Nel periodo su cui si concentra la presente Rassegna (settembre-dicembre 2023) emergono, come di consueto, le pronunce relative dell’acquisto della cittadinanza per discendenza da avo o ava italiani; si ricorda al riguardo che, nella seconda ipotesi è sempre necessario un provvedimento dell’autorità giudiziaria italiana, trattandosi di confermare gli effetti retroattivi, in quanto risalenti al periodo precedente all’entrata in vigore della Costituzione, derivanti da due pronunce di illegittimità costituzionale, come traspare dalle due pronunce gemelle n. 4466 e 4467, emesse dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione il 25.2.2009 e qui più volte ricordate. Al giudice civile si rivolgono inoltre tutti coloro che non riescono ad ottenere in tempi ragionevoli il riconoscimento della cittadinanza italiana da parte dei rispettivi Consolati.
Tutto ciò ha creato una serie di situazioni che non è esagerato definire sempre più drammatiche all’interno dei Consolati stessi; per di più, questo disagio sta anche ripercuotendosi in alcuni Tribunali e Comuni, come testimoniano, da un lato, il numero dei ricorsi di cittadini brasiliani (ma anche argentini e venezuelani) depositati presso il Tribunale di Venezia (mille domande al mese, secondo il Presidente della Corte d’appello), dall’altro, l’ingorgo di richieste di trascrizione delle susseguenti decisioni presso i Comuni veneti, secondo notizie apparse sui media veneti e riprese da quelli nazionali. Ciò, del resto, è dimostrato anche dalle pronunce qui di seguito esaminate all’interno delle quali si segnala pure una sentenza amministrativa sui requisiti necessari per la trascrizione di queste ultime.
Non mancano poi due interessanti decisioni in tema di acquisto della cittadinanza per elezione e per matrimonio, le sempre più severe sentenze in tema di naturalizzazione nonché una inusuale decisione in tema di apolidia.
Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano
a) Cittadini emigrati in Brasile e destinatari dei provvedimenti di naturalizzazione collettiva emessi da quello Stato nel 1889. Esclusione della perdita della cittadinanza italiana. b) Necessità di acquisire dati probatori rilevanti dai competenti organi consolari. c-d) Richieste provenienti da cittadini emigrati in Argentina; verifica dell’interesse ad agire. e) Requisiti per la trascrizione dei provvedimenti di riconoscimento della cittadinanza italiana nei registri dello stato civile
All’interno del fiume inarrestabile di richieste al giudice ordinario volte al riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano, è stata riproposta in giudizio, da parte del Ministero dell’interno, la tesi relativa alla presunta perdita della cittadinanza italiana a seguito della pretesa inerzia dei cittadini italiani, emigrati e residenti in Brasile a metà dell’Ottocento, di fronte al c.d. decreto sulla grande naturalizzazione del governo locale del 1889. In particolare, avvalendosi di tali motivi anche alla luce delle norme contenute nel codice civile italiano del 1865, il Ministero aveva impugnato una decisione del Tribunale di Roma del 2020 che dichiarava la cittadinanza italiana del ricorrente.
Dal canto suo, la Corte d’appello di Roma non può che richiamare, ovviamente in modo più sintetico, le estese argomentazioni svolte nei due leading case intervenuti al riguardo, ovvero nelle due sentenze gemelle emesse dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 25317 e n. 25318 del 24.8.2022 (vedile in questa Rassegna, n. 3.2022). In sintesi, appunto, la Corte di merito romana ricorda preliminarmente che, qualora la cittadinanza sia rivendicata da un discendente di cittadino italiano, spetta a questi solamente di dimostrare tale sua qualità; spetta invece al Ministero, quale controparte in giudizio, la prova dell’evento interruttivo della linea di trasmissione della cittadinanza. Di qui la disamina dell’art. 11 c.c. del 1865 (già affrontata dalle Sezioni Unite nelle sentenze citate) relativo alla perdita della cittadinanza e la conclusione della insussistenza, nella fattispecie controversa, di alcuna prova atta a fornire elementi idonei ad interrompere la linea di discendenza ( App. Roma, sent. 21.9.2023, n. 5967 , in Banca dati DeJure).
