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Fascicolo 1, Marzo 2024


«Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte "originali",

significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte,

"socializzarle" per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali».

Antonio Gramsci

 

Asilo e protezione internazionale

SOMMARIO 

VISTO d’ingresso umanitario per asilo (Iran - donna minorenne LGBTQ+ - giurisdizione - diritto d’asilo ex art. 10, co. 3 Cost. - diritto all’ingresso); PROTEZIONE INTERNAZIONALE - diritto alla formalizzazione della domanda di protezione internazionale (impossibilità di accesso alla questura - giurisdizione ordinaria - attività vincolata della PA - irrilevanza incompetenza territoriale della questura - rilevanza della manifestazione di volontà - ricorso cautelare giustificato dal rischio espulsivo); status di rifugio politico (appartenenza a un particolare gruppo sociale - tratta di essere umani - sfruttamento lavorativo - opinioni politiche); protezione sussidiaria (violenza indiscriminata in condizioni di conflitto armato interno - art. 14, lett. c), d.lgs. 251/2007);

questioni procedurali e processuali (eccezioni alla presunzione di sicurezza del Paese d’origine previsti nelle c.d. schede Paese - manifesta infondatezza e valutazione nel merito della credibilità delle dichiarazioni - sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento di manifesta infondatezza - disapplicazione del d.m. del 17.3.2023 che aveva inserito la Tunisia tra i Paesi di origine sicuri - spese di lite e proposta anticipata di decisione ex art. 380-bis c.p.c. - dovere di cooperazione istruttoria - domande reiterate - dovere di informazione e art. 10-ter TU d.lgs. n. 286/1998); PROTEZIONE SPECIALE - diritto alla formalizzazione della domanda (disciplina transitoria ex d.l. n. 20/2023 - manifestazione volontà - inizio procedimento amministrativo); presupposti della protezione speciale (diritto al rispetto della vita privata e familiare - durata soggiorno e nozione legami familiari - vulnerabilità e prostituzione volontaria - studenti stranieri in Ucraina - povertà e crisi climatica); diritti connessi alla protezione speciale (la ricevuta di permesso e il codice fiscale - il diritto alla conversione nel diritto intertemporale); accoglienza (revoca e rimborso spese accoglienza - principio di proporzionalità); Regolamento n. 604/2013 (clausola discrezionalità art. 17 Regol. Dublino - sentenza CGUE 30.11.2023)  

VISTO D’INGRESSO per MOTIVI di ASILO o UMANITARI 

Anche in questo numero pubblichiamo una decisione del Tribunale di Roma che ordina alle Amministrazioni dello Stato il rilascio di un visto d’ingresso per presentare domanda di protezione internazionale, lasciando libero lo Stato di individuare la tipologia di visto ritenuta più idonea.  

Decisione la cui specificità si descriverà meglio in seguito, ma già in questa breve premessa si vuole evidenziare che la questione non si è affatto chiusa con le decisioni negative del 2022, ma è proseguita in un percorso che man mano sta declinando in maniera sempre più concreta il diritto d’ingresso per ragioni umanitarie, pur sempre nell’ambito di uno schema classico di giurisdizione extraterritoriale, ovverosia individuando un collegamento già esistente tra lo Stato e il/la richiedente il visto. Tema su cui questo stesso numero della Rivista ospita un’interessante riflessione di D. Belluccio, che propone percorsi diversi per giungere allo stesso risultato di consentire l’ingresso in Italia a chi si trovi in pericolo di violazione di diritti fondamentali. 

Con   ordinanza cautelare 22.11.2023, RG. 52019/2023 , il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso proposto da una cittadina iraniana, soggiornante in Italia con permesso per studio, la quale, non avendo ancora i requisiti per il ricongiungimento familiare, aveva chiesto all’Ambasciata italiana in Iran il rilascio di un visto d’ingresso per consentire alla figlia minore, in grave pericolo, di raggiungerla. Richiesta a cui la Rappresentanza consolare italiana non ha mai risposto, rendendo necessaria la proposizione di un ricorso d’urgenza. Nel giudizio la ricorrente ha dimostrato il pericolo al quale è esposta la figlia in Iran, per la sua condizione omosessuale, per avere partecipato a manifestazioni antigovernative dopo l’assassinio di Masha Amini (settembre 2022) e per comportamenti ritenuti contrari alla morale religiosa governativa, tant’è che in un’occasione è stata anche redarguita anche dalla polizia morale. Condizione che aveva indotto nella minore uno stato di profondo disagio psichico, per il quale è seguita da un Centro di supporto psicologico (per quanto è dato comprendere, attivato a distanza da un’associazione italiana). In giudizio, la madre-ricorrente ha precisato di non volere, lei stessa, chiedere asilo in Italia perché, se riconosciuta, le impedirebbe di tornare in Iran nel caso si determinasse un’emergenza per la figlia. Accertata, anche documentalmente, la vicenda, il Tribunale ha ravvisato il concreto rischio per la minore di subire persecuzioni in Iran, se non addirittura per la stessa vita, alla luce di numerose e qualificate fonti di informazione, le quali descrivono una situazione di estrema illibertà e di durissima repressione generale, oltre che specifica nei confronti delle donne che non accettano lo stile comportamentale imposto dal regime teocratico.  

Ai fini della giurisdizione, cioè del potere di emettere una decisione, il Tribunale ha individuato un solido collegamento con lo Stato italiano nella presenza della madre in Italia e nel suo diritto a proteggere la figlia, così come nel diritto di quest’ultima a vivere con la madre sfuggendo ai gravissimi rischi ai quali è esposta in Iran, declinando in tal modo il principio del superiore interesse del fanciullo di cui alla Convenzione di New York del 1989 (richiamato espressamente anche dall’art. 28, co. 3 TU immigrazione d.lgs. 286/98) ma anche alla luce dell’art. 8 CEDU e, non da ultimo, del diritto all’unità familiare previsto dalla Costituzione e più volte affermato quale inviolabile dalla Corte costituzionale (a partire dalla sentenza n. 28/1995). 

Nella decisione qui in rassegna, la Giudice richiama anche l’art. 10, co. 3 della Costituzione quale diritto a fare ingresso sul territorio nazionale (Cass. n. 25028/2005), pur in assenza di una legge che ne regolamenti le modalità (Corte di cassazione, SU, n. 4674/1997 e SU, n. 907/1999,). Precisa il Tribunale che «D’altro canto l’affermazione secondo la quale l’introduzione delle tre forme di protezione – status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria – copre l’intera portata del diritto di asilo costituzionale ha riguardo, evidentemente, al contenuto del diritto di asilo e non alle condizioni per la presentazione della domanda, quali la necessaria presenza sul territorio nazionale che nella norma costituzionale non è prevista. L’evocazione, contenuta nell’art. 10, co. 3, Cost., del “territorio della Repubblica” viene prospettata quale luogo dove lo straniero potrà effettivamente beneficiare della situazione giuridica soggettiva di riferimento e non quale luogo dove il richiedente asilo debba previamente trovarsi al fine di chiederne il riconoscimento.». 

Quanto allo strumento utilizzabile per fare ingresso in Italia, la decisione in commento lascia la sua individuazione allo Stato, fermo restando che deve essere autorizzato immediatamente ed evidenzia che la ritenuta impossibilità di applicare l’art. 25 Regol. n. 810/2009 (interpretato, è noto, restrittivamente sia dalla Corte EDU che dalla Corte di giustizia) è di fatto superata dalla prassi, in Italia così come in altri Paesi UE, per effetto dei cd. “corridoi umanitari”, rispetto ai quali e «non può certo ritenersi, in uno stato di diritto, che la possibilità o meno di utilizzare un istituto previsto dall’ordinamento, sebbene non specificamente regolato dalla normativa interna, sia rimesso alla sola discrezionalità della pubblica amministrazione senza che sia possibile alcun sindacato giurisdizionale in merito o alcuna applicazione giurisprudenziale di tale istituto». 

 

La PROTEZIONE INTERNAZIONALE  

Diritto alla formalizzazione della domanda 

Il Tribunale di Torino, con ordinanza 27.9.2023 RG. 14960/23 , ha respinto il reclamo proposto dal Ministero dell’interno avverso la decisione con cui il Tribunale in sede cautelare aveva accolto il ricorso d’urgenza proposto da richiedente asilo al quale la questura di Torino non aveva consentito, di fatto, la presentazione della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, nonostante vari e reiterati tentativi di accesso all’Ufficio immigrazione, alla questura di formalizzare la domanda entro 30 gg. Nel reclamo l’Avvocatura di Stato ha eccepito, innanzitutto, il difetto assoluto di giurisdizione (la questura non può ricevere un ordine che interferisce con il proprio potere organizzativo), oltre che l’errata ricostruzione dei fatti da parte del giudice di prime cure e l’assenza di periculum in mora

Quanto alla giurisdizione, il Tribunale rigetta l’eccezione ministeriale ribadendo consolidati principi giurisprudenziali che attribuiscono al giudice ordinario il potere di decidere in relazione a diritti fondamentali, anche in sede cautelare (Cass. 9791/23), così come «può imporre alla PA comportamenti aventi ad oggetto mere attività materiali, come quella di fissare un appuntamento (Cass. 599/2005)». Afferma poi che nello specifico della protezione internazionale la PA non gode di discrezionalità per la ricezione, formalizzazione e registrazione della domanda in quanto è attività vincolata, disciplinata da specifiche disposizioni di legge (art. 26 d.lgs. 25/2008). 

Il Tribunale del reclamo contesta, poi, la ricostruzione dei fatti proposta dalla difesa dello Stato, ritenendo irrilevante che anni addietro il ricorrente avesse già presentato domanda di riconoscimento della protezione internazionale, poi rinunciata, in quanto l’ordinamento consente la presentazione di una nuova domanda, irrilevante anche che non si sia presentato nel passato agli inviti rivoltegli dalla questura in relazione a denunce penali. 

Un ulteriore passaggio motivazionale rilevante è laddove il Tribunale rigetta anche l’eccezione di incompetenza della questura di Torino a ricevere la domanda non essendo provato che il richiedente abiti nella provincia torinese, sollevata dall’Avvocatura di Stato. Si afferma, al riguardo, l’irrilevanza dell’eccezione non solo perché smentita dagli stessi inviti della questura relativi alle denunce ma soprattutto perché vi è l’obbligo dell’autorità di P.S. di riceverla comunque, anche se territorialmente non competente. Infatti «l’art. 6 paragrafo 1 secondo periodo della Direttiva 2013/32/UE stabilisce che “Se la domanda di protezione internazionale è presentata ad altre autorità preposte a ricevere tali domande ma non competenti per la registrazione a norma del diritto nazionale, gli Stati membri provvedono affinché la registrazione sia effettuata entro sei giorni lavorativi dopo la presentazione della domanda.”, con la conseguenza che anche in caso di incompetenza la Questura è tenuta ad applicare la direttiva citata che dispone che la registrazione della domanda deve essere effettuata nel termine di sei giorni lavorativi decorrenti dalla presentazione della domanda.». 

