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Fascicolo 1, Marzo 2024


«Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte "originali",

significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte,

"socializzarle" per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali».

Antonio Gramsci

 

Ammissione e soggiorno

Sommario: REGOLARIZZAZIONE 2020 - Corte cost. n. 209/2023 (art. 103 d.l. n. 34/2020 - reddito minimo del datore di lavoro - mancata previsione del diritto al permesso di soggiorno per attesa occupazione: legittimità costituzionale); reddito del datore di lavoro (conteggio dei redditi dei “soggetti conviventi”, pur se legati da grado di parentela ulteriore rispetto al secondo); class action (azione pubblica di classe - ritardo nella definizione delle procedure di regolarizzazione - superamento del termine massimo di 180 gg. - legittimazione ad agire sia dei singoli che delle associazioni - ordine alla PA di concludere i procedimenti entro 90 gg.); parere negativo dell’Ispettorato del lavoro (parere non reso disponibile - motivazione per relationem e diritto di accesso - violazione procedurale; coesistenza del lavoro della procedura di regolarizzazione con altro lavoro irregolare); idoneità alloggiativa (requisito necessario ma secondario - tempi di acquisizione non nella disponibilità del/della lavoratore/lavoratrice)

PERMESSO DI SOGGIORNO - elementi sopravvenuti (obbligo della loro valutazione da parte della autorità decidente) - permesso di soggiorno per motivo di studio, formazione o tirocinio (conversione del titolo e verifica della previa esistenza di “quote” - non necessità - modifiche all’art. 6, TU d.lgs. 286/1998); rinnovo del titolo (carenza dei requisiti - necessità di verificare la sussistenza per il rilascio di altro permesso di soggiorno); rigetto per fatti attinenti alla volontà di terzi (illegittimità - verifica dei presupposti): permesso per residenza elettiva (titolarità del relativo visto in corso di validità - non necessità); risorse economiche (necessità - individuazione delle risorse economiche autonome, stabili e regolari); permesso di soggiorno per motivo di lavoro (nulla osta al lavoro e ingresso con visto - impossibilità di concludere il procedimento per indisponibilità del datore di lavoro - rilascio del permesso di soggiorno per attesa occupazione - necessità); motivi ostativi al rinnovo/conversione (condanne per i reati ex art. 380 c.p.p. - valutazione discrezionale della PA - lungo soggiornante di fatto e legami familiari - rilevanza - condanna ai sensi dell’art. 73 d.p.r. 309/90 - non automaticamente ostativa - condanna per il reato di cui agli artt. 474 e 648 c.p. - no automatismo ostativo)

DIRITTI CIVILI e SOGGIORNO - iscrizione anagrafica per richiedenti asilo (diritto escluso dal d.l. n. 113/2018 - successiva dichiarazione di illegittimità costituzionale - Corte cost. n. 189/2020 - effetti della pronuncia di incostituzionalità sui rapporti non esauriti): iscrizione anagrafica (cancellazione per irreperibilità - accertamento di residenza ininterrotta - obbligo di accertamenti concreti e sopralluoghi intervallati)

 

LA REGOLARIZZAZIONE 2020

Reddito del datore di lavoro - mancata previsione di permesso per attesa occupazione - legittimità costituzionale

Dopo avere dichiarato, con sentenza n. 149/2023 (in questa Rivista n. 3.2023), l’illegittimità costituzionale dell’art. 103, co. 1, d.l. n. 34/2020 nella parte in cui non prevede che la domanda di emersione/regolarizzazione possa essere chiesta anche da un datore di lavoro straniero regolarmente soggiornante in Italia, pur se privo del titolo di soggiorno di lungo periodo (art. 9, TU d.lgs. 286/98), la   Corte costituzionale, con sentenza n. 209/2023 , è tornata a occuparsi dell’art. 103, ma sotto altri profili. Il giudice rimettente Tar Umbria aveva dubitato, infatti, della legittimità costituzionale del comma 4 di detta disposizione (che esclude la conclusione positiva della regolarizzazione per inidoneità del requisito reddituale del datore di lavoro, non consentendo il rilascio di un permesso per attesa occupazione) e dei commi 5 e 6 (i quali, rinviando a un decreto ministeriale la determinazione della capacità reddituale del datore di lavoro, non avrebbero fissato alcun criterio per la sua determinazione, violando la riserva di legge di cui all’art. 10, co. 2 della Costituzione).

Rispetto a questi profili di non manifesta infondatezza, la conclusione della Corte è stata in parte di inammissibilità e in parte di infondatezza delle questioni relative ai commi 5 e 6 e di infondatezza con riguardo al comma 4. Sotto il profilo dell’ipotizzata violazione della riserva di legge, la Corte ne afferma l’inammissibilità perché la procedura di regolarizzazione non è riservata alle persone straniere ma indistintamente a tutti/tutte i/le lavoratori/lavoratrici: «non si verte in materia coperta dalla riserva di legge di cui all’art. 10, secondo comma, Cost., perché il procedimento per l’emersione dei rapporti di lavoro irregolari, previsto dal comma 1 del censurato art. 103, non regola la condizione giuridica dello straniero, ma pone una disciplina applicabile a prescindere dalla cittadinanza.».

La Corte esclude anche che vi sia violazione degli artt. 97 e 113 Cost. perché, in applicazione del principio di legalità sostanziale (e non solo formale), nel caso dell’art. 103 d.l. n. 34/2020 il legislatore non ha conferito un “potere in bianco” all’Amministrazione dello Stato per determinare il quantum minimo della capacità reddituale del datore di lavoro, ma ha solo attributo a un organo tecnico (il Ministero) il «compito di dettare, in termini uniformi e generali per tutte le procedure di emersione, un requisito di carattere meramente tecnico, sulla base di ben specifici obiettivi da perseguire e di parametri a cui conformarsi.». Obiettivi che il complessivo art. 103 individua, secondo la decisione in rassegna, nell’esigenza «che venga data prova della “capacità economica del datore di lavoro” e della “congruità delle condizioni di lavoro applicate”, a tutela sia dell’interesse pubblico ad evitare istanze di emersione elusive o fittizie, sia dell’interesse del singolo lavoratore assunto al rispetto del corretto trattamento retributivo e contributivo (comma 15).», ciò che costituisce una corretta base legale per la determinazione tecnica da parte del Ministero del limite di capacità reddituale del datore di lavoro. Per le stesse ragioni la Corte ha escluso la violazione anche del principio di ragionevolezza in riferimento all’art. 35 Cost. poiché l’art. 103 tutela anche il lavoratore.

Un’ulteriore questione evidenziata dal Tar Umbria riguardava il sospetto di violazione dell’art. 3 Cost. in quanto l’impossibilità di rilasciare al/alla lavoratore/lavoratrice un permesso di soggiorno per attesa occupazione, nel caso di esito negativo della regolarizzazione, che, secondo il remittente, sarebbe irragionevolmente diversa da quanto previsto nella legge di regolarizzazione del 2012. Sul punto la Corte costituzionale ritiene infondata la questione perché ogni legge di regolarizzazione ha la sua specificità e il legislatore gode, in proposito, di ampia discrezionalità e, dunque, con riguardo all’art. 103 d.l. n. 34/2020 «Aver limitato il rilascio di un permesso di soggiorno per attesa occupazione alle sole ipotesi in cui, per fatti sopravvenuti rispetto all’avvio della procedura di regolarizzazione, sia cessato il rapporto di lavoro e averlo, di conseguenza, escluso nei casi di difetto dei requisiti normativamente prescritti per conseguire la regolarizzazione stessa, e in particolare di quelli reddituali, non valica il limite della manifesta irragionevolezza. Il rilascio di un titolo di soggiorno temporaneo in caso di cessazione del rapporto di lavoro dopo l’emersione, infatti, consente, parallelamente a quanto accade nella procedura ordinaria, la concessione al lavoratore straniero, ormai regolarmente presente sul territorio nazionale, di un certo periodo di tempo per la ricerca di una nuova attività lavorativa (art. 22, comma 11, TU immigrazione). Tale rilascio presuppone, perciò, che si sia accertata la sussistenza, dei requisiti di emersione, ab origine, in assenza dei quali permane, per lo straniero, la condizione di irregolare.». 