Nello stesso solco si inscrive una decisione del Tribunale di Brescia anche alla quale la difesa del Ministero dell’interno aveva chiesto di appurare in sede giudiziale la mancata rinuncia alla cittadinanza italiana da parte di tutti gli ascendenti del ricorrente secondo le disposizioni che si sono succedute nel tempo (l. n. 91/92, l. n. 555/1912 e, prima ancora, le preleggi al c.c. del 1865). Confermando nel merito il proprio orientamento di apertura, qui rivolto nei confronti della discendenza da ava italiana, il Tribunale si sofferma sulla costante ammissibilità, da parte dell’ordinamento giuridico brasiliano, della doppia cittadinanza in capo ai propri cittadini, salvo poi passare al richiamo della sentenza delle Sezioni Unite sulla naturalizzazione brasiliana sopra ricordata. Come di consueto, vengono poi riprese le considerazioni della Suprema Corte in tema di riparto dell’onere probatorio (negli stessi termini descritti dalla sentenza della Corte d’appello di Roma citata all’inizio), affermando ancora una volta che il Ministero dell’interno non può conoscere di fatti estintivi ovvero modificativi del diritto vantato dai ricorrenti, in applicazione dell’art. 115 c.p.c., riprendendo così alcune motivazioni già ampiamente adottate (cfr. questa Rassegna, n. 3.2023) anche sulla necessità di acquisire dati probatori rilevanti dai competenti organi consolari ( Trib. Brescia, ord. 18.9.2023 ).
All’interno di quel fiume inarrestabile già evocato iniziano poi a prospettarsi i casi relativi ai discendenti degli emigrati italiani in Argentina. Ne costituisce uno dei primi riscontri una sintetica decisione del Tribunale di Roma, il quale rammenta anzitutto che, qualora si tratti di discendenza in linea maschile, sarebbe sufficiente percorrere la via amministrativa, senza necessità di ricorso al giudice. Inevitabile, tuttavia, la successiva constatazione circa la impossibilità di accedere agli uffici per avviare la domanda di riconoscimento della cittadinanza presso il Consolato d’Italia a Mar De Plata, territorialmente competente, a causa della condizione di sostanziale paralisi in cui versano i suddetti uffici competenti a causa della mole delle domande presentate. Ciò si risolve di fatto in un diniego del riconoscimento richiesto, all’inevitabile ricorso alla via giurisdizionale e porta all’accoglimento della relativa domanda, senza che appaia nella presente decisione alcun cenno alla ricostruzione del c.d. albero genealogico ( Trib. Roma, ord. 20.12.2023 ).
Sempre riguardo alle richieste provenienti dall’Argentina, risulta invece decisamente più dettagliata una pronuncia del Tribunale di Firenze, nella quale appare in premessa una specifica verifica dell’interesse ad agire quale requisito dell’azione giudiziaria in sostituzione della via amministrativa, nei termini sopra ricordati. Qui, tuttavia, il ricorrente aveva prodotto foto e video attestanti la paralisi del Consolato italiano riguardo al sistema telematico di prenotazione, ivi compreso l’avviso sulla indisponibilità di date “per il servizio richiesto”. Per di più, a dimostrazione della propria discendenza da avo italiano, egli aveva prodotto in giudizio un certificato di non iscrizione nell’elenco nazionale degli elettori, rilasciato dal competente organo statale argentino ( Trib. Firenze, sent. 12.10.2023 ).