Infine, nella decisione in rassegna viene ribadito il principio giurisprudenziale secondo cui «Lo straniero acquisisce lo status di richiedente asilo in un momento precedente a quello della formalizzazione della domanda e cioè nel momento dell’effettiva manifestazione della volontà di avanzare la domanda di protezione internazionale, anche a mezzo pec, non richiedendo la normativa italiana né quella europea che questa sia espressa in forme particolari (cfr Cass. 21910/2020).». 

Infine, il Tribunale conferma anche il periculum in mora, che giustifica il ricorso d’urgenza, poiché nelle more di un giudizio ordinario il ricorrente può essere espulso e denunciato per il reato di cui all’art. 10-bis TU d.lgs. 286/98 e, inoltre, non potrebbe avere accesso a servizi essenziali per la persona. 

 

Lo status di RIFUGIO POLITICO 

Appartenenza ad un particolare gruppo sociale 

Nel periodo in rassegna la giurisprudenza di merito si è più volte pronunciata su domande di protezione internazionale spiegate da persone straniere, donne o uomini, vittime di tratta degli esseri umani. 

Il Tribunale di Milano, con decreto del 10.7.2023  ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un uomo nigeriano, vittima di tratta a fini di sfruttamento lavorativo. Nel caso portato all’attenzione dei giudici meneghini, all’esito dell’audizione del ricorrente e dell’esame della relazione dell’ente anti tratta (depositata all’esito dell’attivazione della procedura di referral da parte del giudice), sono emersi numerosi indicatori di tratta: la presenza di elementi di costruzione, il debito per l’organizzazione del viaggio, la fornitura di documenti falsi per il viaggio da parte dell’organizzazione, la completa assenza di libertà di movimento sul territorio e il rito ju-ju. Premessi tali elementi, con riferimento alla possibilità di considerare coloro che sono stati vittima di tratta in passato come appartenenti ad un particolare gruppo sociale, il Tribunale ha osservato che tali persone possono essere considerate come un gruppo sociale basato sulla caratteristica immutabile, comune e storica dell’essere stati vittime di tratta, aggiungendo altresì che una società potrebbe inoltre, in base al contesto, considerare le persone che sono state vittime di tratta come un gruppo riconoscibile all’interno di quella società.  

Ancora con riferimento alla tratta a fini di sfruttamento lavorativo, il Tribunale di Roma, con decreto del 28.7.2023 ha riconosciuto la protezione maggiore ad un cittadino del Bangladesh, vittima di sfruttamento sia in Libia che in Italia. Nella decisione in esame, in particolare, il Collegio ha sottolineato come, nonostante il ricorrente si sia inizialmente rivolto spontaneamente ai trafficanti (proprio allo scopo di riuscire a guadagnare parte delle somme necessarie per ripianare il debito contratto per far fronte alla condizione di gravissima indigenza economica della famiglia), ai sensi dell’art. 3 della Convenzione di Palermo (Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale), il «consenso della vittima allo sfruttamento è irrilevante nei casi in cui sono utilizzati abuso di potere o di una condizione di vulnerabilità». 

Il Tribunale di Torino, con decreto 4.12.2023 , ha ravvisato la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiata in favore di una giovane donne nigeriana, vittima di tratta a fini di sfruttamento sessuale. Ad avviso dei Collegio, le dichiarazioni della ricorrente, contrariamente rispetto a quanto ritenuto dalla Commissione territoriale, sono apparse del tutto coerenti con le fonti di informazione relative al Paese d’origine in merito alle modalità di reclutamento e di organizzazione del viaggio, con finalità di sfruttamento a fini sessuali. È stato inoltre osservato come le difficoltà e la reticenza della ricorrente possono essere giustificati in ragione del «timore di esporsi a giudizi ed al disagio eventualmente vissuto nel rievocare episodi dolorosi e di sofferenze psicologiche patite».  

Razza ed opinioni politiche 

Il Tribunale di Brescia, con decreto del 10.10.2023 , si è pronunciato sulla domanda di protezione spiegata da un cittadino turco di etnia curda, il quale ha riferito, in modo dettagliato e specifico, delle violenze e delle discriminazioni subite, a causa della sua appartenenza all’etnia curda e della militanza, sebbene come semplice simpatizzante, per il partito HDP. In particolare il ricorrente ha riferito delle difficoltà a trovare lavoro, dei continui pestaggi ad opera della polizia, delle sevizie e degli arresti arbitrari, delle difficoltà per le persone curde di associarsi e riunirsi liberamente, delle incessanti accuse rivolte ai curdi di essere terroristi, oppositori del governo e, quindi, traditori. Con riferimento al fattore di inclusione relativo alle opinioni politiche, il Tribunale ha precisato che sebbene l’essere simpatizzante per un partito politico non sia sufficiente per considerarlo come un’attivista politico, può ritenersi sussistente un rischio di persecuzione, in caso di rimpatrio, atteso che il ricorrente è comunque associato, dalle autorità turche, ad un’organizzazione politica impegnata nella promozione delle libertà del popolo curdo e, quindi, potenzialmente identificabile come oppositore del Governo. Le accreditate ed aggiornate fonti di informazione consultate dal Collegio hanno rivelato l’esistenza di numerose discriminazioni subite dagli appartenenti alla minoranza curda nella vita quotidiana, fra le quali appaiono particolarmente significativi il divieto di parlare in curdo e le aggressioni fisiche e pressioni psicologiche inflitte agli attivisti e simpatizzanti del partito HDP. Tali elementi, ad avviso del Tribunale, integrano atti persecutori a «matrice etnico-nazionale e politica» che si sono tradotti in condotte di violenza fisica ed in trattamenti inumani e degradanti, alcuni dei quali sufficientemente gravi da integrare la fattispecie di cui all’art. 7, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 251 del 2007 e comunque, per pluralità, intensità e sistematicità della persecuzione, senz’altro tali da essere ricondotti alla lett. b) della norma appena citata. 

 

La PROTEZIONE SUSSIDIARIA 

D.l.gs. 19.11.2007, n. 251, art. 14, lett. c) 

Il Tribunale di Torino, con decreto del 20.11.2023 , ha riconosciuto la protezione sussidiaria ad un uomo pakistano, nato e cresciuto in Azad Kashmir. Il Collegio, ritenute non credibili le dichiarazioni del ricorrente in merito al timore paventato (considerato, comunque, di matrice solo soggettiva), ha ricordato l’orientamento della Corte di Giustizia e della Suprema Corte sulle nozioni di “violenza indiscriminata” e “conflitto armato”, per poi concludere, alla luce di un rigoroso esame delle COI più aggiornate ed accreditate, che la zona di origine del richiedente, vale a dire il villaggio di Pachiot, nell’Azad Kashmir, nei pressi della c.d. LoC, al confine con l’India sia caratterizzata da una situazione di “violenza indiscriminata” generata da “conflitto armato” nel significato più sopra precisato, tale da mettere in pericolo la vita e l’incolumità fisica di qualunque civile per la sola presenza fisica sul territorio nazionale. 

 

QUESTIONI PROCEDURALI e PROCESSUALI 

Sospensione dell’efficacia esecutiva dei provvedimenti emessi nei confronti dei cittadini provenienti da Paesi designati di origine sicura 

Con decreto del 15.11.2023 , il Tribunale di Perugia – nell’esaminare l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento con cui la Commissione territoriale, a seguito di procedura accelerata aveva rigettato, per difetto di credibilità, la domanda spiegata da una donna originaria della Costa d’Avorio che, dopo essersi trasferita in Mali all’età di 10 anni, aveva subito la pratica della mutilazione genitale ed era stata costretta ad un matrimonio forzato – ha ritenuto sussistenti i presupposti per l’accoglimento dell’istanza cautelare. In particolare, i giudici perugini hanno sottolineato come la Commissione non abbia utilizzato la formula terminativa della manifesta infondatezza, decidendo la domanda nel merito, e come il ricorso alla procedura accelerata debba ritenersi “di dubbia legittimità”, atteso che proprio la scheda del MAECE relativa alla Costa d’Avorio prevede espressamente come “eccezione” alla presunzione di sicurezza del Paese proprio i casi di domande in cui siano allegate violenze di genere (tra le quali le mutilazioni genitali femminili). 

Sulla questione relativa al rapporto tra svolgimento di una procedura accelerata ed ipotesi di manifesta infondatezza torna a pronunciarsi il Tribunale di Bologna che, con decreto del 1.8.2023 , in merito alla richiesta di sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento emesso nei confronti di un ricorrente proveniente da un Paese designato di origine sicura, ha affermato che la Commissione territoriale può adottare una decisione di manifesta infondatezza indipendentemente dall’applicazione al caso concreto della procedura accelerata, con la conseguenza che non tutte le domande dichiarate manifestamente infondate ai sensi dell’art. 32, co. 1, lett. b-bis) sono adottate all’esito di una procedura accelerata. Sul punto ha poi precisato che «la distinzione tra le due ipotesi è di fondamentale importanza: soltanto le decisioni di manifesta infondatezza adottate a seguito dell’applicazione della procedura accelerata prevista dall’art. 28-bis, d.lgs. n. 25/2008 sottostanno al regime del dimezzamento dei termini per la formulazione del ricorso giurisdizionale, in forza del richiamo operato dall’art. 35-bis, co. 2, ultimo periodo. Mentre l’art. 35-bis, co. 3, lett. c), esclude l’efficacia sospensiva automatica della presentazione del ricorso in tutte le ipotesi di domanda manifestamente infondata, indipendentemente dal fatto che sia stata o meno adottata all’esito di una procedura accelerata». 

Sulla questione in esame, il Tribunale di Genova, con decreto del 10.10.2023 , chiamato a pronunciarsi sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento di manifesta infondatezza adottato nei confronti di un richiedente proveniente da un Paese designato di origine sicura, si è soffermato sul significato del richiamo operato dall’art. 35-bis, comma 3, lettera d) ai «soggetti di cui all’art. 28-bis». Con riferimento a tale aspetto, il Collegio ha affermato che il legislatore ha voluto richiamare solo per la provenienza da Paese di origine sicuro e non per gli altri casi di manifesta infondatezza la procedura accelerata di cui all’art. 28-bis, con la conseguenza che solo nel caso di provenienza da Paese di origine sicuro il mancato rispetto dei tempi e dei modi della procedura accelerata abbia come conseguenza l’applicazione della regola generale della sospensione ex lege dell’esecutività del provvedimento impugnato. 

Il Tribunale di Bologna, con decreto del 20.7.2023 , ha osservato che quando la Commissione territoriale effettua una valutazione in ordine alla credibilità delle dichiarazioni del ricorrente, anche se formalmente adotta un provvedimento di manifesta infondatezza, in realtà emette un rigetto nel merito, con la conseguenza che il ricorso sospende automaticamente l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato. In merito al requisito del periculum in mora, il Tribunale ha affermato che l’esecuzione di un eventuale provvedimento di espulsione con rimpatrio forzato disperderebbe ogni sforzo dell’iniziale integrazione compiuto fino ad ora dalla ricorrente sul territorio nazionale ed ha, di conseguenza, ritenuto sussistenti le «gravi e circostanziate ragioni» (art. 35-bis cit., co. 4) per la sospensione del provvedimento impugnato.  