Passaggio motivazionale che suscita perplessità per la sottesa irrilevanza della Corte sia agli “elementi sopravvenuti” di cui all’art. 5, co. 5 TU d.lgs. 286/98 (clausola generale di salvaguardia rispetto al venire meno dei requisiti originari del titolo di soggiorno), ma anche per la mancata valutazione dell’art. 8 CEDU, che invece è stata rilevante nella pronuncia n. 88/2023 con cui è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’automatismo ostativo di cui all’art. 4, co. 3 e art. 5, co. 5 TU immigrazione. Invero, anche nel caso della regolarizzazione l’esito (negativo) della procedura arriva dopo lunghissimo tempo durante il quale la persona straniera è stata regolarmente soggiornante e pertanto l’esito della richiesta di regolarizzazione ben poteva essere ritenuto analogo alla procedura di rinnovo di un ordinario permesso di soggiorno, dando rilievo al diritto al rispetto della vita privata del/della lavoratore/lavoratrice che, soggiornando in Italia da tempo e avendo anche intrapreso nella maggior parte dei casi un lavoro, ha dimostrato di avere un solido radicamento sociale. Pare davvero un’occasione persa per la concreta tutela delle persone straniere, un ennesimo ostacolo al loro progetto migratorio e una lettura formalistica delle norme.

Reddito del datore di lavoro e conteggio dei redditi dei “soggetti conviventi” legati da grado di parentela ulteriore rispetto al secondo

Il Tar Lazio, Roma, con sentenza n. 15482/2023 affronta la questione del requisito reddituale del datore di lavoro per la dichiarazione di emersione di un lavoratore addetto al lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare o all’assistenza alla persona per se stessi o per componenti della propria famiglia. Rilevato che in base all’art. 9, co. 2, del d.m. 27.5.2020 il nucleo familiare è “inteso come famiglia anagrafica”, il Tribunale ritiene consentita un’interpretazione estensiva del concetto di nucleo familiare, tale di ricomprendere anche parenti di grado ulteriore al secondo, purché conviventi con il datore di lavoro che ha avanzato istanza di regolarizzazione.

Il Collegio osserva, innanzitutto, «come sia la stessa disposizione a distinguere l’ipotesi in cui vi sia convivenza da quella in cui questa non vi sia….» e, nel primo caso, occorre dare rilevanza decisiva alla stessa «prescindendosi dal grado e dal tipo di legame affettivo», specie allorquando si consideri il generico riferimento normativo ai “soggetti conviventi” e non ai “parenti”. Il giudice amministrativo specifica che solo nell’ipotesi in cui non vi sia effettiva convivenza la norma secondaria attribuisce rilievo al legame parentale (potendo essere in tale ipotesi sommati solo i redditi del coniuge e dei parenti entro il secondo grado del datore di lavoro), mentre nel caso di datore di lavoro convivente con altri parenti il requisito reddituale necessario ai fini dell’accoglimento della domanda di emersione da lavoro irregolare deve ritenersi correttamente integrato anche attraverso il calcolo del reddito di tali ulteriori persone, pur nell’ipotesi di grado di parentela ulteriore rispetto al secondo (nel caso di specie, uno zio) le quali possono concorrere a tale fine.

Class action per il ritardo nella definizione delle procedure di regolarizzazione - superamento del termine massimo di 180 gg. - legittimazione ad agire sia dei singoli che delle associazioni – ritardo grave e sistematico - ordine alla PA di concludere i procedimenti entro 90 gg.

La decisione di seguito descritta assume un significato importantissimo, perché censura giudizialmente il ritardo della PA nei riguardi dei procedimenti “in materia di stranieri”, di cui la regolarizzazione è uno dei tanti. Non va dimenticato, infatti, che altrettanti gravi e sistematici ritardi sono oggettivamente riscontrabili nei tempi di definizione dei procedimenti di rilascio o rinnovo dei permessi di soggiorno e finanche dei procedimenti afferenti alla protezione internazionale. Una strada, dunque, quella della class action percorribile per garantire anche alle persone straniere un’efficace ed efficiente attività amministrativa.

Con sentenza n. 2949/2023 il Tar per la Lombardia, Milano, ha accolto un’azione cd. di class action (azione collettiva pubblica) proposta nei confronti della prefettura di Milano e del Ministero dell’interno, ai sensi del d.lgs. 198/2009 (in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici) per chiedere l’accertamento «della lesione diretta, concreta e attuale dei diritti e degli interessi dei ricorrenti per mancata conclusione dei procedimenti amministrativi di emersione come disciplinata dall’art. 103, del d.l. n. 34/2020, convertito con modificazioni dalla l. n. 77/2020». In sintesi, alcuni ricorrenti e altri intervenuti nel complesso procedimento giudiziale – lavoratori/lavoratrici e datori di lavoro i quali hanno presentato domanda di regolarizzazione di cui all’art. 103 d.l. n. 34/2020 non avendo mai avuto la definizione del procedimento – e un gruppo di associazioni operanti nel campo della tutela delle persone straniere, hanno attivato il procedimento delineato dal d.lgs. 198/2009, inoltrando dapprima una diffida (ex art. 3) alla prefettura di Milano lamentando il grave e sistematico ritardo nella definizione delle domande di regolarizzazione dopo 2 anni dalla loro presentazione, acquisendo preventivamente i dati delle domande concluse, e proponendo poi l’azione collettiva per l’efficienza della pubblica amministrazione (cd. class action) dato il mancato riscontro alla diffida. 

In sede di giudizio, anche all’esito di puntuale attività istruttoria espletata dal Tar, è emerso che la prefettura di Milano, a maggio 2022 (inizio del complesso procedimento di class action), aveva definito solo 6.381 domande su un totale di 25.900 (cfr. p. 5 sentenza) e dopo l’istruttoria giudiziale, al 21 luglio 2023 ne risultavano perfezionate 15.528 e inevase 10.697 (cfr. p. 22 sentenza).

Prima di entrare nel merito della questione, il Tar affronta e rigetta tutte le 7 eccezioni di inammissibilità e improcedibilità sollevate dall’Avvocatura di Stato, costituitasi in giudizio, di seguito sintetizzate.

a) eccezione di incompetenza territoriale (il ricorso doveva essere proposto davanti al Tar Lazio perché la situazione lamentata si riferisce all’intero territorio nazionale): la sentenza conferma la competenza del Tar Milano ai sensi dell’art. 13, co. 1 codice processo amministrativo (d.lgs. 104/2010) perché il grave ritardo della PA, lamentato nel ricorso, è riferito alla prefettura di Milano e dunque all’ambito territoriale di pertinenza del Tar, irrilevante che la dotazione delle risorse, finanziarie e di personale, sia di competenza ministeriale;

b) eccezione di inammissibilità per disomogeneità degli interessi e delle posizioni azionate in giudizio (i ricorrenti/persone fisiche avrebbero interesse solo alla definizione della propria domanda di regolarizzazione, mentre le associazioni sarebbe portatrici di un interesse diffuso alla definizione di tutte le domande): afferma il Tar che «L’esercizio dell’azione pubblica di classe prescinde, in ragione della natura che le è propria, dalle limitazioni che caratterizzano la proposizione dell’impugnazione in forma collettiva e dalla necessità di una rigorosa omogeneità tra le posizioni azionate in giudizio.», poiché la legittimazione ad agire per la class action (diversa dall’azione collettiva) è riconosciuta a una pluralità di soggetti i quali hanno un interesse solo apparentemente individuale ma, citando Tar Lazio n. 2257/2014, «si confonde e si estende nell’interesse di altri soggetti in quanto a loro comune, dal momento che tutti si trovano, nei confronti dell’amministrazione di riferimento, nelle medesime condizioni di doglianza pretensiva», laddove lo scopo comune è di porre fine al comportamento violativo di regole procedimentali da parte della PA. Inoltre, l’azione collettiva pubblica può essere esercitata sia da singoli che da associazioni a tutela di interessi collettivi (art. 1, co. 4 d.lgs. 198/2009), come affermato anche dal Tar Lazio sopra citato;