In questi ultimi due casi, il Ministero dell’interno non si era costituito in giudizio, ma risulta che, qualora ciò avvenga, l’Avvocatura dello Stato, dopo aver dichiarato di non voler contestare le richieste provenienti dai singoli individui ed avere illustrato con dati francamente preoccupanti l’ondata di richieste pervenute ai locali Consolati, censuri anzitutto la protratta inerzia degli avi italiani e dei loro discendenti riguardo alla consegna dei certificati di nascita ai rispettivi organi consolari ai fini della trasmissione ai competenti Comuni e si limiti a chiedere la compensazione delle spese di giudizio.
Sempre nel contesto delle situazioni sin qui esaminate, è intervenuto anche il Tar Lazio a proposito di una fattispecie sinora, a quanto risulta, mai evocata. Si trattava in particolare di un’azione in un giudizio di ottemperanza di un giudicato del Tribunale di Roma, che aveva dichiarato la cittadinanza italiana di un individuo brasiliano, al quale non aveva fatto seguito la trascrizione nei registri di nascita e di matrimonio del Comune competente. Quest’ultimo infatti opponeva la necessaria esibizione dei relativi documenti in forma originale o in copia conforme all’originale, anziché l’esibizione della copia analogica di un originale informatico, a nulla rilevando a tal fine la sufficienza di tale copia per il Tribunale civile. Dal canto suo, il Tribunale amministrativo respinge il ricorso sulla base degli artt. 18 e 22 dell’ordinamento dello stato civile (d.p.r. n. 396/2000) nonché delle istruzioni contenute nel Massimario dello stato civile redatto dal Ministero dell’interno, vincolante per gli ufficiali di stato civile. Da tutto ciò risulta necessario, ai fini della registrazione degli atti per cui è causa, che l’interessato produca non soltanto l’originale degli atti da trascrivere, ma anche l’originale della relativa traduzione o quantomeno una sua copia conforme. Dunque, malgrado nell’accertare i presupposti per il riconoscimento della cittadinanza italiana, il Tribunale di Roma avesse ritenuto idonea la documentazione prodotta, in quanto “debitamente tradotta ed apostillata” (secondo la Convenzione dell’Aja del 1961) e ne avesse pertanto ordinato la trascrizione nei registri dello stato civile senza porre alcuna ulteriore condizione, ciò non esime l’ufficiale di stato civile da un successivo controllo sulla regolarità e idoneità di detta documentazione, in base a norme che non vincolano invece il Tribunale suddetto (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 30.12.2023, n. 20011).
Acquisto della cittadinanza per elezione
Individuo nato e residente in Italia; interruzione del periodo di residenza legale per tre anni in tenera età: nozione di tale interruzione ai fini dell’applicazione della norma
Ancora una volta il Tribunale di Bologna si distingue per l’emissione di provvedimenti di contenuto innovativo. In questo caso il ricorrente, nato e residente legalmente in Italia fino al compimento del diciottesimo anno di età, lamentava il rigetto della domanda per l’acquisto della cittadinanza italiana per elezione, fondato sulla interruzione di tale residenza per circa tre anni e mezzo durante la c.d. tenera età, ovvero dall’età di due anni a quella di poco più di cinque anni. Ovviamente tale allontanamento non era imputabile alla volontà del ricorrente, ma era dovuto a motivi contingenti della madre, costretta a ritornare nel suo Stato di origine per motivi di salute e obbligata ad attendere un nuovo permesso di soggiorno per il ricongiungimento familiare con il marito rimasto in Italia.