Ancora il Tribunale di Bologna, con decreto del 13.10.2023 ha affermato che ai fini della manifesta infondatezza, il giudizio della Commissione territoriale non può spingersi sino ad un giudizio di credibilità, «atteso che gli artt. 2-bis e 28-ter del d.lgs. n. 25 del 2008, in conformità con la direttiva n. 32 del 2013 consente il provvedimento di manifesta infondatezza soltanto se il richiedente asilo proveniente da Paese sicuro non ha invocato detti gravi motivi». 

Il Tribunale di Firenze, con decreto del 27.9.2023 si è soffermato sulla questione relativa al rispetto dell’obbligo della questura di trasmettere alla Commissione “senza ritardo” la domanda spiegata da un ricorrente proveniente da Paese sicuro. Nel provvedimento in esame il Tribunale dopo aver ricordato l’orientamento della Suprema Corte in forza del quale il giudice deve sindacare il rispetto dei termini previsti per la trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale per l’audizione entro sette giorni e la decisione entro i successivi due giorni (Cass., sent. n. 25113/2019; ord. n. 7520/2020), ha precisato che «tale sindacato verte senza dubbio sul rispetto della sequenza dei sette giorni per l’audizione più due per la decisione dal ricevimento degli atti assegnati alla Commissione, ma si estende anche inevitabilmente alla precedente fase davanti alla questura, che va dalla presentazione della domanda svolta dal richiedente che proviene da “Paese sicuro” alla trasmissione della stessa con la documentazione alla Commissione, costituendo parte integrante della procedura esplicitamente considerata dalla disposizione di legge, per verificare se la trasmissione possa dirsi effettuata “senza ritardo” o meno, nel qual caso non potrebbe dirsi intrapresa, o legittimamente intrapresa, alcuna procedura accelerata conclusa da una decisione che produca effetti restrittivi per il richiedente». Nel caso portato all’attenzione dei giudici fiorentini, il ricorrente aveva manifestato la volontà di presentare domanda di protezione internazionale prima dell’11.3.2023, era stato sentito in audizione il 23.6.2023, mentre la decisione di manifesta infondatezza era stata adottata nella seduta del 28.6.2023 ed emessa il successivo 24.7.2023. Ad avviso del Tribunale tale ritardo, privo di alcuna giustificazione, portava a ritenere che la decisione della domanda non potesse ritenersi adottata sulla base di una “procedura accelerata”, con la conseguenza che il ricorso, da proporsi nel termine ordinario e non in quello dimidiato, aveva effetto sospensivo automatico. 

 

Disapplicazione del d.m. 17.3.2023 nella parte relativa alla designazione della  

Tunisia come Paese di origine sicuro 

Il Tribunale di Firenze, con decreto del 26.10.2023 decidendo sulla reiterazione dell’istanza di sospensione proposta da un richiedente asilo di origine tunisina, il quale aveva allegato che «devono essere presi in considerazione anche gli elementi di grave crisi socio economica, sanitaria, idrica, alimentare e politica che hanno recentemente riguardato il Paese di origine del …, ovvero la Tunisia, paese che non può più considerarsi sicuro»è tornato ad esaminare la questione relativa al potere dell’autorità giudiziaria di verificare il corretto inserimento di un Paese nella lista dei Paesi sicuri (ove la predetta indicazione – compiuta dall’Amministrazione – si discosti dai criteri previsti dalla legge oppure detta indicazione non sia più rispondente ai predetti criteri alla luce delle mutate condizioni di fatto) per giungere poi a disapplicare, in via incidentale ex art. 5 L.A.C., il d.m. del 17.3.2023 che aveva inserito la Tunisia tra i Paesi di origine sicuri

Nella decisione in esame il Collegio, compiendo ancora un passo in avanti rispetto alle argomentazioni contenute nel decreto del 20.9.2023 (cfr. Rassegna in materia di asilo e protezione internazionale, n. 3 del 2023), ha osservato che il sindacato incidentale del g.o. sulla legittimità degli atti regolamentari «a monte» che disciplinano il procedimento amministrativo all’esito del quale è stata assunta la decisione impugnata, incidente su diritti soggettivi, è stato, da ultimo, riconosciuto dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 33248/2022 in materia di sanzioni CONSOB anche sulla base del principio di concentrazione delle tutele, esigenza che sorge nel caso di specie, dal momento che i procedimenti di protezione internazionale sono devoluti alla giurisdizione del giudice ordinario.  

Il potere del giudice di sindacare il corretto inserimento di un Paese nella lista “paesi sicuri”, proseguono i giudici fiorentini, è coerente e trova fondamento esplicito in quanto previsto dal considerando n. 30 della direttiva procedure nella quale è previsto «che al richiedente siano fornite garanzie supplementari nei casi in cui il suo ricorso non abbia un effetto sospensivo automatico, al fine di renderlo effettivo in circostanze specifiche». Dato che è opportuno che la procedura di esame di una domanda di protezione internazionale contempli di norma per il richiedente almeno: il diritto di rimanere in attesa della decisione dell’autorità accertante (cfr. Considerando n. 25). 

Nella decisione in esame, il Collegio, dopo aver precisato che il decreto ministeriale con cui la Tunisia è stata inserita tra i Paesi di origine sicuri riveste carattere regolamentare per il suo contenuto, che si colloca nella gerarchia delle fonti su un piano secondario rispetto alle fonti primarie, ha affermato che da tale premessa consegue che lo stesso non può porsi in contrasto né con la Costituzione né con il diritto dell’UE né con le leggi ordinarie e che spetta quindi al giudice verificare e risolvere direttamente eventuali antinomie tra la fonte primaria e la fonte secondaria essendo il sindacato di costituzionalità previsto solo per le leggi e gli atti aventi forza di legge. 

Con riferimento al dovere di aggiornamento della valutazione dei presupposti per l’inserimento del Paese di origine del singolo richiedente nella lista Paesi sicuri, il Tribunale ha precisato che, ove il giudice ordinario non potesse valutare la perdurante efficacia in caso di mutamento del presupposto di fatto valutando la situazione aggiornata del Paese, non sarebbe garantito l’effet utile della direttiva, «in quanto il richiedente rischierebbe di vedersi sacrificati i propri diritti processuali e le garanzie procedimentali sulla base di presupposti di fatto considerati dall’autorità amministrativa per la qualificazione di un Paese come sicuro ma non più attuali alla luce del mutamento della situazione di fatto e quindi, in definitiva, al momento dell’adozione dell’atto applicativo impugnato, in assenza delle condizioni legittimanti previste dalla legge e dal diritto dell’UE». 

Ad avviso del Tribunale di Milano, invece, laddove il ricorrente non invochi gravi motivi che portino a ritenere che il Paese d’origine non possa essere considerato sicuro per la situazione particolare in cui lo stesso si trova, non assume rilevanza la questione della disapplicazione del d.m. che ha considerato la Tunisia Paese sicuro. In particolare, con decreto del 1.12.2023 , esaminando l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento di manifesta infondatezza adottato nei confronti di un richiedente tunisino (il quale aveva rappresentato di essere fuggito dal Paese d’origine dopo aver intrattenuto una relazione sentimentale con una ragazza all’insaputa dei famigliari di quest’ultima, i quali, una volta scoperto, lo avevano aggredito), ha affermato che la presunzione di sicurezza è solo relativa, potendo così il giudice, alla luce di un esame della condizione individuale del ricorrente, ritenere che la Tunisia non sia Paese sicuro per quel determinato ricorrente. 

 

Sospensione dell’efficacia esecutiva dei provvedimenti di inammissibilità  

Con decreto del 7.9.2023 , il Tribunale di Bologna, decidendo sull’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva di un provvedimento che aveva dichiarato inammissibile una domanda reiterata di protezione internazionale, ha ritenuto sussistenti le gravi e circostanziate ragioni poste a base della domanda, alla luce del fatto che il ricorrente aveva dimostrato di essere stabilmente inserito, da un punto di vista lavorativo, in Italia. Tale elemento ha portato i giudici bolognesi a ritenere che il suo rimpatrio potrebbe costituire una violazione grave del diritto al rispetto della sua vita privata ex art. 8 CEDU. In particolare, con riferimento a tale aspetto, il giudice ha affermato che «la valutazione delle suddette circostanze non può essere pretermessa sulla scorta della novella normativa di cui al d.l. 20 del 2023 che ha inciso, abrogandolo, sulla seconda parte del comma 1.1, dell’art. 19 del d.lgs. n. 286/98 (come sostituito dal d. l. 130/2020) dal momento che permane il dovere di valutare il rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali, tra i quali va annoverato quello assunto dall’Italia con la sottoscrizione della CEDU». 

A conclusioni analoghe giunge ancora il Tribunale di Bologna – decreto del 23.9.2023  – laddove, nell’esaminare l’istanza cautelare di sospensiva proposta da una donna nigeriana avverso il provvedimento di inammissibilità della domanda reiterata dalla stessa proposta, ha sottolineato l’importanza, ai fini della sussistenza delle gravi e circostanziate ragioni, di tutelare il diritto al rispetto della vita privata, «ex art. 19 TUI ed ex art. 8 CEDU». Nella fattispecie esaminata dal Tribunale, la ricorrente, presente in Italia da oltre sei anni, viveva in autonomia, parlava la lingua italiana e svolgeva un’attività lavorativa a tempo determinato. 

Qualificazione delle domande di protezione internazionale e 

dovere di cooperazione istruttoria 

La Suprema Corte, con sentenza n. 30365 del 2023 , chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da una donna nigeriana avverso la decisione della Corte territoriale che aveva dichiarato inammissibile la domanda in ragione del fatto che la sottoposizione a tratta era stata allegata, per la prima volta, solo in grado d’appello, ha ribadito che il diritto fondamentale e assoluto alla protezione internazionale è di natura “autodeterminata” e, come tale, è individuato mercé la sola indicazione del relativo contenuto ovvero dell’utilitas che ne rappresenta l’oggetto; cosicché la causa petendi della correlata azione giudiziaria si identifica con il diritto stesso e l’eventuale deduzione del titolo che ne costituisce la fonte, non assolve la funzione di specificazione della domanda, bensì rileva ai soli fini della prova. Tanto premesso, i giudici di legittimità hanno poi precisato che l’eventuale deduzione del titolo che ne costituisce la fonte non assolve la funzione di specificazione della domanda, ma rileva solo ai fini della prova. 

Sul tema del contenuto del dovere di cooperazione istruttoria torna a pronunciarsi la Corte di Cassazione che, con ordinanza n. 27325 del 2023 ha affermato che, a fronte dell'allegazione, da parte del richiedente, delle circostanze suscettibili di fondare la protezione sussidiaria ex art. 14, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 251 del 2007, il giudice è tenuto ad assumere direttamente informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale del Paese d’origine dell’interessato (elaborate dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa) e a indicarne specificamente la fonte e il contenuto nella motivazione. 