c) eccezione di inammissibilità per carenza di legittimazione attiva delle associazioni perché nessuno dei ricorrenti è ad esse associato: il Tar Milano ritiene che la legittimazione attiva delle associazioni non richieda affatto che agiscano nell’interesse di propri associati, puntualmente individuati, in quanto essa  «deve essere apprezzata in ragione delle finalità “superindividuali” perseguite dai soggetti collettivi, così come traspaiono dai relativi statuti, e va verificata in concreto al fine di accertare se l’ente ricorrente sia statutariamente deputato alla tutela dello specifico interesse ‘omogeneo per una pluralità di utenti e consumatori’ che si assume leso. In sostanza, le associazioni sono legittimate a proporre il ricorso per l’efficienza solo quando “dimostrano di rappresentare adeguatamente tale interesse, così che quest’ultimo, da diffuso che era, si soggettivizza in capo all’associazione, trasformandosi in interesse collettivo” (cfr. Cons. St., sez. V, 22.05.2023, n. 5031)», ciò che nel caso del ricorso esaminato il Tar ha rinvenuto dalla lettura degli Statuti delle associazioni ricorrenti;

d) eccezione di inammissibilità perché il ricorso doveva essere proposto come giudizio avverso l’inerzia/silenzio della PA (art. 31 c.p.a.) e, in ogni caso, per non avere i ricorrenti indicato quali misure dovessero essere adottate: il Tar le rigetta evidenziando, quanto al primo aspetto, la diversità dei due ricorsi, in quello avverso il silenzio della PA oggetto del ricorso è la condanna a concludere uno specifico procedimento individuale nel termine assegnato dal giudice, mentre nel ricorso per l’efficienza della PA lo scopo è «[al]l’eliminazione del comportamento dell’amministrazione costantemente violativo delle regole imposte dall’ordinamento sul rispetto dei termini procedimentali».

Quanto al fatto che nel ricorso non siano state indicate le specifiche misure che la PA doveva adottare, ricorda il Tar che «una simile richiesta risulterebbe inammissibile, poiché non solo esulerebbe dall’ambito di applicazione della class action pubblica, ma rappresenterebbe, altresì, un’indebita ingerenza nelle prerogative dell’amministrazione.» (Tar Lazio, n. 8154/2013);

e) eccezione di inammissibilità per inesistenza di un termine per la conclusione delle procedure di regolarizzazione e dunque estraneità alle fattispecie previste dall’art. 1 d.lgs. 198/2009: eccezione che il Tar esamina nella parte di merito, rigettandola, perché pur in assenza di un termine specificamente indicato nell’art. 103 d.l. n. 34/2020, comunque esso non può mai superare il termine massimo di 180 gg. previsto, in generale, in materia di diritto degli stranieri dall’art. 2, co. 4. legge n. 241/90 e s.m. 

f) eccezione di improcedibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, poiché dopo l’impugnazione alcune posizioni sono state definite: ricorda e ribadisce il Tar che l’interesse ad agire nella class action non è di tipo sollecitatorio alla definizione di una propria specifica posizione, bensì quello generale di porre fine a una costante e generale pratica di violazione procedimentale della PA e pertanto è sufficiente che al momento della presentazione del ricorso i ricorrenti/persone fisiche fossero lesi da essa (Tar Lazio n. 2257/2014);

g) eccezione di erronea comunicazione, ex art. 1, co. 2 d.lgs. 198/2009, del ricorso al Ministero per l’innovazione tecnologica e transizione digitale, non più esistente: il Tar evidenzia che l’obbligo di comunicazione del ricorso, ex art. 1, co. 2 d.lgs. 198/2009, è estraneo al giudizio, è onere privo di alcuna sanzione e non attiene alla regolare istaurazione del contraddittorio, e dunque è fattispecie ben diversa dal potere del giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio, nella prima udienza, laddove ritenga esserci una carenza; inoltre, la comunicazione del ricorso è data all’Amministrazione in generale, che deve provvedere lei stessa a inoltrarlo al Ministero o all’Ufficio cui sono attribuite pro-tempore le funzioni già assegnate al Ministero soppresso.

Esaurita la parte dedicata alle eccezioni processuali, il Tar Milano esamina il merito del ricorso, accogliendolo, in quanto è stato dimostrato che il ritardo della prefettura di Milano nella definizione delle domande di regolarizzazione è grave e sistematico, violando il principio di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione, di cui il d.lgs. 198/2009 rappresenta il portato pratico. Ricorda il giudice amministrativo che, pur in assenza di termine di definizione delle domande di regolarizzazione, assente infatti nell’art. 103 d.l. n. 34/2020, tuttavia l’approdo giurisprudenziale a cui la giustizia amministrativa è definitivamente giunta è che esso non può superare i 180 gg. indicati dall’art. 2, co. 4 legge n. 241/90 “nella materia degli stranieri” quale “punto di tolleranza” su cui è ragionevole fissare il limite di durata massima per le procedure in questione (Cons. St. n. 3578/2022). Principio cui va correlato l’obbligo della PA di concludere il procedimento con provvedimento espresso e motivato (artt. 2 e 3 legge n. 241/90).

Nello specifico della prefettura di Milano, come sopra anticipato, il Tar prende atto che, al 21 luglio 2023 (dunque 3 anni dopo l’inizio della regolarizzazione), sono state evase 15.528 domande e inevase 10.697 (ndr: all’inizio del procedimento ex d.lgs. 198/2009 erano state definite 6.381 domande su un totale di 25.900), così come prende atto che nelle more della class action sono state adottate dalla prefettura vari misure finalizzate allo smaltimento delle pratiche (assunzione di personale interinale, utilizzo di persone di altri uffici prefettizi e di alcune unità messe a disposizione dal Comune in forza di Protocollo, task forse creata dal Ministero, avanzamento delle pratiche anche in assenza di acquisizione dei pareri dell’Ispettorato del lavoro e della questura, espletamento dell’istruttoria a Sportello, convocazione dei richiedenti la regolarizzazione anche il sabato). Tuttavia, afferma il Tar che esse «non elidono il dato dell’oggettiva inefficienza dell’amministrazione nell’attuazione, sul piano esecutivo e gestorio, della decisione legislativa di procedere ad una sanatoria straordinaria delle posizioni lavorative irregolari esistente sul territorio nazionale. Anzi, l’adozione delle iniziative sopra richiamate alcune delle quali ancora solo preventivate conferma la consapevolezza della necessità di adottare misure organizzative anch’esse eccezionali e idonee a fronteggiare l’elevato numero di istanze, certamente prevedibile alla luce dei dati relativi alle analoghe regolarizzazioni effettuate in passato, dimostrando ulteriormente che le amministrazioni intimate non hanno operato in maniera efficiente.». Dunque, è la prevedibilità di quanto necessario per il rispetto di tempi ragionevoli di definizione dei procedimenti a rappresentare la conferma della responsabilità della PA che, nonostante le risorse messe a disposizione già del 2020 dal legislatore della regolarizzazione, non ha saputo organizzarsi per non violare, in modo grave e sistematico, il termine ragionevole di durata del procedimento stesso, lasciando privi di diritti migliaia di richiedenti la regolarizzazione. Pertanto, il Tar, in accoglimento del ricorso «condanna il Ministero dell’interno e la prefettura di Milano a porre rimedio a tale situazione mediante l’adozione degli opportuni provvedimenti, entro il termine di 90 (novanta) giorni dalla comunicazione della presente sentenza, nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.».