Dal canto suo, il Tribunale di Bologna non si limita a constatare il carattere involontario di questa temporanea assenza, ma svolge una serie di approfondite considerazioni sulla nozione di “senza interruzioni” riguardo alla residenza legale in Italia contenuta nell’art. 4 co. 2 della l. n. 91/92 ai fini appunto di questo modo di acquisto della cittadinanza. In effetti, il giudice ricorda anzitutto che la ratio della norma è quella di assicurare alle persone in possesso dei citati requisiti il diritto soggettivo al conseguimento a pieno titolo della cittadinanza italiana, purché abbiano sviluppato in Italia la propria identità sociale e personale. In particolare, la sola “interruzione” suscettibile di dispiegare un effetto negativo è quella che arresta il percorso di socializzazione sul territorio del Paese di nascita. In sintesi, una corretta lettura della norma, alla luce della sua ratio e dei valori costituzionali, porta all’acquisto della cittadinanza italiana da parte dello straniero che abbia qui costruito la propria identità sociale e personale, integrandosi nel tessuto sociale e culturale del Paese e nella sua collettività sociale, senza che possano assumere rilievo in termini negativi eventuali interruzioni che, a prescindere dalla loro lunghezza, non abbiano comunque inciso in alcun modo su tale percorso di socializzazione e identificazione personale ( Trib. Bologna, ord. 29.12.2023 ).
Acquisto della cittadinanza per matrimonio
Rigetto dell’istanza da parte della prefettura per la pretesa sussistenza di reati: ruolo e poteri del giudice civile
Un cittadino straniero aveva fatto ricorso di fronte al Tribunale di Brescia contro un provvedimento di rigetto da parte della prefettura della sua istanza, volta all’acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio, contestando, a proposito della presunta esistenza di precedenti penali a suo carico, da un lato che la violazione delle norme sulla circolazione stradale (guida in stato di ebbrezza) costituiva un reato contravvenzionale, non preclusivo dell’acquisto suddetto; dall’altro, la mancata considerazione della sentenza di assoluzione per il reato di rapina ascrittogli.
Il giudice premette ineccepibilmente che, secondo le norme sul riparto di giurisdizione in questa materia, più volte anche qui ricordate, riguardo alla declaratoria di illegittimità del decreto egli è indubbiamente carente di giurisdizione. Tuttavia, le considerazioni svolte in relazione alla domanda di accertamento dello status formulata dal ricorrente non fanno venir meno sotto questo profilo la giurisdizione del giudice adito. Secondo il Tribunale, infatti, la disciplina in materia non impone, ai fini dell’accertamento del relativo diritto, la domanda o l’iter amministrativo come presupposto o condizione per la domanda in sede giudiziale; inoltre, l’art. 19-bis del d.lgs. n. 150/2011, nel disciplinare il rito delle controversie in materia di cittadinanza devolute al giudice ordinario, utilizza il concetto di “accertamento dello stato di cittadinanza” e non di impugnazione o opposizione.
Per di più, essendo stato prodotto in giudizio il provvedimento di riabilitazione relativo al primo reato si ritiene, anche sulla scorta di quest’ultimo e della sentenza di assoluzione, che non ricorrano neppure i gravi motivi attinenti alla sicurezza della Repubblica di cui all’art. 6 co. 1 lett. c) della l. n. 91/92. In realtà, trattandosi di una valutazione demandata agli organi amministrativi, anche se fortemente vincolata, sarebbe stata necessaria un’attestazione, ovvero un’informativa sia pur rapida da parte degli organi di polizia a ciò preposti. In ogni caso, constatando altresì l’insussistenza del requisito relativo alla conoscenza della lingua italiana ex art. 9.1 della legge sulla cittadinanza, non ancora vigente all’epoca dell’istanza, viene dichiarato l’acquisto dello status civitatis italiano ( Trib. Brescia, ord. 6.11.2023 ).
Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione
a) Requisiti di reddito: irrilevanza dei mutamenti intervenuti dopo l’istanza malgrado il sensibile ritardo del suo rigetto. b) Irrilevanza del mancato rispetto dei termini per la conclusione del procedimento. c) Incidenza di un reato contravvenzionale risalente. d-e) Requisito della residenza decennale: esclusiva rilevanza delle certificazioni anagrafiche
Nella sempre copiosissima prassi giurisprudenziale, soprattutto derivante dall’attività del Tar del Lazio, è possibile scorgere due tratti sempre più presenti nella prassi appunto di quest’ultimo: da un lato, quello – sostanziale – relativo alla chiusura dei giudici rispetto all’accoglimento di qualsiasi motivo di ricorso; dall’altro, quello – formale – relativo alla inusuale ampiezza delle motivazioni adottate, quasi a voler suffragare il suddetto sbarramento.
