- L’evento più recente in materia di migrazione e asilo, sotto il profilo internazionale, è rappresentato (se si escludono le conclusioni del G7 del giugno scorso, di cui si dirà brevemente oltre), dall’approvazione da parte del Consiglio dell’Unione europea (maggio 2024) del Patto sulla migrazione e l’asilo: un’approvazione “storica”, ad avviso di alcuni, un attentato o pregiudizio ai diritti fondamentali, all’asilo in particolare, secondo altri. Le prime domande da porsi sono (ad avviso di chi scrive) le seguenti: perché si fa riferimento a un “Patto”, cioè ad un accordo , e di quale tipo ? Perché definirlo “nuovo”, rispetto a quale altra iniziativa o risultato? Una procedura analoga era stata, invero, avviata nel passato (approccio globale in materia di migrazione, adottato dal Consiglio europeo nel 2005) e si era conclusa nel 2008, quando il Consiglio europeo, nell’ottobre di quell’anno, sulla base di una proposta dell’allora Presidenza francese dell’UE, adottò un “Patto”, che rappresenta dunque il precedente di quello del 2024. Già all’epoca, comunque, aveva destato una certa sorpresa il ricorso al termine “Patto”, non essendo questo un atto previsto dal diritto dell’Unione europea, né essendo riconducibile ad un accordo internazionale fra una pluralità di soggetti (gli Stati, le istituzioni, gli uni e gli altri). All’epoca, la sua proposizione da parte di uno Stato fondatore, poco dopo l’ultimo allargamento e prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che, l’anno seguente, avrebbe completato la sottoposizione alla procedura legislativa ordinaria delle competenze relative a frontiere, visti, immigrazione e asilo, sottraendole, in sostanza, al potere di “veto” dei singoli Stati membri (insito nel voto all’unanimità) fu considerata come un modo per assicurare il mantenimento di una visione od orientamento nazionale (o nazionalistico) sulle future “politiche comuni”: così condizionando i contenuti del successivo programma quinquennale di Stoccolma (2009-2014), e cercando di contemperare i diversi orientamenti di cui i nuovi Stati membri erano portatori, e ancor oggi (almeno per alcuni di essi) lo sono.
- Il contesto, quantomeno quello storico, in cui si colloca il Patto del 2024, presentato dalla Commissione fin dal settembre 2020, è un po’ diverso anche se le spinte nazionali (o nazionalistiche) non sono venute meno. Una “nuova” politica su migrazione e asilo aveva rappresentato uno dei pilastri del programma politico della Presidente della Commissione europea von der Leyen, fin dalla sua designazione. Nell’imminenza delle elezioni del P.E. e del rinnovo del mandato della Commissione, la Presidente aveva la forte esigenza di mostrare la realizzazione di un obiettivo importante, a conferma della propria credibilità politica. Questa c.d. seconda edizione è dunque nuova in tale senso, soprattutto perché si tratta di iniziativa non più nazionale, ma di iniziativa riconducibile al potere di iniziativa legislativa della Commissione europea. Insieme a una comunicazione Un nuovo patto sulla migrazione e l’asilo (COM[2020] 609 final del 23.9.2020) in cui venivano spiegate le ragioni della proposta di riforma, venivano illustrati gli elementi di novità e delineata l’articolazione della nuova strategia sottesa al Patto, erano stati presentati nove strumenti giuridici, di cui cinque erano proposte di regolamento, con l’intenzione di assicurare un’applicazione uniforme negli Stati membri, tipica del regolamento. La Commissione ha voluto mantenere la qualificazione di “Patto”, giustificando la continuità con la precedente iniziativa, e ricordando, se mai ce ne fosse bisogno, che la governance della gestione della migrazione e dell’asilo, specie con riguardo a un meccanismo di solidarietà effettiva, carente nel passato, che non poteva essere attuato e realizzarsi senza la volontà degli Stati: oggi più che mai responsabilizzati, sulla base degli atti adottati al fine di dare seguito a un impegno politico e giuridico ben preciso. Il gruppo di Stati appartenenti al c.d. Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) è sempre stato, ed è, per così dire, il meno sensibile al sistema comune europeo di asilo, come in epoca recente dimostra la condanna della Corte di giustizia nei confronti dell’Ungheria al pagamento di una pesante sanzione pecuniaria (sentenza del 13 giugno 2024 Commissione c. Ungheria, causa C-123/22, EU:C:2024:493) per non essersi conformata ad una propria precedente sentenza del 2020 in cui era stato constatato il mancato rispetto delle norme del diritto dell’Unione in materia, segnatamente, di procedure relative al riconoscimento della protezione internazionale e al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (la sanzione consiste in una somma forfettaria di duecento milioni di euro e un milione di euro per ogni giorno di ritardo). Proprio l’Ungheria ha la Presidenza dell’Unione dal 1° luglio e ha il compito (non senza perplessità da parte delle istituzioni, di altri Stati membri e di osservatori politici) di “guidare” la prima fase di attuazione del Patto: la Commissione ha già presentato, in giugno, il piano comune di attuazione che dovrebbe servire da modello per i piani nazionali di attuazione, in vista della applicazione delle nuove norme a decorrere dal 12 giugno 2026, due anni dopo, cioè, l’entrata in vigore degli atti, di cui si dirà oltre.
La Presidenza successiva sarà della Polonia, appartenente al medesimo Gruppo di Stati, ostile in particolare ai meccanismi di solidarietà obbligatoria fra tutti gli Stati membri; poi toccherà alla Danimarca che, invero, non partecipa alle misure in materia di spazio di libertà, sicurezza e giustizia (parte terza, titolo V del TFUE) in virtù del protocollo n. 22 “nella posizione della Danimarca”, allegato ai Trattati.