Sul tema della censurabilità in Cassazione dei vizi relativi alle informazioni sul Paese d’origine ed al dovere di cooperazione si sofferma la Suprema Corte, che, con ordinanza n. 28696 del 2023 ha affermato che si può escludere il vizio di violazione di legge in caso di consultazione di fonti tipizzate ex art. 8, comma 3, d.lgs. 25/2008 («informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa») non debitamente citate con indicazione degli estremi e della data, potendosi presumere, in difetto di elementi di segno diverso, che si tratti delle più recenti e aggiornate, pubblicamente consultabili. Tale premessa consente così alla Corte, in continuità con quanto sancito da Cass. n. 25500 del 2022, che il riferimento alle fonti tipizzate, in difetto di contraria dimostrazione, sia alla più recente edizione on line delle informazioni divulgate da quella fonte e che sia altresì pertinente e specifico.  

Domande reiterate e rito applicabile 

Con ordinanza n. 29832 del 22.9.2023 la Suprema Corte, richiamando i principi già affermati dalla Corte nell’ordinanza n. 37275 del 20/12/2022, ha affermato che «le domande reiterate di protezione internazionale, proposte successivamente all'entrata in vigore del d.l. n. 130 del 2020, convertito con modifiche nella l. n. 173 del 2020, sono ammissibili anche se fondate esclusivamente su nuovi elementi riconducibili ai presupposti per il riconoscimento della protezione speciale ex art. 19, commi 1 e 1.1, del d.lgs. n. 286 del 1998, atteso che l’oggetto del giudizio è l’accertamento di un diritto soggettivo che include anche i presupposti della invocata protezione complementare». 

Spese giudiziali 

La Suprema Corte, con ordinanza n. 28074 del 2023  chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto avverso la decisione della Corte d’appello che, nel rigettare una domanda di protezione internazionale, aveva posto a carico del ricorrente anche le spese relative al giudizio di legittimità, liquidate in favore del Ministero dell’interno, benché quest’ultimo non avesse svolto alcuna attività difensiva in tale giudizio, ha affermato che la mera costituzione dell’Avvocatura dello Stato, con semplice deposito di atto a ciò finalizzato, non consente la condanna della parte soccombente in favore del Ministero vittorioso, qualora a detta costituzione non abbia fatto seguito lo svolgimento di alcuna attività processuale. 

Ancora in materia di spese processuali, la Suprema Corte, con ordinanza n. 30305 del 31.10.2023 , decidendo il ricorso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ha precisato che, in tale caso, «vanno applicati – come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380-bis c.p.c. – il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c.; non potendo operare il terzo comma, in difetto di costituzione della parte intimata e di pronuncia sulle spese, va disposta, ai sensi del quarto comma dell’art. 96 c.p.c. e stante la colpa grave del ricorrente, nell’avere chiesto, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 380-bis c.p.c., a fronte di proposta di definizione accelerata di inammissibilità per difetto di valida procura alle liti, la decisione del ricorso senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza o dell’inammissibilità della propria iniziativa processuale (Cass., SU, 32001/2022), condanna della parte ricorrente al pagamento di una somma ‒ nei limiti di legge ‒ in favore della cassa delle ammende. Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. n. 115 del 2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto».  

Obblighi di informazione e domanda di protezione internazionale 

Con sentenza n. 32070 del 201.1.2023 la Corte di cassazione si è soffermata sul rilevante tema del dovere di informazione nell’ambito delle procedure di protezione internazionale. In particolare, la Corte ha affermato che ai sensi dell’art. 10-ter del d.lgs. n. 286 del 1998, deve essere assicurata a tutti gli stranieri, condotti per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso gli appositi punti di crisi, un’informazione, completa ed effettiva, sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito, trattandosi di un obbligo diretto ad assicurare la correttezza delle procedure di identificazione e a ridurne i margini di errore operativo; detto obbligo sussiste anche nel caso in cui lo straniero non abbia manifestato l’esigenza di chiedere la protezione internazionale, posto che il silenzio ovvero una eventuale dichiarazione incompatibile con la volontà di richiederla, che deve in ogni caso essere chiaramente espressa e non per formule ambigue, non può assumere rilievo se non risulta che la persona è stata preventivamente compiutamente informata. 

 

LA PROTEZIONE SPECIALE 

Diritto alla formalizzazione della domanda di protezione speciale diretta al questore 

La pronuncia di seguito rassegnata riguarda l’applicazione della disciplina previgente la riforma di cui d.l. n. 20/2023 e alla sua legge di conversione n. 50/2023, che, è noto, ha abrogato l’art. 19, co. 1.2. TU d.lgs. 286/98 nella parte in cui consentiva alla persona straniera di chiedere direttamente al questore il rilascio del permesso per protezione speciale. Questione su cui, va ricordato, da sempre il Ministero dell’interno ha opposto fortissima resistenza dopo la sua introduzione con il d.l. n. 130/2020, censurata unanimemente dalla giurisprudenza, fino a quando il nuovo legislatore 2023 l’ha formalmente espunta dal testo dell’art. 19 TUI. Tuttavia, anche dopo la riforma è continuata la strenua opposizione ministeriale nonostante la previsione di una disciplina transitoria, inducendo un ulteriore e gravoso contenzioso, anche per il sistema giustizia. 

Con   ordinanza 23.8.203 RG. 9338/23  il Tribunale di Bologna ha censurato il provvedimento di irricevibilità della domanda di protezione speciale richiesta al questore di Ferrara nel febbraio 2023 attraverso un servizio di gestione delle istruttorie, affidato a una cooperativa locale (in forza di un Accordo Comune-questura), ma formalizzata successivamente alle modifiche all’art. 19, co. 1.2 TU d.lgs. 286/98 operate con la legge n. 50/2023. Il Tribunale dà conto della riforma evidenziando che l’art. 7, co. 2 d.l. n. 20/2023 ha introdotto una specifica disciplina intertemporale, secondo la quale «per le istanze presentate fino alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero nei casi in cui lo straniero abbia già ricevuto l'invito alla presentazione dell’istanza da parte della Questura competente, continua ad applicarsi la disciplina previgente», e pertanto «Poiché l’irretroattività è principio generale dell’ordinamento e poiché ogni deroga deve essere espressa, chiara e univoca, si impone necessariamente una interpretazione rigorosa, che almeno a questi fini indichi il contenuto del termine “presentare” nella manifestazione espressa e univoca di volontà, avvenuta in questo caso specifico precisamente secondo le modalità imposte dalla stessa Pubblica Amministrazione.». Per il giudice bolognese il termine “presentazione” va inteso nel senso che l’inizio del procedimento amministrativo non coincide con la formalizzazione della domanda bensì con la manifestazione della volontà (peraltro secondo le modalità imposte dalla PA), poiché la prima dipende dai tempi incerti della pubblica amministrazione stessa.  

 

I PRESUPPOSTI DELLA PROTEZIONE SPECIALE 

Il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) 

Con   ordinanza n. 29878/2022  la Corte di cassazione ha accolto il ricorso proposto da richiedente protezione internazionale nigeriana, già vittima di tratta, affermando importanti principi relativamente al riconoscimento della protezione speciale, negatole dal Tribunale di Roma, insieme alle forme principali della protezione internazionale, perché non ritenuta dimostrata la sua integrazione sociale, in quanto priva di rapporti di lavoro nonostante la presenza in Italia da più di 20 anni ed essere stata colpita da condanna penale. La Corte richiama la nuova formulazione dell’art. 19, commi 1 e 1.1. TU d.lgs. 286/98 introdotta dal d.l. n. 13072020 ed evidenzia, in particolare, i criteri indicati dal legislatore per il riconoscimento del diritto al rispetto della vita privata e familiare, affermando che la nuova disposizione «attribuisce diretto rilievo all’integrazione sociale e familiare in Italia del richiedente asilo, da valutare tenendo conto della natura e dell’effettività dei suoi vincoli familiari, del suo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno e dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine, senza che occorra procedere a un giudizio di comparazione con le condizioni esistenti in tale Paese, neppure nelle forme della comparazione attenuata con proporzionalità inversa (Cass. 18455/2022).». Nello specifico del caso oggetto di ricorso, la Cassazione censura la decisione del giudice di merito che, con riguardo ai pregiudizi penali, non ha chiarito quale sia stato il reato commesso che ha determinato la condanna («se è ben vero che l’inserimento di un migrante all’interno del tessuto sociale del Paese ospitante non può che comportare la condivisione dei valori che la comunità nazionale ha posto a suo fondamento e il rispetto dei medesimi, occorre però considerare che non tutti i reati sono indice di una simile estraneità ai principi cardine della nostra società (si pensi, ad esempio, a molti casi di reati colposi)», né in quale epoca sia stato commesso e infine quale sia stato il comportamento successivo della richiedente. In altri termini, la Corte censura l’automatismo preclusivo contenuto nella decisione di merito, mentre è necessaria una concreta valutazione che tenga conto di vari elementi. Quanto alla rilevanza dei legami familiari nel Paese di origine (che secondo il Tribunale sarebbero incompatibili con il diritto alla protezione speciale in Italia) la Cassazione afferma un importante principio, ovverosia l’irrilevanza degli stessi se non confortati dall’effettività di tali legami tenuto conto sia del lungo tempo lontano dal suo Paese, sia dei legami parentali in Italia. Secondo il Giudice di legittimità, infatti, il Tribunale doveva «verificare non tanto il fatto che il nucleo familiare dell'istante continuasse a risiedere nel Paese di origine, come ha fatto il Collegio di merito, ma piuttosto che la richiedente asilo continuasse ad avere un “legame” relazionale con lo stesso, anche alla luce della durata del suo soggiorno all’interno del Paese ospitante ovvero se tale legame sia ormai affievolito e se il nucleo familiare di riferimento sia ormai diventato la sorella e i nipoti con cui convive da anni in Italia.». 

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Avverso la decisione della Commissione territoriale di Firenze-Perugia, di rigetto per inammissibilità (art. 29 d.lgs. 25/2008) della domanda di riconoscimento della protezione internazionale, un richiedente asilo della Costa d’Avorio ha proposto ricorso ex art. 35-bis d.lgs. 25/2008 limitatamente al (negato) riconoscimento della protezione speciale, chiedendo la sospensione dell’efficacia del provvedimento ai sensi dei commi 3 e 4 di detta disposizione processuale. In sede cautelare il Tribunale di Perugia, con ordinanza 4.8.2023 RG. 3307-1/2023  preso atto che il ricorso ha limitato l’impugnazione alla sola protezione speciale e che il ricorrente proviene da Paese di origine sicuro, dunque senza effetto sospensivo ex lege, ha concesso la sospensiva rinvenendo nella lesione del diritto al rispetto della vita privata e familiare le «gravi e circostanziate ragioni» previste dalla legge, tenuto conto della presenza in Italia di effettivi legami familiari (in Italia vive il figlio nato nel 2019, il quale frequenta il nido d’infanzia). La pronuncia cautelare opera un parallelismo tra la protezione umanitaria e la protezione speciale non solo per l’identità dei diritti fondamentali sottesi, ma perché, come già per l’umanitaria, «anche tuttora si deve pervenire alla conclusione per cui non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore in Italia, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio (Cass. civ., sez. I, n. 7733/2020 cit.), al fine di accertare se lo straniero sia a tal punto sradicato dal Paese di provenienza (sul piano socioeconomico e su quello personale) e radicato nel territorio nazionale, che il solo rimpatrio costituisca motivo di pregiudizio di diritti fondamentali personali.». Motivazione che pare, tuttavia, contrastare con i principi in più occasioni affermati dalla Corte di cassazione, anche a Sezioni Unite, che nell’analizzare le due forme di protezione, declinate in modo differente nei diversi interventi normativi succedutesi nel tempo, per la protezione speciale delineata nell’art. 19, commi 1 e 1.1. TU d.lgs. 286/98 ad opera del d.l. n. 130/2020, ha affermato che il rimpatrio in sé può rappresentare violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare in Italia alla luce dei criteri di sua valutazione indicati dal legislatore (Cass. SU n. 24413/2021 e, tra le varie, da ultimo Cass. n. 8400/2023, in questa Rivista n. 2.2023). 