Ne costituisce una prima testimonianza una sentenza nella quale, dopo aver ricordato che la comunicazione del preavviso di rigetto in via telematica con inserimento nell’area riservata del portale del Ministero dell’interno rappresenta una modalità ordinaria di comunicazione delle pubbliche amministrazioni con il privato, quindi valida da un punto di vista giuridico, i giudici si soffermano sulla ineludibile esigenza di un reddito idoneo ai fini dell’attribuzione della cittadinanza, risalendo nella motivazione addirittura al rapporto di scambio, che, dopo la Rivoluzione francese, caratterizza il contratto sociale che lega il cittadino allo Stato di appartenenza, dunque sulla necessità di un “contributo” personale e materiale per il progresso di quella collettività di cui si entra a far parte. Per di più, la condizione di poter disporre di un reddito minimo di livello adeguato è altresì volta a scongiurare richieste strumentali della cittadinanza da parte di soggetti interessati a sfruttare il “fenomeno (crescente)” del c.d. “voto di scambio”. Riguardo poi al periodo in cui tale condizione deve essere soddisfatta, viene ripetuto che occorre tener conto sia del reddito già maturato nel triennio precedente al momento della domanda sia di quello successivo, in quanto lo straniero deve dimostrare di possedere con una certa stabilità e continuità nel tempo il requisito in parola, che va mantenuto fino al momento del giuramento, come previsto dall’art. 4, co. 7 del d.p.r. 12.10.1993, n. 572. Invero, questa norma non prevede tale requisito. Per di più, il ritardo della PA nell’esame della richiesta di cittadinanza (in questo caso, la pratica si è conclusa a distanza di cinque anni da tale richiesta…) non comporta l’applicazione – neppure in via analogica – del principio della rilevanza delle sopravvenienze favorevoli sancito dalla normativa che disciplina la materia dell’immigrazione. Risulta perciò quasi sardonico affermare che, per far valere un mutamento della situazione, l’interessato può instaurare un nuovo procedimento, presentando una nuova domanda, già “solo dopo un anno dal rigetto della precedente” (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 25.9.2023, n. 14163).
Del resto, il tema della pretesa assenza di limiti temporali per l’adozione di un provvedimento negativo era stato già affrontato e deciso negli stessi termini in una pronuncia di poco antecedente, nella quale si dichiara che il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento legittima unicamente il ricorso al giudice amministrativo per la dichiarazione dell’obbligo dell’Amministrazione di provvedere espressamente sulla domanda. Non a caso viene citata una giurisprudenza di dieci anni or sono e non ovviamente l’art. 9-ter della l. n. 91/1992 (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 20.9.2023, n. 13932).
Ad ulteriore esempio del trend più sopra rilevato può essere menzionato un provvedimento amplissimo dei medesimi giudici amministrativi, investiti di un ricorso nel quale si censurava il diniego della richiesta di cittadinanza fondato su un rapporto informativo della questura dal quale risultava a carico del ricorrente una condanna risalente per uso di atto falso (con successiva riabilitazione) e pregiudizi penali per danneggiamento della struttura carceraria, favoreggiamento e procurata evasione.