Parere negativo dell’Ispettorato del lavoro non reso disponibile - motivazione per relationem e diritto di accesso - coesistenza del lavoro della procedura di regolarizzazione con altro lavoro irregolare

Il Tar per l’Emilia Romagna, Parma, con sentenza n. 344/2023, ha affrontato il ricorso di impugnazione di un diniego di regolarizzazione – presentata ai sensi dell’art. 103, co. 1 d.l. n. 20/2020 nel settore domestico e di assistenza alla persona – motivato in forza di parere negativo dell’Ispettorato del lavoro «in quanto risultano, a carico del lavoratore, irregolarità accertate e contestate relative alla procedura di emersione del lavoratore, come da banca dati di questo ITL». Nel giudizio è stato compiutamente ricostruito sia l’iter processuale (nel 2021 la sospensiva è stata rigettata dal Tar, e nel 2022 è stata invece accolta dal Consiglio di Stato) che quello procedimentale, da cui è emerso che alla base del parere negativo dell’Ispettorato, mai reso disponibile al ricorrente nonostante l’accesso agli atti, vi era un verbale del nucleo dei Carabinieri di Parma, allegato al provvedimento di diniego, che durante un’ispezione aveva rinvenuto il lavoratore straniero mentre svolgeva lavoro irregolare quale commesso nel negozio di ortofrutta del cognato. Secondo il Tar il verbale dei Carabinieri «non può rivestire la natura di un parere dell’Ispettorato territoriale del lavoro nemmeno nel suo contenuto sostanziale.» e nel provvedimento di rigetto della prefettura, ove si riporta il parere dell’Ispettorato senza indicarne nemmeno gli estremi, non vi è comunque traccia del verbale dei Carabinieri «costituendo questo, come di competenza, un verbale di ispezione con il quale si espone un accertamento di fatto in relazione ad una singola situazione contingente.» e, pertanto, vi è stato un evidente difetto di motivazione del provvedimento, nemmeno per relationem. Precisa il Tar che la motivazione per relationem è legittima certamente con il richiamo a esaustivi atti istruttori precedenti il provvedimento conclusivo (Cons. St. n. 265/2023) ma a condizione che essi siano non solo indicati ma anche resi disponibili all’interessato, così da consentirgli l’esercizio del diritto di difesa e anche all’autorità giudiziaria di sindacare la fondatezza del provvedimento finale, precisando in tal modo anche la relazione tra diritto di accesso agli atti e motivazione per relationem (Cons. St. n. 3609/2021).

Il Tar emiliano affronta anche il diverso profilo della compatibilità tra la domanda di regolarizzazione per l’avvio di attività lavorativa in uno degli specifici e limitati settori occupazionali indicati nell’art. 103 d.l. n. 34/2020 (nel caso oggetto di ricorso si trattava di assistenza alla persona/lavoro domestico) e svolgimento di attività lavorativa al di fuori di essi e comunque del datore di lavoro richiedente la regolarizzazione. Profilo evidenziato in giudizio dalla prefettura ma non esplicitato nel provvedimento impugnato e nemmeno nel preavviso di rigetto. Nella sentenza si dà atto dell’estraneità di detto profilo alla motivazione addotta nel provvedimento di diniego, ma è interessante evidenziare che, secondo il giudice amministrativo, «l’allegazione del citato verbale dei Carabinieri, se consente l’apprezzamento di una rilevazione della situazione contingente così come documentata, non può, invece, sostenere una motivazione di diniego dell’istanza come preteso dall’Amministrazione. Come precedentemente esposto, la motivazione del provvedimento, anche eventualmente per relationem qualora ne sussistano i presupposti, deve esporre le ragioni giuridiche che supportano la decisione sussumendo la fattispecie concreta, apprezzata a seguito di completa istruttoria, nel disposto normativo.», lasciando intendere che non sia automaticamente ostativo alla regolarizzazione lo svolgimento di attività lavorativa (anche se irregolare) in settori diversi da quelli limitati nell’art. 103 d.l. n. 34/2020 nel caso in cui comunque siano accertati positivamente i presupposti legali per la regolarizzazione richiesta. In altri termini, il lavoro sub art. 103 può coesistere con altro lavoro irregolare.

Idoneità alloggiativa - requisito necessario ma secondario - acquisizione non nella disponibilità del/della lavoratore/lavoratrice  

La sentenza n. 1015/2023 del Tar Piemonte affronta il caso di un diniego di regolarizzazione motivato per la mancanza di documentazione dell’idoneità alloggiativa, in sede di sottoscrizione del contratto di soggiorno a conclusione della procedura. Nel corso del giudizio è emerso una sorta di “pasticciamento” procedurale (invero non raro nelle procedure di regolarizzazione), poiché a fronte di un primo diniego conseguente a preavviso di rigetto in cui il requisito alloggiativo non era stato indicato, è stato inviato un secondo preavviso ed emesso un secondo provvedimento formalmente “corretto” ma nonostante la lavoratrice abbia allegato la prova dell’avvenuta richiesta al Comune dell’idoneità alloggiativa. Diniego mantenuto dalla prefettura anche dopo l’accoglimento della sospensiva da parte del Tar (ord. n. 776/2022), con cui si ordinava all’Amministrazione il motivato riesame della domanda tenendo conto che la richiesta della documentazione alloggiativa era precedente il rigetto. Il Tar annulla il provvedimento di rigetto proprio perché la prefettura non ha tenuto conto del comportamento attivo della richiedente la regolarizzazione, che ha dimostrato di avere chiesto e sollecitato in più occasioni il Comune al rilascio dell’attestazione di idoneità – requisito qualificabile come secondario – e la sua mancata acquisizione non le può essere imputata perché non dipendente da propria responsabilità. Nella sentenza, infatti, si afferma che «ci si deve rendere conto che la ricorrente ha agito correttamente per ottenere un requisito secondario, per la cui concretizzazione doveva un determinato numero di soggetti e non poteva dunque farsi ascendere alla medesima la sola responsabilità dell’assenza di tale requisito o ancor più del ritardo con cui è stato conseguito.». Un profilo di ricorso non accolto dal Tar riguarda, invece, la non obbligatorietà della documentazione dell’idoneità alloggiativa, che secondo la ricorrente non sarebbe richiesta dall’art. 5-bis TU d.lgs. 286/98 (evocato dall’art. 103, co. 9 d.l. n. 34/2020) bastando la garanzia dell’alloggio da parte del datore di lavoro, a differenza di ciò che il legislatore chiede per il rilascio del permesso di lungo soggiorno (art. 9, co. 1 TU immigrazione. Secondo il giudice amministrativo piemontese, tuttavia, l’art. 5-bis TU d.lgs. 286/98 «non è chi non veda che tale previsione legislativa assuma valore di principio generale per il rilascio di qualsiasi permesso di soggiorno per lavoro subordinato. L’emersione dal lavoro irregolare prevista dal d.l. 34 del 2020, sia pure in forma di deroga, indubbiamente il rilascio di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato e la sua previsione peculiare non si ritiene possa costituire un’eccezione alle necessità basilari connesse al rilascio del permesso di soggiorno ordinario.».

 

IL PERMESSO DI SOGGIORNO

Elementi sopravvenuti e obbligo della loro valutazione da parte dell’autorità 

Il tema dell’obbligo di valutazione di elementi sopravvenuti al momento della presentazione di un’istanza di permesso di soggiorno (o di suo rinnovo o conversione) è già stato oggetto di segnalazione nell’ambito di questa Rassegna (cfr. Ammissione e Soggiorno in questa Rivista n. 1.2023 e n. 3.2022). Esso ha una specifica base legislativa nell’ambito del diritto dell’immigrazione essendo codificato, quantomeno, nell’art. 5, co. 5, TU d.lgs. 286/98 ed è stato oggetto di numerosi interventi della giurisprudenza.

Il tema riguarda sia la possibilità/necessità di valutare gli elementi sopravvenuti alla presentazione dell’istanza amministrativa ma precedenti alla relativa decisione della pubblica amministrazione, sia la possibilità/necessità di tenere in considerazione i medesimi elementi qualora essi siano successivi alla decisione assunta dalla PA e, dunque, possano essere valutati solo in ambito giudiziario.

Può ritenersi pacifico in giurisprudenza che gli elementi sopravvenuti, cui avere riguardo ai sensi e per gli effetti dell’art. 5, co. 5, cit., possano avere ad oggetto circostanze posteriori all’istanza di rilascio/rinnovo (o di conversione) del titolo di soggiorno, ma comunque anteriori all’adozione del provvedimento su di essa (cfr. Cons. St., n. 279/2021; Cons. St. n. 940/2020). Non v’è assoluta unanimità, invece, se possano essere oggetto di scrutinio circostanze sopravvenute posteriori rispetto alla adozione del provvedimento amministrativo e, dunque, rese note solo in fase giudiziaria. La giurisprudenza in materia, specie di legittimità, sembra decisamente propendere in tale senso, anche se residuano alcune argomentazioni di segno contrario.