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In un giudizio avente a oggetto un provvedimento di inammissibilità opposto dalla questura di Verona nei riguardi di una domanda di permesso per protezione speciale, ex art. 19, co. 1.2 TU d.lgs. 286/98, il Tribunale di Venezia ha emesso la sentenza n. 2042/2023 RG. 7410/2023 , con cui ha accolto il ricorso proposto ex art. 19-ter d.lgs. 150/2011 rinvenendone i presupposti nell’art. 8 CEDU, avendo il ricorrente dimostrato di svolgere una regolare attività lavorativa e di disporre di autonoma abitazione in cui vive con la moglie e il figlio nato in Italia, entrambi con attività lavorative in corso e il figlio frequentante anche un istituto professionale. Il Tribunale ha ritenuto irrilevanti le deduzioni di violazione di regole procedimentali in quanto il giudizio relativo alla protezione speciale non è di tipo impugnatorio ma riguarda il rapporto sotteso (Cass. n. 17318/2019 e n. 7385/2017 oltre ad altre conformi). 

La prostituzione volontaria 

Con   decreto 13.11.2023 RG. 20668/2023  il Tribunale di Milano ha riconosciuto la protezione speciale a richiedente asilo del Gambia, al quale la Commissione territoriale ha rigettato per manifesta inammissibilità, ai sensi dell’art 28-ter d.lgs. 25/2008, la domanda reiterata di riconoscimento della protezione internazionale (già rigettata nel 2017, anche dal Tribunale di Brescia) presentata da richiedente asilo del Gambia e motivata in ragione della condizione di omosessualità (elemento nuovo), avendo intrattenuto una relazione per due anni con un uomo italiano. La complessa vicenda del ricorrente è compiutamente descritta nel decreto e può così sintetizzarsi: il giovane, arrivato in Italia nel 2016, ha presentato domanda di riconoscimento della protezione internazionale basata sulla vergogna che subiva nella comunità di appartenenza a causa dell’incesto tra il padre e la sorella: domanda negatagli anche dal Tribunale di Brescia nel 2017, determinando la perdita del permesso di soggiorno; vivendo ai margini della società, si è spostato in Germania confidando di ricevere adeguate cure sanitarie, ma non ricevendole è tornato in Italia e dal 2021 al 2023 è stato detenuto in esecuzione di una condanna per rapina; scarcerato, nell’aprile 2023 ha fatto domanda reiterata di riconoscimento della protezione internazionale, dopo essere stato destinatario di un provvedimento di trattenimento in esecuzione di pregresse espulsioni, convalidato dal Giudice di pace ma con proroga del trattenimento negata dal Tribunale di Milano, dopo la presentazione della domanda reiterata. 

Dopo avere dato conto anche dell’attività istruttoria svolta, il Tribunale, che ritiene credibili le dichiarazioni del ricorrente, esclude, sulla base di motivate argomentazioni, il riconoscimento del rifugio politico (pur ammissibile astrattamente anche sur place) basato sul claim LGBTQ per ritenuto difetto dei criteri valutativi (autoidentificazione, accettazione di sé, eventuale problema di identità di genere, relazioni familiari, sentimentali e sessuali, rapporto con la comunità), ma precisando che ciò «non esclude, ex se, la credibilità dei fatti allegati» perché «la qualifica della fattispecie è compito dell’autorità, trattandosi di domanda autodeterminata» (Cass. 8819/2020). 

Il Tribunale esclude anche il riconoscimento della protezione sussidiaria, richiamando varie fonti di informazione e, infine, verifica i presupposti per il riconoscimento della protezione speciale. 

Ed è questa la parte di estremo interesse della pronuncia in rassegna, sotto vari profili. 

Innanzitutto il Giudice prende atto che la domanda reiterata è stata presentata dopo la riforma all’art. 19 TU d.lgs. 286/98 attuata con il d.l. n. 20/2023, entrato in vigore l’11 marzo 2023, che ha abrogato il terzo e il quarto periodo del comma 1.1., i quali espressamente indicavano tra i presupposti per la protezione speciale il diritto al rispetto della vita privata e familiare e i suoi criteri di accertamento, ma ritiene irrilevante detto intervento normativo perché «Non ha subito alcuna modifica la prima parte della disciplina normativa e, dunque, resta fermo il divieto di respingimento o di espulsione o di estradizione “di una persona verso uno Stato […] qualora ricorrano gli obblighi di cui all’art. 5 co. 6. […]”» e dunque «Se da un lato sono stati eliminati gli indici alla cui presenza sorge il diritto alla tutela della vita privata e familiare, dall’altro, tuttavia, alcuna modifica è stata apportata alla tutela delle situazioni di vulnerabilità che continuano ad essere tutelate nell’alveo della prima parte dell’art. 19.1.1. TUI che richiama gli “obblighi di cui all’art. 5 comma 6” del TUI, norma, anch’essa, immutata e che, a sua volta, impone il rispetto degli obblighi “costituzionali o internazionali dello Stato”», tra i quali l’art. 8 CEDU, richiamando a conforto alcune pronunce della Corte di cassazione (Cass. n. 28149/2023 e n. 28162/2023), una delle quali intervenuta anche sugli effetti della riforma 2023 e secondo la quale «il diritto al rispetto della vita privata e familiare non solo è rimasto in vita nell’art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286 del 1998, ma continua ad essere tutelato dall’art. 8 CEDU e rientra in quel “catalogo aperto” dei diritti fondamentali connessi alla dignità della persona e al diritto di svolgere la propria personalità nelle formazioni sociali, tutelati dagli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost., trovando dunque il suo fondamento in fonti sovraordinate rispetto alla legislazione ordinaria» (Cass. 28162/2023: in questo numero della Rivista nella rassegna di Allontanamento e trattenimento). 

Dunque, la permanenza dell’art. 5, co. 6 TU d.lgs. 286/98 (che, è utile ricordare, è presente nel TU immigrazione, d.lgs. 286/98, sia nell’art. 19, co. 1.1. ma anche norma autonoma) rende riconoscibile la tutela (tra gli altri) in relazione al diritto di cui all’art. 8 CEDU anche dopo la restrittiva riforma 2023. 

Un secondo profilo di grande interesse del decreto del Tribunale di Milano, in rassegna, riguarda la declinazione della vulnerabilità del ricorrente, a cui si approccia dopo avere richiamato vari importanti principi giurisprudenziali formatisi intorno a questa protezione complementare (tra i quali quello secondo cui gli stessi fatti, se escludono la protezione internazionale, possono valere per la protezione umanitaria, con valutazione autonoma). Come anticipato, la giudice non ha posto in dubbio la credibilità dei fatti raccontati dal giovane gambiano a fondamento della sua domanda reiterata, ma rispetto alla condizione di omosessualità collegata alla relazione intessuta per due anni con un uomo italiano la qualifica come prostituzione volontaria (in difetto dei criteri già esaminati per il rifugio), in quanto questi gli corrispondeva mensilmente 100/200 euro per provvedere ai bisogni alimentari e gli acquistava anche altri beni di necessità (vestiti, ad esempio). Prostituzione volontaria (scambio sesso/beni) di cui, secondo il Tribunale, il ricorrente non aveva piena consapevolezza avendo intessuto quella relazione a causa della grave emarginazione in cui si è trovato (privo di permesso di soggiorno e dunque senza poter lavorare, e privo altresì di abitazione) e da cui traeva un minimo di mezzi di sopravvivenza: «la delineata condizione di grave disagio materiale nella quale egli si trovava non lo faceva essere neanche consapevole di quanto in realtà il loro rapporto non fosse affatto una relazione, bensì un mero accordo negoziale.». 

L’accertamento della grave vulnerabilità, dunque, ha trovato il suo fondamento nella violazione del diritto all’autodeterminazione e alla dignità per avere il giovane accettato volontariamente una relazione omosessuale qualificata di prostituzione volontaria, in assenza di concrete alternative ed è interessante il richiamo anche ad alcune pronunce della Cassazione, una delle quali (alla luce anche della sentenza della Corte costituzionale n. 141/2019) ha espressamente censurato una decisione di merito con cui la prostituzione volontaria era stata ritenuta estranea alla sfera di vulnerabilità per la quale riconoscersi la protezione speciale (Cass. n. 30402/2021). 

Il decreto, dunque, apre un interessante e innovativo percorso di riconoscimento della protezione speciale, distinto e diverso da quello più “classico” ed esplorato della prostituzione forzata, con declinazione che si confronta con la specificità della condizione del/della richiedente asilo. 

Un ultimo aspetto di interesse della decisione milanese riguarda la relazione tra condanne penali e protezione speciale e sul punto il Tribunale, dopo avere richiamato la pronuncia n. 88/2023 della Corte costituzionale che ha escluso ogni automatismo ostativo conseguente alle condanne, ritiene che il ricorrente non sia socialmente pericoloso, poiché ha interamente scontato la pena, in carcere ha svolto anche attività lavorativa, conosce la lingua italiana e vive in Italia dal 2016, dando così rilievo a diversificati indici di integrazione, i quali prevalgono in un bilanciamento con i pregiudizi penali. 

Per un’analisi più approfondita, sia consentito rinviare al commento di N. Zorzella, La “nuova” protezione speciale al vaglio della magistratura. La prostituzione volontaria e la tutela di diritti fondamentali. Commento a Tribunale di Milano 13 novembre 2023, in Diritti senza confini - Questione giustizia, 6.2.2024 (www.questionegiustizia.it/articolo/prot-spec-post-cutro). 