Il ricorrente faceva però valere, riguardo alla prima imputazione, che era stato condannato nel 2003, insieme ad altri, per aver fatto uso nel 1998, sebbene “senza essere concorso nella falsità”, di una ricevuta postale di versamento consegnata agli uffici della questura, da considerarsi certificazione amministrativa falsa, al fine di ottenere la regolarizzazione sul territorio dello Stato dimostrando la propria presenza in Italia. Riguardo al secondo capo, esibiva un provvedimento di archiviazione, peraltro già presentato al momento del preavviso di diniego, emesso su conforme richiesta del pubblico ministero, non essendovi prova che egli avesse partecipato alle attività preparatorie dell’evasione. Di fronte a tali allegazioni, il Tribunale amministrativo sviluppa una serie fittissima di motivi al fine di giungere a dichiarare l’infondatezza del ricorso. Trascurando la parte iniziale, tradizionalmente dedicata alle ben note considerazioni sulla valenza sottostante all’attribuzione della cittadinanza e alla relativa discrezionalità, viene condiviso il rifiuto del Ministero enfatizzando sotto molteplici profili il disvalore della condanna riportata, considerata come persistente indice di inaffidabilità della persona, a nulla rilevando né l’intervenuta riabilitazione, in base al principio della pluriqualificazione dei fatti giuridici, né il decorso del tempo né infine l’archiviazione del secondo procedimento. Si tratta di motivazioni indubbiamente già formulate in passato, come risulta dai precedenti ovunque richiamati, ma molto probabilmente in occasione di condanne ben più gravi. Inoltre, proprio in questa Rassegna sono riportate le conclusioni antitetiche raggiunte dai giudici in un caso analogo, ma relativo all’acquisto della cittadinanza per matrimonio. In questa sentenza non manca neppure il richiamo (di per sé ineccepibile) alla competenza esclusiva di ogni Stato nel determinare i modi di acquisto della propria cittadinanza e nemmeno una confutazione (di per sé anch’essa incontestabile) dell’incidenza in questa fattispecie della giurisprudenza della Corte di giustizia europea (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 18.9.2023, n. 13823).
Meritano infine di essere segnalate due decisioni relative al requisito della residenza decennale, previsto appunto dall’art. 9 co. 1 lett. f) della l. n. 91/1992.
La prima respinge un ricorso volto ad attestare con prove supplementari l’ininterrotta presenza in Italia dell’interessato in contrasto con quanto emergeva dalle risultanze anagrafiche, salvo invitare il medesimo ad adire l’autorità giudiziaria ordinaria ai fini della rettificazione delle risultanze suddette (Tar Lazio, sez. V-bis, sent. 22.11.2023, n. 17349). Appare qui evidente (e per certi versi ineluttabile) un orientamento opposto a quello tenuto dal Tribunale di Bologna nella ordinanza sopra citata a proposito dell’acquisto della cittadinanza per elezione.
Un diverso giudice amministrativo ritiene invece fondato un ricorso basato sull’esibizione del certificato storico di residenza del proprio Comune dal quale non risultava alcuna cancellazione per irreperibilità, contrariamente a quanto asserito nel preavviso di diniego della PA. e senza esigere fortunatamente la riproposizione dell’istanza di cittadinanza (Tar Veneto, sez. III, sent. 13.9.2023, n. 1279).
Accertamento dell’apolidia
Elementi probatori insufficienti per la dichiarazione di apolidia
A differenza di pressoché tutte le decisioni esaminate nelle precedenti Rassegne è stata emessa, nel periodo qui rilevante, una sentenza di contenuto negativo, la quale rigetta l’impugnazione di una precedente decisione che respingeva a sua volta una richiesta di accertamento di apolidia. In particolare, l’appellante aveva prodotto in giudizio, ai fini appunto dell’impugnazione, i medesimi documenti prodotti davanti al Tribunale, attestanti la nascita in Italia sua e dei genitori e i certificati di due Stati della ex Iugoslavia comprovanti la mancanza delle rispettive cittadinanze. Ad avviso dei giudici, si tratta di una documentazione inadeguata, perché in effetti non chiarisce sufficientemente, anche attraverso la ricostruzione delle vicende dei genitori, i pregressi punti di contatto con tali Stati. Né il giudice potrebbe in tal caso procedere d’ufficio all’acquisizione di ulteriori prove, come stabilito da una pronuncia della Corte di cassazione del 2007, a causa della scarsità degli elementi forniti dall’attore ( App. Roma, sent. 1.9.2023, n. 5571 , in Banca dati DeJure).