La decisione del Tar Lombardia, Milano, sentenza n. 63/2024 costituisce occasione per riprendere il tema. Essa interviene in materia richiamando il principio tempus regit actum e sottolinea che, in virtù dello stesso, la legittimità di un atto amministrativo deve essere esaminata con riguardo alla sola situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione. La decisione dissente apertamente, e conseguentemente “colloquia”, con la prevalente giurisprudenza amministrativa sul punto, sottolineando, tra l’altro, che «Il potere amministrativo è esercitato in relazione ad una determinata situazione di fatto, che è quella accertata nel corso del procedimento; una volta adottato il provvedimento, l’amministrazione potrà esercitare nuovamente il potere, qualora l’interessato sottoponga una diversa situazione di fatto sopravvenuta o, secondo una certa impostazione, anche preesistente, ma non compresa nel patrimonio conoscitivo dell’amministrazione». La medesima decisione affronta anche la valenza dell’ordinanza propulsiva del giudice amministrativo, quella volta a stimolare il riesame della decisione impugnata da parte della medesima amministrazione; al riguardo sostiene, tuttavia, che essa «si colloca all’interno del giudizio di legittimità di un provvedimento amministrativo, sicché essa ha come parametro di riferimento lo stesso principio tempus regit actum sulla cui base viene scrutinata la legittimità dell’atto gravato; pertanto, l’amministrazione, anche quando agisce in ottemperanza a un’ordinanza propulsiva, può tenere in considerazione i soli elementi introdotti nel procedimento prima dell’adozione del provvedimento impugnato».

Ci sembra, però, che tale impostazione si riveli, in definitiva, oltre che assolutamente minoritaria nel panorama della giurisprudenza amministrativa, anche eccessivamente formalistica e non affronti pienamente la specificità del processo amministrativo allorquando lo stesso – forse mai come in materia di immigrazione – interviene direttamente o indirettamente su diritti fondamentali della persona umana, quasi al pari del giudice ordinario.

D’altra parte è certamente prevalente (forse potrebbe dirsi “granitico”) altro orientamento giurisprudenziale che ha, infatti, maggiormente valorizzato l’evoluzione del processo amministrativo da giudizio amministrativo sull’atto a giudizio sul rapporto che è regolato dal medesimo atto; dunque giudizio volto all’analisi e alla decisione sul bene-vita reclamato e azionato in giudizio. Tale impostazione (già fatta propria ed evidenziata, oltre un decennio fa, da Cons. St., A.P. n. 3/2011) pare meglio attanagliarsi, in particolare modo, ai giudizi relativi ai titoli di soggiorno dei cittadini stranieri in Italia, ove vengono in rilievo diritti fondamentali della persona tutelati al massimo grado del nostro ordinamento giuridico (dignità, famiglia, lavoro, salute, etc.). Difatti, l’impostazione in base alla quale si dovrebbe imporre, in tali giudizi, la valutazione di tutti gli elementi sopravvenuti, non solo sino alla definizione del procedimento amministrativo ma sino al momento della eventuale decisione giudiziale, sembra essere stata già assunta dal Consiglio di Stato (cfr. Cons. St. n. 4467/2022, n. 6935/2022, n. 5498/2023, n. 719/2023). A ribadire tale impostazione è stato, da ultimo, e ancora una volta il Consiglio di Stato, sentenza n. 10245 del 29.11.2023, per il quale è, in definitiva, «chiaro che il giudice amministrativo non può più limitarsi ad una valutazione di tipo statico, ancorata al provvedimento impugnato ma dovrà operare una valutazione di tipo dinamico – fermi restando il potere discrezionale dell’amministrazione competente e il divieto assoluto di sindacato esteso al merito – al fine di evitare il concretizzarsi di un pregiudizio per la situazione giuridica sostanziale». D’altronde, sottolinea il Collegio, «Nella specifica materia dell’immigrazione, il giudizio amministrativo come giudizio sulla situazione giuridica soggettiva e non solo sull’atto impugnato, impone dunque la valutazione degli elementi che si sono effettivamente concretizzati nelle more tra l’istanza presentata, il suo esame da parte dell’amministrazione e il giudizio dinanzi al giudice, specie quando ci sono gli elementi per il riconoscimento di altro titolo di soggiorno perché, se è vero che questi non potevano incidere sull’atto, incidono sulla situazione giuridica dell’appellante e la loro mancata valutazione può comprometterla irrimediabilmente, arrecando un pregiudizio a diritti fondamentali della persona umana».

In questo contesto, dunque, va collocato il potere di riesame in capo all’Amministrazione a seguito delle ordinanze a carattere propulsivo della giustizia amministrativa, che costituiscono esattamente lo strumento per evitare che il giudice amministrativo si sostituisca alla pubblica amministrazione, senza tuttavia pregiudicare i diritti fondamentali della persona.

Permesso per motivo di studio, formazione o tirocinio - conversione del titolo - verifica della previa esistenza di “quote” - non necessità a seguito delle modifiche all’art. 6, TU d.lgs. 286/1998; rinnovo del titolo - carenza dei requisiti - necessità di verificare la sussistenza per il rilascio di altro permesso di soggiorno; rigetto della domanda di permesso per fatti attinenti alla volontà di terzi - obbligo di verifica dei presupposti) 

Il Tar Lombardia, sede di Milano, ordinanza cautelare n. 1110/2023, è intervenuto in materia di conversione del permesso di soggiorno per motivo di studio e formazione in permesso per lavoro autonomo a seguito delle modifiche apportate all’art. 6, TU d.lgs. 286/1998, da parte dell’art. 24, co. 5, d.l. 22 giugno 2023, n. 75, convertito con modificazioni in legge 10 agosto 2023, n. 112. La questione affrontata dal Tar attiene alla necessità, ai fini della conversione, della previa esistenza o meno di apposite “quote” riservate nell’ambito del cd. decreto flussi, dato che la riforma legislativa ha soppresso l’ultima parte dell’art. 6, co. 1, TU immigrazione, con cui si disponeva che essa era possibile solo «nell’ambito delle quote stabilite a norma dell’articolo 3, comma 4, secondo le modalità previste dal regolamento di attuazione» e che il provvedimento impugnato proprio ad essa riferiva il rigetto. Afferma il giudice amministrativo, già in sede cautelare, che il permesso di soggiorno rilasciato per motivi di studio e formazione «può essere convertito, al di fuori delle quote di cui all’articolo 3, comma 4, comunque prima della sua scadenza, e previa stipula del contratto di soggiorno per lavoro ovvero previo rilascio della certificazione attestante la sussistenza dei requisiti previsti dall’articolo 26, in permesso di soggiorno per motivi di lavoro», irrilevante, dunque, che al momento della domanda di conversione la disciplina normativa fosse differente.

La medesima pronuncia ha fatto applicazione, dunque del principio tempus regit actum, che impone alla PA di applicare la normativa vigente al momento della sua determinazione amministrativa. Infatti, «la corretta applicazione del principio tempus regit actum implica che l’amministrazione deve tenere conto, nel provvedere, delle modifiche normative intervenute durante l’iter procedimentale, non potendo al contrario considerare l’assetto cristallizzato alla data dell’atto che vi ha dato avvio. Conseguentemente, la legittimità del provvedimento conclusivo di un procedimento a istanza di parta va valutata con riferimento alle norme vigenti al tempo della sua adozione e non a quelle in vigore al momento di presentazione dell’istanza» (così Cons. St. n. 2789/2022 e in termini, da ultimo, la già segnalata Tar Lombardia, sent. n. 63/2024, che richiama altresì Corte cost. n. 202/2021, e Tar Lombardia sent. n. 170/2019, n. 109/2019 e ord. n. 76/2018). 

Sempre in materia di rinnovo del permesso di soggiorno per motivo di studio, il Tar Lombardia, decreto cautelare monocratico n. 70/2024, rammenta che nel momento in cui venga chiesto il rinnovo di un titolo di soggiorno è onere della PA, specie ove la parte ne abbia fatto esplicita richiesta, valutare non solamente l’esistenza dei presupposti per il rilascio del permesso richiesto ma, altresì, verificare se gli elementi addotti in sede procedimentale consentono il rilascio di un permesso ad altro titolo (cfr. art. 5, co. 9 TU d.lgs. 286/98).

Sotto differente profilo e nello scrutinare il rigetto della domanda amministrativa volta a ottenere la conversione del permesso di soggiorno per tirocinio in permesso di soggiorno per lavoro subordinato, il Tar Emilia Romagna, con ord. cautelare n. 408/2023, ha sospeso l’efficacia del provvedimento impugnato al fine di un suo riesame da parte dell’Amministrazione, rilevando che il rigetto dell’istanza amministrativa per ragioni riconducibili unicamente a fatti imputabili alla volontà di terzi (nel caso di specie il datore di lavoro) e non della parte non costituisce adeguata motivazione allorquando vi siano sufficienti elementi affinché il richiedente possa ambire alla conversione del titolo di soggiorno per lavoro subordinato.