Il diritto alla vita privata: studenti del Marocco fuggiti dall’Ucraina 

Con due sentenze 6.12.2023 RG. 10954/2023  e 7.12.2023 RG. 8176/2023  – il Tribunale di Bologna ha accolto due distinti ricorsi proposti da cittadini del Marocco, già studenti in Ucraina da cui erano fuggiti a causa della guerra scoppiata nel febbraio 2022, ai quali la Commissione territoriale di Bologna ha negato il riconoscimento della protezione speciale. Pur nella diversità del vissuto dei due ricorrenti (uno già laureatosi in Ucraina in architettura ma intenzionato a conseguire la laurea magistrale; l’altro iscritto alla facoltà di farmacia), entrambe le pronunce riconoscono il diritto alla protezione speciale in applicazione dell’art. 8 CEDU, dunque per il diritto al rispetto della vita privata, avendo entrambi dimostrato di avere intrapreso in Italia un fattivo percorso di integrazione ed avendo entrambi in Italia le proprie compagne, parimenti profughe dall’Ucraina. Le pronunce in rassegna applicano la disciplina dell’art. 19, commi 1, 1.1 e 1.2 TU d.lgs. 286/98 introdotta dal d.l. n. 130/2020 e sua legge di conversione n. 173/2020, dunque previgente alla riforma attuata con il d.l. n. 20/2023, evidenziando che esso non richiede la comparazione tra la condizione di vita in Italia e il rischio di violazione dei diritti fondamentali nel Paese di origine, giacché è il rimpatrio in sé a poter rappresentare violazione del diritto al rispetto della vita privata. 

La povertà e i rischi climatici - divieto di refoulement 

Il Tribunale di Brescia, con decreto 10.10.2023 RG. 11223/2021 , ha riconosciuto a richiedente protezione internazionale del Bangladesh la protezione speciale in relazione alla condizione di povertà vissuta nel suo Paese, conseguente ai disastri climatici che lo affiggono e tenuto conto che in Italia ha intrapreso un percorso di effettiva integrazione. Il richiedente asilo aveva raccontato della povertà in cui era caduta la famiglia a seguito di un’alluvione che aveva distrutto l’intera proprietà (compresa l’abitazione), costringendolo ad emigrare contraendo forti debiti con i parenti. Pur ritenendo credibile la vicenda narrata (ritenuta tale anche dalla Commissione territoriale), il Tribunale ha escluso che la grave povertà in cui il richiedente versava rientri nell’ambito del rifugio politico (peraltro nemmeno chiesto in sede giudiziale) ed ha escluso anche la protezione sussidiaria perché, nonostante le forti criticità socio-politiche del Bangladesh, non sono tali da non integrare i presupposti dell’art. 15 d.lgs. 251/2007. 

Ha riconosciuto, invece, la protezione speciale, nel regime previgente la riforma di cui al d.l. n. 20/2023, perché «Il divieto di respingimento o di espulsione opera ogniqualvolta vi sia il rischio concreto ed attuale che il richiedente possa subire un pregiudizio in relazione a beni giuridici fondamentali, quali la vita e l’integrità fisica, dipendenti anche da fattori oggettivi esterni alla sua persona, tra cui vanno annoverati anche i disastri ambientali o naturali.». 

 

I DIRITTI CONNESSI ALLA PROTEZIONE SPECIALE 

La ricevuta della domanda di protezione speciale e il codice fiscale 

Si protrae da tempo la questione della mancata attribuzione del codice fiscale per coloro che, formalizzata la domanda di permesso per protezione speciale davanti al questore (secondo la previsione dell’art. 19, co. 1.2. TU d.lgs. 286/98, abrogata dalla legge n. 50/2023 di conversione in legge del d.l. n. 20/2023), ricevono la ricevuta nella quale, però, non viene indicato il C.F. 

L’effetto di questa omissione impedisce al/alla richiedente lo svolgimento di attività lavorativa, l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale e al Registro anagrafico e dunque l’esercizio di tutti i diritti civili connessi alla condizione di regolarità di soggiorno, quale è quella di chiunque nelle more del procedimento di primo rilascio. Nel precedente numero della Rivista abbiamo pubblicato una pronuncia cautelare del Tribunale di Lecce, che è tornato sulla questione all’esito di un ricorso d’urgenza proposto da un cittadino straniero a cui la questura aveva consegnato la ricevuta di richiesta del permesso per protezione speciale priva di codice fiscale. Con   ordinanza cautelare 2.1.2024 RG. 3696/2023  il Tribunale salentino ha ribadito il diritto soggettivo del richiedente protezione speciale di avere l’attribuzione del codice fiscale, in applicazione dell’art. 11, co. 1 lett. a) e co. 2 d.p.r. 394/99 ma anche ai sensi dell’art. 7 d.lgs. 25/2008 e dell’art. 4, co. 1 d.lgs. 142/215, l’insieme dei quali attribuisce al richiedente protezione speciale il diritto al permesso di soggiorno provvisorio che deve contenere anche il codice fiscale. In tal modo il richiedente protezione speciale vanta la stessa condizione del richiedente il riconoscimento della protezione internazionale, poiché tutte collocabili nell’ambito del diritto d’asilo di cui all’art. 10, co. 3 della Costituzione (Cass., SU, n. 19393/2009 e, precisa il Tribunale, «La differenza di procedimento non può infatti pregiudicare il contenuto del diritto azionato, né gli obblighi che ne derivano in capo alla PA». 

Il Tribunale ordina, pertanto, alla questura il rilascio del permesso di soggiorno per richiesta asilo, ai sensi dell’art. 11, co. 1 lett. a) e co. 2 d.p.r. 394/99. 

La conversione del permesso per protezione speciale in permesso per lavoro 

Uno degli effetti prodotti dalla restrittiva riforma attuata all’istituto della protezione speciale dal d.l. n. 20/2023 e dalla sua legge di conversione (di abrogazione della parte dell’art. 19, co. 1.2. TU d.lgs. 286/98 che consentiva la presentazione della domanda direttamente al questore e dell’art. 6, co. 1-bis, co. 1 lett. a) TU d.lgs. 286/98, che prevedeva la conversione del permesso per protezione speciale in motivi di lavoro) ha determinato nel Ministero dell’interno un’interpretazione ulteriormente restrittiva, in violazione del diritto transitorio indicato nell’art. 7 d.l. n. 20/2023. 

Il Ministero ritiene, infatti, che l’intervenuta abrogazione dell’art. 6, co. 1-bis, co. 1 lett. a) TU d.lgs. 286/98 (in vigore dal 6 maggio 2023) impedisca la conversione di tutti i permessi di soggiorno per protezione speciale, anche se in corso di validità o richiesti prima dell’abrogazione, nonostante l’art. 7, co. 2 d.l. n. 20 stabilisca che «Per le istanze presentate fino alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero nei casi in cui lo straniero abbia già ricevuto l’invito alla presentazione dell’istanza da parte della Questura competente, continua ad applicarsi la disciplina previgente.» e il successivo comma 3 preveda che «I permessi di soggiorno già rilasciati ai sensi del citato articolo 19, comma 1.1, terzo periodo, in corso di validità, sono rinnovati per una sola volta e con durata annuale, a decorrere dalla data di scadenza. Resta ferma la facoltà di conversione del titolo di soggiorno in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, se ne ricorrono i requisiti di legge.». 

«Disciplina applicabile» che non può non riguardare anche il contenuto del diritto e dunque del connesso titolo di soggiorno, così come è fuor di dubbio che i permessi chiesti o in corso di validità all’entrata in vigore della legge n. 50/2023 debbano essere convertiti in permesso per lavoro in presenza dei requisiti di legge. Succede, tuttavia, che le questure non accettano, per irricevibilità, la formalizzazione della domanda. 

L’errata interpretazione ministeriale, affermata nella circolare 1.6.2023 del Ministero dell’interno, di recente ribadita nel dicembre 2023 (si veda nella parte della Rivista dell’Osservatorio italiano), ha inevitabilmente indotto un ulteriore contenzioso giudiziale, il cui esito censura unanimemente l’errata interpretazione ministeriale, sia davanti al giudice ordinario che al giudice amministrativo. 

Ci si chiede se lo Stato non debba rivedere le istruzioni impartite alle questure, non solo per garantire l’effettività dei diritti riconosciuti a chi esercita il diritto alla protezione speciale, ma anche per evitare un aumento dei costi per il sistema giustizia. Profili che afferiscono all’erario pubblico e che possono indurre responsabilità risarcitorie. 

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Come anticipato, la giurisprudenza, sia ordinaria che amministrativa, è concorde nel censurare l’interpretazione ministeriale, riconoscendo il diritto alla presentazione della domanda di conversione del titolo di soggiorno da protezione speciale a motivi di lavoro in tutti i casi nei quali il permesso è assoggetto alla disciplina previgente la riforma 2023. Tuttavia, l’esito dei giudizi proposti davanti alla magistratura ordinaria è stato diversificato, in quanto se è concorde nel riconoscere il diritto alla formalizzazione della domanda di conversione, per effetto del diritto intertemporale di cui all’art. 7 d.l. n. 20/2023, alcune decisioni hanno rigettato i ricorsi d’urgenza per ritenuto difetto di un pregiudizio grave e irreparabile. Di seguito i due orientamenti. 

Nel senso di un totale accoglimento, si segnala il   decreto 17.11.2023 RG. 13176/2023  del Tribunale di Cagliari che ha censurato il comportamento con cui la questura di Cagliari ha rifiutato la presentazione della domanda di conversione asserendo verbalmente la sua irricevibilità per effetto della riforma operata dal d.l. n. 20 e dalla legge n. 50/2023, non rispondendo neppure alla PEC inoltrata dal difensore. Il Tribunale, ritenuta la propria competenza, trattandosi di accertare la disciplina giuridica applicabile al permesso per protezione speciale e dunque un diritto soggettivo annoverabile tra i diritti umani fondamentali per i quali sussiste la giurisdizione ordinaria (Cass., SU, 11535/2009, SU, n. 13062/2022), accertato che il ricorrente ha conseguito il permesso di soggiorno per protezione speciale in epoca antecedente l’entrata in vigore del d.l. n. 20/2023, afferma il diritto alla presentazione della domanda di conversione in forza del diritto intertemporale delineato nell’art. 7, commi 2 e 3 di detto decreto-legge. La decisione in rassegna offre un ulteriore importante principio, ovverosia che «alcuna differenza viene operata dalla norma in relazione alla procedura di rilascio della protezione speciale, ovvero su istanza al Questore, o in conseguenza della proposizione della domanda di protezione internazionale alla Commissione territoriale ai sensi dell’art. 32 co. 3 d.lgs. 25/2008», prospettando, in caso contrario, un’illegittima discriminazione e una violazione dei principi costituzionali richiamati dalle Sezioni Unite della Cassazione n. 29459/2019. 

Passaggio motivazionale importante, che supera i dubbi da taluni paventati sulla convertibilità, già nella vigenza dell’art. 6, co. 1-bis lett. a) TU immigrazione prima della sua abrogazione, del solo permesso rilasciato nell’ambito della procedura asilo e non per quello conseguito con domanda diretta al questore. 

Anche l’ ordinanza di sospensiva 9.1.2024 RG. 53/2024  del Tribunale di Palermo ha concesso la misura cautelare ordinando, inaudita altera parte, alla questura di Agrigento di «procedere all’acquisizione della domanda di conversione del permesso di soggiorno per protezione speciale in permesso di soggiorno per lavoro subordinato» in quanto «sussiste il periculum in mora correlato al pregiudizio in via definitiva delle ragioni del ricorrente e tenuto conto, per altro verso, sotto il profilo del fumus boni iuris, della verosimiglianza della fondatezza della pretesa». 

