilità di rilasciare il permesso di soggiorno per attesa occupazione. Tale ordinanza ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità solo in via subordinata rispetto a quella della omissione, da parte del legislatore primario, dei principi direttivi ai fini della determinazione, con decreto ministeriale, delle soglie minime di reddito in capo al datore di lavoro per l’accesso alla procedura di emersione. Inoltre, la questione della legittimità dell’art. 103, commi 4, 5 e 6, d.l. 34/2020 per ritenuto contrasto con gli articoli 3, 10, 35, 76, 97 e 113 della Costituzione è stata posta dal Tar Umbria, con ordinanza del 1.2.2023 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, 1^ Serie Speciale, del 8.3.2023, n.10).

L’uscita dal territorio nazionale nelle more della procedura

Come noto l’art. 103 del d.l. n. 34/2020 stabilisce che i cittadini stranieri che vogliano accedere alla procedura di emersione non devono aver lasciato il territorio italiano dal 8 marzo 2020. Secondo il Tar Lazio, Roma, sentenza n. 4084 del 10.3.2023 la ratio di tale requisito si rinviene nella prova della stabile presenza in Italia dello straniero e mira a evitare l’ingresso del medesimo soltanto al fine di ottenere una facile regolarizzazione della posizione di soggiorno sul territorio. Non può, tuttavia, ritenersi norma assolutamente inderogabile, ben essendo plausibili eccezioni in relazione ad eventi specifici e particolari, i quali devono essere tenuti in considerazione dall’Amministrazione. La decisione in commento da continuità a un orientamento giurisprudenziale che, già sorto in relazioni a differenti tematiche si rinviene anche nella specifica materia della regolarizzazione (cfr. Consiglio di Stato, ordinanza n. 8120 del 22.112010; Consiglio di Stato, sentenza n. 7814 del 8.9.2022). Nella pronuncia in esame, richiamando un proprio specifico precedente (Tar Lazio, Roma, sentenza n. 150/2023) il giudice regionale laziale ribadisce che «Una siffatta interpretazione si impone, inoltre, considerando che, in uno Stato democratico ispirato al rispetto dei diritti fondamentali, sarebbe irragionevole ritenere che l’intento del legislatore sia quello di costringere, come nel caso in esame, una persona a scegliere tra la possibilità di regolarizzare la presenza sul territorio nazionale e l’assolvimento di impegni a carattere familiare. È per tale ragione, dunque, che occorre accogliere un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata del requisito della permanenza ininterrotta sul territorio nazionale, che, peraltro, non risulta in contrasto con lo spirito della norma. Invero, da un allontanamento momentaneo, non preventivabile e giustificato dall’esercizio di un diritto qualificabile come fondamentale della persona umana – in quanto inquadrabile nell’ambito degli artt. 2 e 29 Cost. e dell’art.8 della CEDU – non può automaticamente desumersi l’assenza di volontà dello straniero di permanere sul territorio italiano in modo stabile e continuativo».

Nello stesso senso si erano espressi anche il TarEmilia Romagna, Parma, sent. n. 314 del 10.11.2022 e il Tar Toscana, sent. n. 1492 del 16.11.2021.

 

IL PERMESSO DI SOGGIORNO UE DI LUNGO PERIODO 

Il requisito reddituale

È noto che l’art. 9 TUI d.lgs. n. 286/1998 discende dalla normativa unionale e, in particolare, è applicazione della disciplina del permesso di soggiorno UE di cui alla direttiva 2003/109/CE. A norma del citato art. 9 «Lo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nell’articolo 29, comma 3, lettera b) e di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall’Azienda unità sanitaria locale competente per territorio, può chiedere al questore il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, per sé e per i familiari di cui all’articolo 29, comma 1».

Attraverso adeguato richiamo alla normativa dell’Unione europea il Tar Piemonte, sentenza n. 214 del 9.3.2023, ritiene che l’accoglimento della tesi dell’Amministrazione, per la quale la normativa richiede la presenza, al momento della richiesta e del rilascio del titolo di soggiorno, di un rapporto lavorativo in atto, «rappresenterebbe invero un’ingerenza nell’esercizio del diritto fondamentale garantito dall’art. 21 TFUE, in quanto non necessaria rispetto al raggiungimento dello scopo perseguito, ossia la protezione delle finanze pubbliche degli Stati membri. Le misure nazionali adottate in applicazione delle condizioni e limitazioni prescritte da tale disposizione devono, infatti, essere appropriate e a tal fine necessarie (cfr. Corte giustizia UE sez. III 03.10.2019, n. 302, causa C-302/18, sentenza del 16 luglio 2015, Singh e a., C-218/14, EU:C:2015:476, punto 75 e giurisprudenza ivi citata)».

Se è vero, infatti, che l’art. 9 TU d.lgs. n. 286/1998, richiedendo che le risorse del soggiornante devono essere non soltanto «sufficienti» ma anche «stabili e regolari», implica di certo un esame in prospettiva delle risorse da parte dell’autorità nazionale, ma «tuttavia occorre richiamare la giurisprudenza della Corte di Giustizia che, con sentenza 21 aprile 2016, nella causa C-558/14 ha esemplificato le modalità di siffatta valutazione prospettiva». Ciò tanto più «in un mercato del lavoro sempre più precarizzato e mobile, il dato di cessazione di un singolo rapporto lavorativo in corso d’anno (a fronte di un soggetto che è presente sul territorio da lungo tempo, che non è mai incorso in specifiche problematiche, che ha costantemente reperito una attività lavorativa in quanto fisiologicamente stagionale) se viene assunto come dirimente, senza indicare i motivi per cui le risorse comprovate e contestualizzate nel percorso di vita dell’interessato (valutando, ad esempio, se la ricorrente sia mai stata a carico dell’assistenza sociale nazionale o se abbia sofferto di interruzioni lavorative anomale, ingiustificate e comunque sintomatiche di una difficoltà oggettiva a reperire un impiego e non di una plausibile scelta di vita compatibile con le risorse a disposizione) risulta scelta di fatto arbitraria».

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