Permesso per residenza elettiva - titolarità del relativo visto in corso di validità - non necessità; regolarità del soggiorno - necessità; individuazione delle risorse economiche autonome, stabili e regolari  

Ai sensi dell’art. 11, co. 1, lett. c-quater, d.p.r. n. 394/1999, «Il permesso di soggiorno è rilasciato, quando ne ricorrono i presupposti, per i motivi e la durata indicati nel visto d’ingresso o dal testo unico, ovvero … per residenza elettiva a favore dello straniero titolare di una pensione percepita in Italia». È alquanto comune che la PA non riconosca la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno per residenza elettiva in mancanza di previo visto di ingresso rilasciato per il medesimo motivo, ovvero di pensione in capo alla parte richiedente e, tanto, sulla base di una lettura errata della pertinente normativa di settore.

Tale prassi amministrativa, infatti, è stata censurata in sede giurisdizionale nel corso del tempo, affermandosi che «per il rilascio del permesso per residenza elettiva non è necessariamente richiesta la titolarità di un visto in corso di validità» (Cons. St., ord. n. 3427/2022,). Nel valorizzare tale principio la giurisprudenza di merito ha altresì affermato che «alla posizione del titolare di pensione va equiparata quella di colui che è possessore di ampie risorse economiche e di disponibilità abitativa ai sensi del d.m. 11 maggio 2011, mentre la non convertibilità del permesso di soggiorno per motivi di “vacanze lavoro” in permesso di soggiorno per motivi di “residenza elettiva” diventa irrilevante perché l’art. 11 co. 1 lett. c-quater del d.p.r. n. 394/99 non richiede espressamente la titolarità di un visto in corso di validità rilasciato per la suddetta causale per entrare in Italia».

Sulla base di tali premesse il Tar Puglia, Bari, sentenza n. 1129 del 13.9.2023, ha confermato l’erroneità delle prassi in materia da parte dell’Amministrazione che «ha erroneamente attribuito rilevanza preclusiva alla mancanza del “visto di ingresso ottenuto per lo stesso motivo e rilasciato dalla Rappresentanza diplomatica dell’Italia nel Paese di provenienza al cittadino straniero”, laddove invece, trattandosi di un requisito non espressamente richiesto dalla normativa vigente in materia, avrebbe dovuto ritenere la ricevibilità dell’istanza e quindi provvedere ad esaminare nel merito la richiesta della ricorrente, tenuto conto, tra l’altro, della consistenza delle risorse economiche a sua disposizione». Principio, invero, già precedentemente assunto anche dal Tar Piemonte, sentenza n. 687 del 17 luglio 2023, secondo il quale «Dal combinato disposto dell’art. 11 del d.p.r. 394/99 e dell’allegato A n. 13 del d.m. 11 maggio 2011 si evince, infatti, che il visto per residenza elettiva, e il relativo permesso di soggiorno, sono rilasciati a coloro i quali siano in grado di mantenersi autonomamente, senza esercitare alcuna attività lavorativa, con la precisazione che “lo straniero dovrà fornire adeguate e documentate garanzie circa la disponibilità di un’abitazione da eleggere a residenza, e di ampie risorse economiche autonome, stabili e regolari, di cui si possa ragionevolmente supporre la continuità nel futuro. Tali risorse, comunque non inferiori al triplo dell’importo annuo previsto dalla tabella A allegata alla direttiva del Ministro dell’interno del 1 marzo 2000, recante definizione dei mezzi di sussistenza per l’ingresso ed il soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato, dovranno provenire dalla titolarità di cospicue rendite (pensioni, vitalizi), dal possesso di proprietà immobiliari, dalla titolarità di stabili attività economico-commerciali o da altre fonti diverse dal lavoro subordinato». 

Da ultimo i principi di cui sopra sono stati fatti propri e ribaditi da Tar Lombardia, sentenza n. 3130/2023, relativamente a una complessa fattispecie attinente una cittadina extracomunitaria giunta in Italia con visto turistico che, successivamente, aveva presentato domanda di regolarizzazione ex art. 103, co. 1, d.l. 34/20. Tale procedura, a causa di deprecabili lungaggini amministrative che hanno di fatto bloccato le pratiche di regolarizzazione di migliaia di persone, aveva comunque consentito alla parte di avanzare istanza di rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 11, co. 1, lett. c-quater, d.p.r. n. 394/1999. La questura rilevava erroneamente la carenza di corrispondente visto di ingresso per residenza elettiva, facendo da ciò conseguire il rigetto della domanda. A seguito di impugnazione del provvedimento, il giudice amministrativo milanese ha valorizzato proprio la pregressa regolarità di soggiorno dell’istante, determinata dalla domanda di regolarizzazione avanzata ai sensi dell’art. 103, d.l. 34/2020, per ribadire che «La regolare presenza in Italia rappresenta titolo idoneo per chiedere il rilascio di un permesso di soggiorno per residenza elettiva, come si ricava dalla corretta interpretazione della normativa di settore, la quale non richiede la presenza di un visto di ingresso specifico, ovvero “ottenuto per lo stesso motivo” nel caso di istanza di rilascio del permesso di soggiorno per residenza elettiva».

 

Permesso di soggiorno per motivi di lavoro - nulla osta al lavoro e ingresso con visto - impossibilità di concludere il procedimento per indisponibilità del datore di lavoro - rilascio del permesso per attesa occupazione - necessità

È nota la difficoltà dell’ordinario meccanismo di ingresso in Italia per motivo di lavoro da parte di cittadini stranieri attraverso la regolamentazione a mezzo di decreti flussi, tema su cui questo stesso numero della Rivista ospita un’interessante riflessione di A. Guariso. Ciò comporta disfunzioni nell’ambito del mercato del lavoro e notevoli difficoltà in capo ai lavoratori che giungono in Italia attraverso un regolare visto di ingresso per lavoro ma che, successivamente, non riescono per svariate ragioni a concretizzare il percorso con la stipula del contratto di lavoro con il datore di lavoro che aveva avanzato istanza di nulla osta. In tali casi il lavoratore può optare per la richiesta di un permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 22. co. 11, TU d.lgs. 286/98 (cd. per attesa occupazione), ma la PA competente non sempre accoglie favorevolmente tali istanze amministrative. È intervenuto in materia, con pronuncia degna di nota, il Tar Campania, Salerno, sentenza n. 119/2024, a fronte del silenzio-inadempimento della PA formatosi sull’istanza di rilascio di permesso per attesa occupazione. Richiamando la circolare del 20 agosto 2007 del Ministero dell’interno, che ha affrontato l’ipotesi dell’indisponibilità del datore di lavoro a formalizzare il rapporto di lavoro, i giudici hanno sottolineato la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno per attesa occupazione «atteso che la mancata formalizzazione del rapporto di lavoro dipende da causa non riconducibile allo straniero».

Il Collegio campano – sottolineando che è «volontà del Legislatore quella di occupare le forze lavoro presenti sul territorio prima di immettere nel mercato del lavoro nuova manodopera proveniente dall’estero (cfr. art. 9 d.p.c.m. 29.12.2022) in un contesto dove è altissima la richiesta di nuovi ingressi dovuta in gran parte anche alla mancanza di lavoratori regolarmente iscritti nelle cd. liste di collocamento e disponibili al lavoro» – ribadisce dunque il «pacifico orientamento per il quale l’inadempienza datoriale non può riversarsi in modo pregiudizievole rispetto alla posizione dello straniero che aspira al rilascio/rinnovo del proprio titolo di soggiorno giacché il medesimo non ha la minima possibilità di sopperire a tali mancanze non avendo strumenti sostitutivi per adempiervi, ma anzi risulta parte danneggiata (cfr. Cons. St., sez. III, 20.5.2019 n. 3224)». 