Il Tribunale di Bologna si è distinto, invece, con differenti decisioni, in quanto, pur confermando sempre il diritto alla presentazione della domanda di conversione del permesso da protezione speciale a motivi di lavoro (per effetto del diritto intertemporale), dopo una prima ordinanza di accoglimento, ha successivamente rigettato i ricorsi d’urgenza proposti avverso i provvedimenti di irricevibilità, escludendo che la questione possa essere trattata in via d’urgenza poiché inesistente il pregiudizio grave e irreparabile (periculum in mora), in quanto i ricorrenti posseggono il permesso per protezione speciale ancora in corso di validità. 

Con una prima   ordinanza, infatti, del 3.10.2023 RG. 10378/2023 , il Tribunale felsineo ha accolto integralmente il ricorso cautelare proposto da titolare di permesso per protezione speciale al quale la questura di Ferrara aveva dichiarato irricevibile la richiesta di conversione in motivi di lavoro (presentata il 16 maggio 2023) sulla base della circolare ministeriale del giugno 2023 che, a suo dire, la escludeva; tesi ribadita anche dall’Avvocatura di Stato costituitasi in giudizio, secondo la quale non solo non vi sarebbe giurisdizione ordinaria bensì del giudice amministrativo, ma l’effetto della riforma sarebbe di escludere dalla convertibilità tutte le istanze presentate dopo il 6 maggio 2023.  

Il giudice bolognese, dopo avere precisato che la domanda giudiziale è «volta ad accertare il regime giuridico applicabile al permesso di soggiorno per protezione speciale» e dunque «non è volto, invece, a richiedere il rilascio, alla Questura, di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, caso nel quale, invece, ai sensi dell’art. 6, co. 10, del TUI, vi sarebbe la giurisdizione del giudice amministrativo», rigetta innanzitutto l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal Ministero, vertendosi in materia di diritto soggettivo e richiamando al riguardo una recente pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione, del 7.2.203 (nel decreto non è indicato il numero ma si ritiene sia la n. 9791/2023), secondo cui «l’appartenenza alla giurisdizione del giudice ordinario dei giudizi aventi ad oggetto il diniego del permesso di soggiorno per motivi umanitari deciso dal questore, ancorché a seguito di istanza direttamente rivoltagli dal richiedente e senza che la Commissione territoriale abbia espresso il parere, la cui mancanza non influisce sul riparto di giurisdizione in quanto il diritto alla protezione umanitaria ha, al pari del diritto allo “status” di rifugiato e al diritto costituzionale di asilo, consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali, come tali dotati di un grado di tutela assoluta e non degradabili ad interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere rimesso solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica». Nel merito della domanda d’urgenza il Tribunale colloca la richiesta di conversione nell’ambito dell’art. 7, co. 3 d.l. n. 20/2023 e pertanto «tale titolo di soggiorno è attualmente, nonostante le modifiche introdotte dal decreto Cutro, convertibile, ricorrendone i presupposti, in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.». Secondo il Tribunale, del resto, erroneamente l’Amministrazione dello Stato richiama la circolare dell’1.6.2023, poiché «nella parte relativa ai permessi per protezione speciale di cui all’art. 19, co. 1.2., del TUI, si legge che tali permessi già rilasciati ed in corso di validità, potranno essere rinnovati per una sola volta e per il periodo di un anno alla scadenza e potranno essere convertiti, sussistendone i presupposti, in permessi di soggiorno per motivi di lavoro.». 

Quanto al periculum, nella pronuncia in rassegna il giudice lo rinviene nel grave pregiudizio derivante dal diritto negato, che frusta la legittima aspirazione del ricorrente a contratti di lavoro stabili, eventualmente a tempo indeterminato, se in possesso di un permesso di soggiorno stabile. 

Poche settimane dopo, tuttavia, il medesimo Tribunale di Bologna muta sostanzialmente opinione, non tanto sul diritto in sé – che precisa, anzi, in termini ancora più dettagliati e con ancora più puntuali contestazioni alle deduzioni difensive dell’Avvocatura di Stato –, quanto sul periculum (requisito necessario nei ricorsi ex art. 700 c.p.c.), di cui nega la sussistenza. Infatti, con   ordinanza 17.11.2023 RG. 13176/2023  il Tribunale di Bologna conferma il diritto del titolare di permesso di soggiorno a presentare domanda di conversione, perché previsto direttamente dall’art. 7, co. 3 d.l. n. 20/2023, ma nega il pregiudizio grave e irreparabile con una motivazione che appare contraddittoria con la puntale motivazione sul fumus. Il giudice, preso atto che il ricorrente aveva prospettato rischi di compromissione di svariati diritti (ad esempio stipula di contratti a tempo indeterminato, difficoltà nel reperimento di un’abitazione, negazione delle misure di welfare, nonché del diritto ad acquisire lo status di lungo soggiornante e al ricongiungimento familiare), li qualifica del tutto generici perché «non emerge alcuna evidenza della possibilità di venire privato, oggi, dell’attività lavorativa attualmente svolta e delle proprie attuali fonti di reddito, né emergendo dalla narrazione del ricorrente alcun concreto pericolo di un danno imminente e irreparabile, ma solo la frustrazione di generiche aspettative. È vero che, come detto, la negazione della convertibilità riverbera anche sulle condizioni di vita e sulle chances di perfezionamento di contratti di lavoro durevoli, ma non è chi non veda come la parte sia comunque gravata, in sede di ricorso cautelare, dello specifico onere di dedurre e provare specifiche ragioni di urgenza, sotto il profilo, in particolare, della effettiva irreparabilità del danno».  

Ci si chiede come possano essere definite generiche le “aspettative” di un lavoro stabile o di ottenere il ricongiungimento familiare o di diventare soggiornante di lungo periodo, quando rappresentano diritti veri e propri, l’esercizio dei quali è oggettivamente e concretamente condizionato dalla tipologia di permesso di soggiorno, tra cui non c’è quello per protezione speciale. Parte motiva che, del resto, si discosta palesemente dalla pronuncia pochi giorni prima decisa, in cui proprio la difficoltà a stipulare contratti di lavoro stabili è stata motivo di accoglimento del ricorso e non può tacersi che questo “cambio di rotta”, che assume criteri formalistici del periculum in mora, applicabili rigorosamente in ben altre materie, sembra sottendere, più che una questione giuridica, la preoccupazione del Tribunale di essere travolto da un ulteriore consistente flusso di contenzioso, in un sistema giustizia oggettivamente in grave sofferenza e dove la responsabilità è totalmente del Ministero che persevera in un’interpretazione contra legem

In analoga preoccupazione sembra collocarsi anche   l’ordinanza del Tribunale di Firenze, 5.2.2024 RG. 13209/2023 , che rigetta un ricorso d’urgenza proposto avverso provvedimento di irricevibilità della domanda di conversione con motivazioni in parte diverse da quelle del Tribunale di Bologna 17.11.2023, che pur cita espressamente. Il Tribunale ribadisce che oggetto della controversia è il diritto soggettivo del ricorrente alla conversione, (di competenza del GO) dunque rientrante nella giurisdizione ordinaria, e tuttavia, la declina affermando che «la soluzione dal punto di vista sistematico più adeguata alla tutela effettiva del diritto controverso implica invece il riconoscimento della giurisdizione del giudice amministrativo». Decisione contraddittoria perché da un lato riconosce sia il fumus del diritto (alla presentazione della domanda di conversione) che il periculum in moraAnche il pericolo di pregiudizio sussiste perché se è vero che egli ha la titolarità del permesso per protezione speciale fino al giugno 2024, in difetto di sua pronta conversione (di cui peraltro ha i requisiti sostanziali) vede compromessi svariati diritti sociali che allo stato sembra verosimile che possa veder tutelati dal permesso alla luce della protratta esperienza lavorativa in corso.»), ma ritiene che il diritto vada accertato dalla giustizia amministrativa in ossequio al «principio di concentrazione delle sedi di tutela» che trova fondamento negli artt. 24 e 113 della Costituzione. In altri termini, pare intendere il Tribunale che, poiché il giudice amministrativo può accertare anche i presupposti sostanziali della conversione e non il solo diritto alla presentazione della domanda, la persona straniera a cui sia negata quest’ultima deve rivolgersi al Tar per il principio di concentrazione delle sedi di tutela. Non può non rilevarsi, al riguardo, che il giudice fiorentino legittima, innanzitutto, un saltum procedimentale, sottraendo al questore la funzione amministrativa conferitagli dal legislatore di accertare i requisiti sostanziali della conversione (che vorrebbe affidare al Tar), ma, nel contempo, pare ignorare che il giudice amministrativo non ha giurisdizione di accertamento di un diritto ma di mero annullamento dell’atto amministrativo e pertanto dopo l’eventuale accoglimento del ricorso da parte del Tar la persona deve comunque rivolgersi alla questura perché valuti i presupposti sostanziali della conversione, ovverosia il medesimo risultato che avrebbe raggiunto se riconosciuto davanti alla giurisdizione ordinaria il diritto alla domanda di conversione. Diritto alla presentazione della domanda che è un diritto in sé, autonomo rispetto alla fase, del tutto eventuale, di accertamento in sede amministrativa dei requisiti sostanziali di conversione. La concentrazione delle tutele, peraltro, presuppone che davanti a due differenti giurisdizioni (o davanti al medesimo giudice) siano proposte domande giudiziali diverse, pur se connesse, di cui una principale e l’altra condizionata all’esito della prima. Ma nella questione qui in commento non vi è né connessione né pregiudizialità, perché la questura, nel momento in cui nega la ricevibilità della domanda, non è ancora entrata nel merito della conversione e dunque non c’è ancora una domanda giudiziale che ad essa afferisca. 

 

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Come anticipato, sulla questione della convertibilità si è pronunciata anche la giurisdizione amministrativa, ed ha unanimemente affermato la piena convertibilità del permesso da protezione speciale a lavoro in applicazione del diritto intertemporale di cui all’art. 7, co. 3 d.l. n. 20/2023, giacché «la norma transitoria in parola, nel suo complesso, consente che i detti permessi di soggiorno in corso di validità al momento della entrata in vigore siano in tutto sottoposti al regime normativo previgente e, dunque, anche alle possibilità di conversione, ai sensi dell’art. 6, comma 1-bis, nella sua formulazione antecedente alla riforma del 2023 (Tar Campania Napoli ord. 7 dicembre 2013 n. 3288). Detti principi sono applicabili anche al permesso per protezione rilasciato ex art. 32 comma 3 del d.lgs. n. 25 del 2008» (Tar Marche sent. n. 913/2023). 

Negli stessi termini: Tar Toscana, ordinanze n. 552/203 e n. 24/2024, sent. n. 1128/2023; Tar Sicilia sent. n. 3288/2023, Tar Campania, NA, ord. n. 2178/2023; Tar Lombardia, BS sent. n. 846/2023 e Tar Lombardia, MI, ordinanze n. 45/2024 e 249/2024; Tar Piemonte ord. 10/2024; Tar Palermo sent. nn. 440 e 442/2024. 

