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Fascicolo 3, Novembre 2023


«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà:
se ce n’è uno è quello che è già qui,
l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. 

Due modi ci sono per non soffrirne.

Il primo riesce facile a molti:
accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.

Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui:
cercare e saper riconoscere chi e cosa,
in mezzo all’inferno,
non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Italo CalvinoLe città invisibili

 

Ammissione e soggiorno

LA REGOLARIZZAZIONE 2020

Riprendiamo gli aggiornamenti di questa Rassegna in relazione alla procedura di emersione/regolarizzazione, disposta dall’art. 103, d.l. n. 34/2020, conv. con mod. in legge n. 77/2020, che ha nuovamente dato adito a interessanti pronunce della magistratura.

Illegittimità costituzionale, in parte qua, dell’art. 103 d.l. n. 34/2020

Da segnalare, innanzitutto, la   sentenza n. 149 del 18.7.2023 della Corte costituzionale , la quale è intervenuta sul giudizio di legittimità costituzionale del citato art. 103, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, con ordinanza del 15.9.2022, iscritta al n. 152 del Registro ordinanze 2022 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 52, 1^ serie speciale, 2022.

Il giudice del rinvio dubitava della conformità all’art. 3 Cost. della citata norma nella parte in cui non permette(va) il ricorso alla procedura amministrativa da parte del datore di lavoro avente cittadinanza straniera e titolare di permesso di soggiorno abilitante al lavoro, autorizzando la procedura solo in favore del titolare di permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Condividendo tale impostazione la Corte delle leggi ricorda che «L’emersione del lavoro svolto “in nero” – che nel caso di cittadini stranieri si intreccia alla regolarizzazione della loro presenza in Italia – persegue uno scopo socialmente apprezzabile, a tutela, oltre che delle parti del singolo rapporto di lavoro, dell’interesse pubblico generale, in particolare della regolarità e trasparenza del mercato del lavoro (in tal senso, seppur con riferimento al generale fenomeno del lavoro “nero” o “sommerso”, sentenza n. 173 del 2020)» e dunque «Il requisito del possesso del permesso di soggiorno di lunga durata è arbitrario e irragionevole anche in considerazione delle specifiche finalità che la procedura di emersione del 2020 era destinata a soddisfare». Ne consegue la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 103, co. 1, d.l. n. 34/2020 nella parte in cui non prevede che la domanda di emersione/regolarizzazione possa originare anche da un datore di lavoro straniero regolarmente soggiornante in Italia, pur se privo del titolo di soggiorno di cui all’art. 9, d.lgs. 286/98.

Il reddito del datore di lavoro - la convivenza di fatto 

Come noto, l’art. 103, comma 1, cit. individua tra i requisiti di legittimità della domanda di emersione un determinato reddito da parte del datore di lavoro, comunque idoneo (nella valutazione del legislatore) a garantire il pagamento delle retribuzioni e dei costi complessivi derivanti dal contratto di lavoro. Su tale materia è intervenuto il Tar per il Lazio, sentenza n. 17497 del 23.12.2022, che ha affrontato la questione relativa al rigetto della domanda di emersione ai sensi della citata disposizione di legge da parte della prefettura per ritenuta carenza di adeguati redditi del datore di lavoro. La locale prefettura, tuttavia, non aveva considerato la possibilità del cumulo del reddito del datore di lavoro con quello del proprio convivente di fatto. Nell’accogliere il ricorso del cittadino straniero, il Collegio rammenta che nel concetto di famiglia anagrafica rientrano anche le persone «legate da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi la dimora nello stesso Comune» (art. 4, d.p.r. 223/1989, come modificato dall’art. 3, d.lgs. 5/2017) e, dunque, anche le coppie di fatto, essendo irragionevole non tenere in considerazione la possibilità del convivente di contribuire al pagamento dei costi derivanti dall’instaurazione del rapporto di lavoro (nel caso specifico di tipo domestico). 

In tale senso si segnala anche il precedente conforme di cui alla sentenza del Tar per il Piemonte, ordinanza n. 647/2022.

 

Il subentro del datore di lavoro 

Il Tar per il Lazio, con sentenza n. 10214 del 14.6.2023, si è pronunciato in merito alla possibilità di subentro nella domanda di regolarizzazione da parte della figlia del datore di lavoro domestico, deceduto nelle more della definizione del procedimento di regolarizzazione e allorquando il contratto di lavoro non era ancora stato sottoscritto tra le parti originarie del rapporto (nella fattispecie, a causa del ritardo da parte dei competenti organi nel rilascio al lavoratore straniero da regolarizzare del codice fiscale, necessario ai fini delle comunicazioni obbligatorie di assunzione ad INPS ed INAIL).

Il punto nodale della controversia concerneva, dunque, la valutazione sulla necessità della previa stipulazione del contratto di lavoro (e del suo inizio) quale requisito necessario dell’istanza di regolarizzazione, a fronte della mera dichiarazione di voler concludere lo stesso, la possibilità di riconoscere al nuovo datore di lavoro il subentro nella procedura iniziata dal padre o, comunque, di riconoscere alla lavoratrice un permesso di soggiorno per attesa occupazione, che avrebbe consentito la regolarizzazione della sua presenza sul territorio nazionale e la successiva stipula di nuovo contratto di lavoro. In materia, la normativa di settore non indica un termine per la conclusione del contratto di lavoro, che può non essere coincidente con l’istanza di emersione (in ipotesi in cui il lavoratore abbia a disposizione tutti gli elementi a tale fine necessari, come il codice fiscale) o avvenire successivamente, al momento della convocazione delle parti presso lo Sportello unico (come spesso accade nella prassi). Nel caso specifico, inoltre, il decesso del precedente datore di lavoro era avvenuto dopo circa un mese e mezzo dall’invio di istanza di regolarizzazione, senza che fosse stato rilasciato il codice fiscale alla lavoratrice e, dunque, in presenza di una causa oggettiva (forza maggiore) che aveva impedito la stipula del contratto di lavoro.