Rinnovo/conversione del permesso di soggiorno - motivi ostativi - condanne per i reati ex art. 380 c.p.p. - valutazione discrezionale della PA - lungo soggiornante di fatto e legami familiari - rilevanza - condanna ex art. 73 d.p.r. 309/90 ed ex artt. 474 e 648 c.p. - no automatismo ostativo 

Il Consiglio di Stato, sentenza n. 10223 del 28.11.2023, interviene in materia di legittimità della richiesta di conversione del permesso di soggiorno (nella specie rilasciato per motivi umanitari) in permesso di soggiorno per lavoro qualora a carico del richiedente sia stata emessa sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 497-bis, co. 1, c.p. (possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi). Come noto la condanna per tale reato è ritenuta ordinariamente ostativa al rinnovo/conversione del titolo di soggiorno in base all’art. 4, co. 3, d.lgs. 286/98 («non è ammesso in Italia lo straniero che non soddisfi tali requisiti o che sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressone dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone o che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite»).

Il Collegio ribadisce il suo precedente e consolidato orientamento (cfr. Cons. St. n. 5950/2022, n. 5007/2019, n. 1339/2013, n. 5825/2011), in base al quale ai sensi dell’art. 4, co. 3, TU d.lgs. n. 286/98, le condanne per i reati ricompresi nella previsione dell’art. 380 c.p.p. sono indicative di una pericolosità sociale del cittadino straniero sulla base di una valutazione compiuta ex ante dal legislatore, risultando dunque ostative al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno. Ne consegue che, nelle ipotesi tipizzate dall’art. 380 c.p.p., cui rinvia l’art. 4, co. 3, TU immigrazione, è in linea di massima preclusa al questore ogni valutazione di pericolosità in concreto dello straniero, potendosi qualificare il provvedimento di diniego come atto dovuto. Specifica il Supremo Collegio amministrativo che tale automatismo «tuttavia, cede il passo a una valutazione discrezionale allorquando, ad esempio, lo straniero vanti legami familiari sul territorio nazionale….[quando] si richiede all’Amministrazione una valutazione della pericolosità sociale dello straniero in concreto, che tenga cioè conto, nel raffronto con l’interesse pubblico al mantenimento dell’ordine e della sicurezza, dell’effettività dei vincoli familiari, del legame effettivo con il Paese d’origine e della durata del soggiorno».

Inoltre il Consiglio di Stato ribadisce la rilevanza della situazione sostanziale (da considerarsi prevalente rispetto a quella formale) allorquando dalla stessa si evinca che il richiedente sia, di fatto, qualificabile come “soggiornante di lungo periodo”. In tali ipotesi, specifica, va applicata la normativa e la tutela rafforzata di cui gode il titolare di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo (art. 9, co. 4, TU d.lgs. 286/98) anche se il ricorrente non è formalmente titolare di tale permesso. Ciò in quanto la pertinente normativa si attaglia non solo ai formali titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, ma «anche a coloro che hanno maturato la condizione per il rilascio del permesso di soggiorno a siffatto titolo, come nel caso dell’odierno appellante, che si trova in Italia da oltre dieci anni e vi svolge, almeno da quanto risulta agli atti, regolare attività lavorativa. (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 7.04.2014, n. 1637), come dimostra la produzione documentale concernente le buste paga percepite nei mesi di luglio ed agosto 2023 che, seppur tardivamente depositata in vista dell’udienza pubblica in data 20 settembre 2023, dà atto di una continuità reddituale che merita di essere valorizzata in questa sede». 

Anche il Tar Lazio, Roma, sentenza n. 18227/2023 si confronta con la questione relativa alla natura automaticamente ostativa della condanna per il reato di cui all’art. 73 d.p.r. 309/90, tenuto conto che l’articolo 4, co. 3, TU d.lgs. 286/1998 stabilisce che non è ammesso in Italia lo straniero condannato, anche con sentenza non definitiva, per reati inerenti gli stupefacenti. Il Collegio rammenta che con la sentenza 88/2023 la Corte costituzionale (già oggetto di segnalazione nella rassegna in questa Rivista, n. 2-2023) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 4, co. 3, e 5, co. 5, TU immigrazione nella parte in cui ricomprendono, tra le ipotesi di condanna che impediscono automaticamente il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro, anche quelle per il reato (cd “piccolo spaccio”) di cui all’articolo 73, comma 5, del d.p.r. n. 309/1990 e per il reato di cui all’articolo 474, co. 2, c.p. (vendita di merci contraffatte), senza prevedere che l’autorità competente verifichi in concreto la pericolosità sociale del richiedente, essendo manifestamente irragionevole non consentire una valutazione della fattispecie concreta da parte dell’amministrazione, da un lato, e del giudice, dall’altro. Ne consegue che «deve essere assunta in motivazione una valutazione ad ampio spettro delle circostanze di fatto che fondano un giudizio di pericolosità dello straniero istante e assurga ad adeguato punto di equilibrio in concreto con i diritti fondamentali dello straniero, nell’ottica di un finale provvedimento proporzionato e rispettoso dei principi di cui all’art. 8 CEDU, disposizione eurounitaria che richiama all’interprete il catalogo dei diritti fondamentali di cui all’art. 2 Cost.

Costituisce quindi onere dell’autorità amministrativa predisporre un apparato motivazionale che, in linea con la posizione assunta dal giudice delle leggi, eviti un automatismo espulsivo dello straniero tale da entrare in conflitto, come nel caso di specie avvenuto, con i diritti fondamentali dell’individuo senza attingere il necessario livello di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica».

Il Tribunale amministrativo ha, con la medesima pronuncia, ricordato altresì che in materia di rinnovo del permesso di soggiorno (anche in base alla sentenza n. 202/2013 con cui la Corte delle leggi ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 5, co. 5, TU d.lgs. n. 286/98, nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita si applichi solo allo straniero che “ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare” o al “familiare ricongiunto”, e non anche allo straniero “che abbia legami familiari nel territorio dello Stato”) l’Amministrazione è tenuta a valutare adeguatamente i vincoli familiari del privato essendo «contrario al principio di proporzionalità, letto anche alla luce dell’art. 8 CEDU, escludere, in dette ipotesi, il dovere dell’amministrazione di valutare la situazione concreta, in relazione al percorso di inserimento nella società. Tanto più ove si consideri che si fa qui riferimento, come chiarito, alla sola ipotesi di rinnovo, e non di rilascio, del permesso di soggiorno: ciò che lascia intravvedere − particolarmente in considerazione della circostanza che si tratta di permesso per lavoro − un processo di integrazione dello straniero, che sarebbe irreversibilmente compromesso ove non si consentisse la prosecuzione del percorso lavorativo intrapreso». 

Analogo richiamo alla sentenza n. 88/2023 della Corte costituzionale, d’altra parte, è portato da Consiglio di Stato, sentenza n. 10296/2023 con riferimento alla domanda di rinnovo di permesso di soggiorno per motivo di lavoro da parte di richiedente precedentemente condannato in via definitiva per il reato di cui all’art. 474 c.p. (Introduzione nello Stato di prodotti con segni falsi) e di cui all’art. 648 c.p. (ricettazione). Anche in tale caso il Superiore Collegio amministrativo, nell’ordinare il riesame della situazione del cittadino straniero, specifica che la PA dovrà provvedere a valutare in concreto la ritenuta pericolosità sociale «tenendo conto, da un lato, del tipo di reato commesso e, dall’altro, della sua condizione familiare e lavorativa in base agli elementi di fatto forniti dall’interessato ed operando, quindi, il necessario bilanciamento tra gli opposti interessi, fornendo un’adeguata motivazione sulla scelta operata che, allo stato, risulta affetta da irragionevolezza e sproporzione». 

Nonostante tali pronunce risultino ancora decisioni amministrative che non fanno espressa applicazione della sentenza n. 88/2023 della Corte costituzionale, sono comunque un preciso segnale della necessità di un più significativo cambiamento nell’orientamento della giurisprudenza (specie di merito) in questa delicatissima materia. In tale senso, va segnalata la sentenza n. 16364/2023 TAR Lazio, Roma, che ha invece ritenuto la commissione del reato di cui all’art. 73, co. 5, d.p.r. 309/90 elemento automaticamente ostativo alla possibilità di riconoscimento del permesso di soggiorno UE per soggiornante di lungo periodo, completamente omettendo la intervenuta decisione del Giudice delle leggi.