Di particolare interesse l’ordinanza n. 10/2024 del Tar Piemonte laddove, nel concedere la sospensiva, afferma che «impregiudicati i dubbi di legittimità costituzionale cui a regime si espone una normativa che sostanzialmente può comportare lo sradicamento lavorativo di soggetti che lo abbiano legittimamente acquisito, che ad un sommario esame compatibile con la fase cautelare la posizione di parte ricorrente paia riconducibile alla disciplina transitoria», lasciando prefigurare questioni di illegittimità costituzionale per i permessi per protezione speciali ai quali si applicherà la nuova disciplina della riforma 2023, che ha abrogato l’art. 6, co. 1-bis lett. a) TU d.lgs. 286/98. 

 

L’ACCOGLIENZA 

Revoca, richiesta rimborso spese e principio di proporzionalità 

Con   sentenza n.443/2023  il Tribunale di Lecco ha annullato l’ingiunzione di pagamento emessa dalla prefettura di Lecco a carico di richiedente asilo, già ospite in una struttura pubblica, al quale era stata disposta la revoca delle misure di accoglienza per avere conseguito negli anni 2020 e 2021 un reddito da lavoro superiore all’importo dell’assegno sociale, previsto come limite per l’accoglienza dall’art. 14, co. 2, d.lgs. 142/2015. Annullamento motivato sotto vari profili. Innanzitutto viene censurata l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, prevista dall’art. 7 legge n. 241/90, senza che siano state indicate le ragioni di celerità che avrebbero astrattamente consentito l’omissione, fermo restando, precisa il Tribunale, che la celerità viene usualmente individuata in ipotesi di comportamenti violenti che rendono indifferibile la reazione della PA e tenuto conto, altresì, che nemmeno una condotta penale di modesto disvalore potrebbe giustificare l’omessa comunicazione. In secondo luogo, il giudice lombardo evidenzia, ai fini della censura, la prova acquisita in giudizio della conoscenza, da parte della prefettura, dei rapporti di lavoro intrapresi dal ricorrente e dunque senza che ci sia stato alcun comportamento scorretto del richiedente (secondo il quale solo in quel caso potrebbe disporsi la revoca delle misure e la richiesta di restituzione). Tuttavia, il Tribunale attribuisce maggiore rilievo alla mancata dimostrazione, da parte della prefettura, che il superamento del limite reddituale sia avvenuto per entrambe le annualità di cui ha chiesto la restituzione delle somme, in quanto non è stata prodotta prova che anche nel 2021 il ricorrente abbia superato detto limite e tenuto conto che sia la revoca che le sanzioni «sono strettamente connesse al dato temporale (Tar Toscana 15.04.2020 n. 437)». Dunque, l’importo chiesto in restituzione è ritenuto ingiustificato. 

In terzo luogo, secondo il Tribunale l’importo oggetto di ingiunzione viola il principio di proporzionalità e solidarietà sia perché non accertato esattamente il superamento reddituale di cui s’è detto, sia perché confliggente con la tutela della dignità umana, a tutela della quale le misure di accoglienza sono previste (art. 17, par. 4 direttiva 2013/33/UE), nella misura in cui viene chiesta la restituzione di un determinato importo senza averlo bilanciato con le condizioni di vita soggettive della persona (Tar Bologna 9.11.2022 n. 891). Senza dimenticare, precisa il Tribunale, che il rimborso dei costi sostenuti dallo Stato si riferiscono a un rapporto negoziale, tra l’Amministrazione e l’ente di gestione della struttura, a cui il richiedente è del tutto estraneo (Tar Bologna n. 223/2022, Tar Friuli Venezia-Giulia n. 396/2020). 

 

Il REGOLAMENTO n. 604/2013 (Dublino) 

La clausola discrezionale - le ragioni di salute 

Il Tribunale di Roma, con decreto 23.10.2023 RG. 72519/2021 , ha accolto il ricorso con cui un richiedente asilo afghano ha impugnato il provvedimento dell’Unità Dublino, che aveva disposto il suo rinvio in Francia (dove gli era stato diniegato il riconoscimento della protezione internazionale) per la ripresa in carico. L’impugnazione aveva evidenziato vari profili di illegittimità, tra i quali la violazione degli obblighi informativi ex artt. 4 e 5 Regol. n. 604/2013 e la mancata applicazione della clausola discrezionale di cui all’art. 17 del medesimo Regolamento. Il Tribunale da atto dei rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea in relazione agli obblighi informativi ed anche sull’interpretazione della clausola discrezionale (in ragione dei quali moltissimi giudizi in tutta Italia sono stati nelle more sospesi), tuttavia accoglie il ricorso dopo avere accertato che, nel caso di specie, il ricorrente aveva visto aggravarsi, nelle more del lungo giudizio, le sue condizioni di salute, ciò che ha consentito di riconoscere in via giudiziale l’applicazione dell’art. 17 Regol. n. 604/2013 dichiarando la competenza dell’Italia all’esame della nuova domanda di riconoscimento della protezione internazionale. 

 

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Con sentenza 30.11.2023 la Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sulle cause riunite C-228/21, C-254/21, C-297/21, C-315/21 e C-328/21 con le quali la Corte di cassazione e vari Tribunali italiani avevano sottoposto al Giudice unionale le questioni pregiudiziali sull’interpretazione di alcune disposizioni del Regolamento n. 604/2013 (cd. Dublino) e del Regol. 603/2013 (Eurodac), relativamente alla rilevanza giuridica degli opuscoli informativi che devono essere forniti al richiedente asilo in fase di procedimento di rinvio cd. Dublino (cioè verso uno Stato dell’Unione europea in cui abbia già proposto domanda di riconoscimento della protezione internazionale), ex artt. 4 e 5 Regol. e sull’interpretazione e applicazione della clausola discrezionale di cui all’art. 17 del medesimo Regolamento. 

Nel rinviare alla Rassegna, in questo numero della Rivista, delle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea per una descrizione più approfondita della sentenza, si riportano di seguito le conclusioni della Corte: 

  1. L’articolo 4 del regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide, e l’articolo 29 del regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che istituisce l’«Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione del regolamento n. 604/2013 e per le richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto, e che modifica il regolamento (UE) n. 1077/2011 che istituisce un’Agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT su larga scala nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, devono essere interpretati nel senso che:
    l’obbligo di fornire le informazioni in essi contemplate, in particolare l’opuscolo comune il cui modello è contenuto nell’allegato X al regolamento (CE) n. 1560/2003della Commissione, del 2 settembre 2003, recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo, si impone tanto nell’ambito di una prima domanda di protezione internazionale e di una procedura di presa in carico, previste rispettivamente dall’articolo 20, paragrafo 1, e dall’articolo21, paragrafo 1, del regolamento n. 604/2013, quanto nell’ambito di una domanda di protezione internazionale successiva e di una situazione, come quella di cui all’articolo17, paragrafo 1, del regolamento n. 603/2013, che possono dar luogo a procedure di ripresa in carico previste dall’articolo 23, paragrafo 1, e dall’articolo 24, paragrafo 1,del regolamento n. 604/2013. 
  • L’articolo 5 del regolamento n. 604/2013 deve essere interpretato nel senso che:
    l’obbligo di svolgere il colloquio personale in esso contemplato si impone tanto nell’ambito di una prima domanda di protezione internazionale e di una procedura di presa in carico, previste rispettivamente dall’articolo 20, paragrafo 1, e dall’articolo21, paragrafo 1, del medesimo regolamento, quanto nell’ambito di una domanda di protezione internazionale successiva e di una situazione, come quella di cui all’articolo17, paragrafo 1, del regolamento n. 603/2013, che possono dar luogo a procedure di ripresa in carico previste dall’articolo 23, paragrafo 1, e dall’articolo 24, paragrafo 1,del regolamento n. 604/2013. 
  • Il diritto dell’Unione, in particolare gli articoli 5 e 27 del regolamento n. 604/2013, deve essere interpretato nel senso che:
    fatto salvo l’articolo 5, paragrafo 2, di tale regolamento, la decisione di trasferimento deve essere annullata a seguito di ricorso presentato avverso quest’ultima ai sensi dell’articolo 27 di detto regolamento e che contesta la mancanza del colloquio personale previsto da detto articolo 5, a meno che la normativa nazionale consenta all’interessato, nell’ambito di detto ricorso, di esporre di persona tutti i suoi argomenti avverso tale decisione nel corso di un’audizione che rispetti le condizioni e le garanzie enunciate in quest’ultimo articolo, e che tali argomenti non siano atti a modificare detta decisione. 
  • Il diritto dell’Unione, in particolare gli articoli 4 e 27 del regolamento n. 604/2013nonché l’articolo 29, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 603/2013, deve essere interpretato nel senso che:
    quando il colloquio personale previsto dall’articolo 5 del regolamento n. 604/2013 è avvenuto, ma l’opuscolo comune che deve essere consegnato all’interessato in esecuzione dell’obbligo di informazione previsto dall’articolo 4 di tale regolamento o dall’articolo 29, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 603/2013 non è stato consegnato, il giudice nazionale incaricato di valutare la legittimità della decisione di trasferimento può pronunciare l’annullamento di tale decisione solo se ritiene, tenuto conto delle circostanze di fatto e di diritto specifiche del caso di specie, che, nonostante lo svolgimento del colloquio personale, la mancata consegna dell’opuscolo comune abbia effettivamente privato tale persona della possibilità di far valere i propri argomenti in misura tale che il procedimento amministrativo nei suoi confronti avrebbe potuto condurre a un risultato diverso. 
  1. L’articolo 3, paragrafo 1, e paragrafo 2, secondo comma, del regolamento n. 604/2013, in combinato disposto con l’articolo 27 di tale regolamento nonché con gli articoli 4, 19 e 47della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che:
    il giudice dello Stato membro richiedente, adito di un ricorso avverso una decisione di trasferimento, non può esaminare se sussista un rischio, nello Stato membro richiesto, di una violazione del principio di non-refoulement al quale il richiedente protezione internazionale sarebbe esposto a seguito del suo trasferimento verso tale Stato membro, o inconseguenza di questo, quando tale giudice non constati l’esistenza, nello Stato membro richiesto, di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. Divergenze di opinioni tra le autorità e i giudici dello Stato membro richiedente, da un lato, e le autorità e i giudici dello Stato membro richiesto, dall’altro, in relazione all’interpretazione dei presupposti sostanziali della protezione internazionale non dimostrano l’esistenza di carenze sistemiche. 
  1. L’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento n. 604/2013, in combinato disposto con l’articolo27 di tale regolamento nonché con gli articoli 4, 19 e 47 della Carta dei diritti fondamentali, deve essere interpretato nel senso che:
    esso non impone al giudice dello Stato membro richiedente di dichiarare tale Stato membro competente qualora non condivida la valutazione dello Stato membro richiesto quanto al rischio di refoulement dell’interessato. In assenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale nello Stato membro richiesto in occasione del trasferimento o in conseguenza di esso, il giudice dello Stato membro richiedente non può neppure obbligare quest’ultimo Stato membro a esaminare esso stesso una domanda di protezione internazionale sul fondamento dell’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento n. 604/2013 per il motivo che esiste, secondo tale giudice, un rischio di violazione del principio di non-refoulement nello Stato membro richiesto. 

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