I giudici amministrativi, nell’annullare il provvedimento impugnato, hanno valutato «la condizione di oggettiva impossibilità di concludere un contratto di lavoro subito dopo l’inoltro dell’istanza e prima del decesso del datore di lavoro […] con conseguente obbligo dell’Amministrazione di svolgere una specifica valutazione sull’opportunità di concedere alla straniera un permesso di soggiorno per attesa occupazione, come previsto dalla circolare del 17.11.2021 sotto il paragrafo Interruzione o mancata instaurazione del rapporto di lavoro nelle more della procedura o all’atto della convocazione presso lo Sportello unico».

 

PERMESSO DI SOGGIORNO UE PER SOGGIORNANTI DI LUNGO PERIODO

Revoca per condanne penali

Il Tar Piemonte, sentenza n. 759 del 25.9.2023, fornisce una pronuncia in materia di validità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo (d’ora PSUE) a fronte del diniego del suo aggiornamento e della contestuale sua revoca da parte della questura di Torino. La questione atteneva la posizione giuridica di una persona straniera giunta in Italia da minorenne in seguito a ricongiungimento con i genitori, titolare dal 2013 di PSUE aggiornato nel 2019 in seguito alla nascita della figlia, ma poi revocato dalla locale questura a seguito di valutazione della incidenza sulla regolarità del suo soggiorno della condanna per il grave reato di cui agli artt. 81 cpv.,110, 112, co. 1, n. 4, 416, co. 1, 2 e 3, 603-bis, co. 1 n. 2 e co. 4, n. 1, c.p. (sfruttamento lavorativo).

Il Collegio torinese ha ritenuto di annullare il provvedimento amministrativo al fine di permettere nuova valutazione del caso concreto, in considerazione della necessità di bilanciare adeguatamente i pur gravi fatti reato (fonte di considerevole disvalore sociale) con la situazione familiare e sociale della ricorrente, in aderenza ai principi dettati dalla Corte costituzionale. Rivisitando il precedente cautelare, emesso nel medesimo giudizio ma a seguito dell’ordinanza 9.6.2023 n. 2353 del Consiglio di Stato, il Tar fa applicazione dei principi espressi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 202/2013, secondo cui «la tutela della famiglia e dei minori assicurata dalla Costituzione implica che ogni decisione sul rilascio o sul rinnovo del permesso di soggiorno di chi abbia legami familiari in Italia debba fondarsi su una attenta ponderazione della pericolosità concreta ed attuale dello straniero condannato, senza che il permesso di soggiorno possa essere negato automaticamente, in forza del solo rilievo della subita condanna per determinati reati. Nell’ambito delle relazioni interpersonali, infatti, ogni decisione che colpisce uno dei soggetti finisce per ripercuotersi anche sugli altri componenti della famiglia e il distacco dal nucleo familiare, specie in presenza di figli minori, è decisione troppo grave perché sia rimessa in forma generalizzata e automatica a presunzioni di pericolosità assolute, stabilite con legge, e ad automatismi procedurali, senza lasciare spazio ad un circostanziato esame della situazione particolare dello straniero interessato e dei suoi familiari».

 

Visto di reingresso per titolare di PSUE 

In materia di PSUE si segnala l’articolata pronuncia del Tribunale di Roma, ordinanza 21.7.2023 RG. 12859/2023 , che interviene su ricorso avverso il diniego di visto di reingresso in Italia di titolare di PSUE, di cui all’art. 9, co. 2, d.lgs. n. 286/1998, come modificato dall’art. 15 legge n. 238/2021 (in vigore dall’1.2.2022) fornendo le seguenti specificazioni di portata generale:

1) il mero parere negativo fornito all’Autorità consolare italiana da parte della questura non costituisce ex se idonea giustificazione al rifiuto di rilascio del visto di reingresso (cfr. anche Tar Lazio, sentenza 5.2.2009, n. 2085);

2) essendo il PSUE un titolo di soggiorno di durata illimitata, avendo il ricorrente tentato un primo reingresso in Italia precedentemente all’1.2.2022 (entrata in vigore dell’art. 15 legge n. 238/2023) «si sarebbe dovuto consentire il reingresso in Italia tramite la sola esibizione del proprio documento d’identità e titolo di soggiorno valido»;

3) conseguentemente «l’Ambasciata non aveva motivo di procedere alla verifica della perdurante sussistenza del “possesso dei requisiti previsti per il rinnovo del permesso di soggiorno […] e nemmeno aveva motivo di chiedere il parere della questura al fine di compiere tale accertamento, come invece ha fatto”».

4) il parere negativo della questura era motivato sulla base di norma non pertinente (art. 9, co. 7, lett. d) ed e), d.lgs. 286/98), in quanto al momento della domanda di visto il titolo di soggiorno non era stato revocato e, comunque, il superamento del limite temporale di allontanamento del titolare dall’Italia (12 mesi) non è di per sé ostativo al reingresso o alla permanenza sul territorio nazionale;

5) in ogni caso la presenza stabile in Italia della famiglia del ricorrente avrebbe dovuto indurre l’amministrazione «ad attribuire rilievo all’art. 8 CEDU ed al rispetto della vita e dell’unità familiare del ricorrente, essendo tali principi sottesi alla intera disciplina di settore».

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