 

DIRITTI CIVILI e SOGGIORNO

Iscrizione anagrafica per richiedenti asilo - esclusione ex d.l. n. 113/2018 - successiva dichiarazione di illegittimità costituzionale (Corte cost. n. 189/2020) - nuova richiesta di iscrizione a far data dalla prima - effetti della pronuncia di incostituzionalità sui rapporti non esauriti

Con   ordinanza 31.7.2023 RG. 470/2021 il Tribunale di Trieste , sezione specializzata immigrazione e asilo, ha accolto un ricorso proposto nel 2021 avverso un provvedimento con cui il Comune di Trieste ha iscritto all’anagrafe un richiedente asilo a far data dal 16.11.2020 e non, come richiesto, a far data dal 29.11.2019 allorquando in quell’occasione la richiesta era stata dichiarata irricevibile per effetto della previsione dell’art. 13, co. 1 lett. a) n. 2 d.l. n. 113/2018, secondo cui il permesso per richiesta asilo non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica. Dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale di detta disposizione del cd. 1^ decreto sicurezza 2018, di cui alla sentenza n. 186/2020 della Corte costituzionale, il richiedente asilo aveva ripresentato, attraverso ICS ente gestore della struttura di accoglienza in cui viveva, domanda di iscrizione anagrafica chiedendo che essa avvenisse a far data dalla prima richiesta del 2019, stante gli effetti retroattivi delle pronunce di incostituzionalità per i rapporti non esauriti. Istanza a cui il Comune aveva risposto negativamente, ritenendo esaurita la situazione sottesa alla domanda di iscrizione anagrafica del 2019, non potendo espletare ora per allora gli opportuni accertamenti amministrativi. Il Tribunale ricostruisce, sinteticamente, l’istituto dell’iscrizione anagrafica (dovere della persona che risponde all’interesse pubblico a conoscere le caratteristiche della popolazione che abita in un dato territorio, nel contempo diritto della persona che rappresenta presupposto per l’esercizio di altri diritti) evidenziando che essa non è una concessione della PA ma un diritto soggettivo, il cui accertamento è devoluto al giudice ordinario. Ricostruita, poi, la successione normativa intervenuta con riguardo all’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo e dato conto di due differenti orientamenti interpretativi circa la restrittiva riforma operata dal d.l. n. 113/2018 (i quali, pur partendo da medesimi presupposti che la qualificavano come discriminatoria e violante svariati diritti anche internazionali, si erano distinti tra coloro che ne hanno offerto un’interpretazione costituzionalmente orientata e coloro che, invece, hanno ritenuto necessario il rinvio alla Corte costituzionale), il Tribunale prende atto dell’intervenuta declaratoria di incostituzionalità che «ha quindi ripristinato l’assetto normativo previgente, producendo quel fenomeno conosciuto come “reviviscenza” in base al quale si considera l’ordinamento come se le norme dichiarate incostituzionali non fossero mai esistite e dunque non avessero avuto alcun tipo di effetto» e pertanto «ne consegue che – anche prima dell’introduzione del d.l. 130/2020 che ha disegnato nuovamente la disciplina in oggetto – il giudice era tenuto ad applicare le disposizioni del d.lgs. 142/2015 nella formulazione anteriore alla riforma del 2018 sopra riportata e ciò valeva sia pro futuro, ma anche nei casi che si erano verificati – come quello di specie – nel corso della vigenza dell’art. 13 d.l. 113/2018. Diversamente opinando, infatti, permarrebbe l’applicazione, a sfavore di alcuni soltanto, di una disciplina che, per effetto della sentenza sopra citata, non è, nella sostanza, mai esistita nel nostro ordinamento e produrrebbe come effetto proprio quella disparità di trattamento che la sentenza ha inteso eliminare.».

Secondo il Tribunale non è affatto esaurito il rapporto sottostante alla domanda di iscrizione anagrafica presentata nel 2019 dal richiedente asilo, sia perché il diritto soggettivo è accertabile dal giudice ordinario nel termine prescrizionale di 10 anni (art. 2946 c.c.) e pertanto il rapporto sottostante non può dirsi esaurito prima del decorso di tale termine. Inoltre, secondo l’ordinanza in rassegna, il giudice può accertare direttamente i requisiti per l’esercizio del diritto, trattandosi di giudizio sul rapporto e non sulla correttezza dell’azione amministrativa e poiché nel caso oggetto di giudizio è stato comprovato che il richiedente asilo è sempre stato presente sul territorio triestino dal novembre 2019 al novembre 2020 (informativa prodotta dalla prefettura di Trieste sulla permanenza nel sistema di accoglienza), irrilevante che nel periodo egli abbia cambiato alloggio, il Tribunale dichiara il suo diritto all’iscrizione anagrafica a far data dal 29 novembre 2019.

Iscrizione anagrafica - cancellazione per irreperibilità - accertamento di residenza ininterrotta 

La decisione di seguito rassegnata è di interesse perché delinea il giusto procedimento amministrativo in materia di iscrizioni e cancellazioni anagrafiche, evidenziando, per quest’ultima, l’obbligo per il Comune di eseguire ripetuti e intervallati sopralluoghi e di verificare se la presenza sul territorio comunale del già residente sia comprovata da altri elementi. È altresì importante perché la residenza anagrafica ininterrotta è condizione richiesta ai fini della presentazione della domanda di acquisto della cittadinanza.

Il   Tribunale di Monza, con ordinanza 23.12.2023 RG. 6993/2023  esamina un ricorso proposto da un cittadino straniero, regolarmente soggiornante, che il Comune di Sesto San Giovanni aveva cancellato dall’iscrizione nel Registro anagrafico nel periodo dal 6.3.2012 al 12.1.2017 e di cui l’interessato aveva avuto conoscenza solo il 21.9.2022 a seguito di comunicazione dell’Ente. Il Tribunale afferma, innanzitutto, la giurisdizione ordinaria, vertendosi in materia di diritto soggettivo all’iscrizione anagrafica in relazione al quale non vi è alcun potere discrezionale della PA (Cass. SU n. 449/2000 e SU n. 7637/2020) e ritiene correttamente convenuti in giudizio sia il Sindaco, in qualità di Ufficiale di governo, sia il Ministero dell’interno, titolare della funzione anagrafica e di stato civile. Nel merito, il Tribunale ricorda che la residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora, che esprime la volontà di abitare in un determinato luogo, senza che essa sia preclusa dal lavoro o da altre attività svolte fuori dal territorio comunale (Cass. n. 16525/2005 e n. 25726/2011) e, nel caso concreto, accerta la violazione, da parte del Comune, del procedimento per disporre la cancellazione anagrafica poiché «l’art. 11, comma I, lettera c) del d.p.r.. 223/1989 prevede che la cancellazione dall’Anagrafe possa avvenire solo quando a seguito di ripetuti accertamenti opportunamente intervallati, la persona è risultata irreperibile.». Da un lato, infatti, il ricorrente ha dimostrato di non essere mai stato irreperibile, in quanto ha continuato a ricevere la posta presso la sua abitazione (compresa una convocazione presso il Commissariato di polizia), le buste paga avevano il medesimo indirizzo, la scelta del medico è avvenuta nel Comune di Sesto San Giovanni, ecc., dall’altra il Comune non ha fornito la prova di avere inviato all’interessato l’avviso di cui all’art. 4 legge n. 1228/1954 e art. 11, co. 1 lett. c) d.p.r. 223/1989 propedeutici all’avvio del procedimento finalizzato alla cancellazione anagrafica. Dunque l’Ufficiale d’anagrafe non ha espletato i ripetuti accertamenti richiesti dalla normativa ai fini dell’accertamento dell’irreperibilità e conseguente cancellazione anagrafica: «l’accertamento dello stato di irreperibile e la conseguente adozione del provvedimento di cancellazione dall’Anagrafe richiedono che, al momento dei sopralluoghi, non solo l’interessato sia assente, ma anche che non venga rinvenuto alcun elemento da cui desumere la contraria volontà di quello di voler mantenere la sua residenza nel luogo in cui risultava formalmente residente. Applicando queste coordinate normative alla fattispecie in esame, si osserva che il provvedimento di cancellazione dall’Anagrafe della popolazione residente adottato dal Comune di Sesto San Giovanni appare illegittimo, non risultando emesso nel rispetto della procedura sopra delineata.». Il Tribunale, pertanto, disapplica il provvedimento amministrativo di cancellazione anagrafica del 2012 e dichiara che la residenza del ricorrente si è protratta ininterrottamente dal 6.3.2012 al 12.1.2017, ordinando al Comune l’annotazione nei Registri dello stato civile. 

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