- Le perplessità sono ancora maggiori se si considera che ben dieci sono gli strumenti che compongono il Patto, pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 22 maggio 2024, e dunque in vigore dall’11 giugno, ma applicabili dal 12 giugno 2026 (tranne uno, il regolamento 2024/1350 sul quadro per il reinsediamento e l’ammissione umanitaria subito applicabile, dall’11 giugno 2024). Oltre ai cinque regolamenti presentati formalmente nell’ambito del Patto, il pacchetto include: a) il (nuovo) regolamento c.d. qualifiche (1347); la direttiva (1346) rivista, sulle condizioni di accoglienza; il regolamento, appena ricordato (1350) che definisce un quadro europeo per il reinsediamento e l’ammissione umanitaria (tutti già proposti nel 2016). Alcuni testi sono stati “frazionati” dando origine ad un regolamento (1349) che stabilisce una procedura di rimpatrio alla frontiera, da applicare ai cittadini di Paesi terzi e agli apolidi la cui domanda è stata respinta nel contesto della procedura comune di protezione internazionale disciplinata nel (nuovo) regolamento c.d. procedura (1348, acronimo ARP); a due regolamenti relativi agli accertamenti alle frontiere esterne (screening, 1356 e 1352 che è complementare al precedente). Altri regolamenti riguardano la gestione dell’asilo e della migrazione (1351, acronimo RAMM, che sostituisce, in sostanza, il regolamento Dublino III); le situazioni di crisi e forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo (1359, che ha significativamente incorporato le ipotesi di strumentalizzazione dei migranti, originariamente contenute in un’apposita proposta presentata dalla Commissione nel dicembre 2021, nel contesto della situazione verificatasi alle frontiere orientali dell’Unione europea con la Bielorussia); la banca dati Eurodac (nuova versione, 1358). La prevalenza è, dunque, di atti adottati con regolamento, anche se il carattere tipico della vincolatività diretta delle norme, senza necessità (in linea di principio) di misure di applicazione, è talora “affievolita” dal contenuto generico delle stesse o dalle opzioni lasciate agli Stati.
Il “pacchetto” è assai complesso, e in modo particolare lo è il regolamento RAMM, che ha ad oggetto, come si è detto, la gestione dell’immigrazione e asilo e, dunque, uno dei temi chiave della campagna elettorale e dei programmi dei diversi gruppi politici europei che si sono presentati alle elezioni svoltesi nel giugno scorso. La circostanza ha influenzato la redazione e contenuto del regolamento. Il dibattito politico è stato intenso, con riguardo sia alle proposte di inasprire controlli e sanzioni, sia alle proposte di consentire la valutazione, al di fuori dell’Unione, della maggior parte delle domande di protezione internazionale, evocando processi di esternalizzazione ed, implicitamente, il “modello Rwanda” adottato nel Regno Unito. Le criticità di tali processi sono, invero, esaminate in questo numero della Rivista, anche con riferimento alle esperienze australiane, da D. Camoni e P. Pannia, Tutelare i diritti oltre i confini: il ruolo dei giudici di fronte alle politiche statali di controllo dell’immigrazione. Un approccio comparatista, utile a comprendere anche le luci e le ombre del Protocollo Italia-Albania («per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria, nonché norme di coordinamento con l’ordinamento interno») di cui alla legge di ratifica ed esecuzione 21.2.2024, n. 14. L’accesso all’asilo, altro tema oggetto di attenzione e “tensione”, può venire ristretto anche in virtù dell’inserimento del Paese di origine nella lista dei c.d. Paesi sicuri, poiché tale inclusione può condizionare profondamente sia la fase amministrativa, sia l’eventuale ricorso giurisdizionale nel procedimento avente ad oggetto il riconoscimento della protezione internazionale (limiti alla difesa dei propri diritti in particolare): il tema è oggetto di un altro contributo, pubblicato nella Rivista, di C. Cudia, Sindacabilità e disapplicazione del decreto ministeriale di individuazione dei «Paesi di origine sicuri» nel procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale: osservazioni su una attività del giudice ordinario costituzionalmente necessaria. Viene esaminato il d.m. 7.5.2024 che ha aggiornato, ampliandola, la lista dei Paesi di origine sicuri e, considerati i limiti esterni e interni della giurisdizione ordinaria nelle controversie che coinvolgono l’amministrazione, viene prospettato il ricorso al meccanismo della disapplicazione da parte del giudice ordinario, soprattutto in relazione agli artt. 24 e 113 della Costituzione.
- Il tema della protezione internazionale è prevalente nel Patto rispetto a quello della migrazione (per così dire) ordinaria o legale. La migrazione, ovvero le condizioni di ingresso e soggiorno degli stranieri che non chiedono la protezione internazionale, appariva già marginale nella comunicazione del 2020 della Commissione prima ricordata, da cui, poi, sono originate le iniziative di proposta degli strumenti componenti il pacchetto. L’attenzione, in un paragrafo intitolato «Attirare competenze e talenti nell’UE», per la migrazione legale privilegia quella particolarmente qualificata, riconoscendo peraltro che si «potrebbe fare di più» e che il sistema di migrazione legale «presenta una serie di carenze intrinseche» che richiederebbero, comunque, nuove norme. Non si può, d’altra parte, dimenticare che la regolazione dei flussi di immigrazione per motivi di lavoro è competenza esclusiva degli Stati e che l’art. 79, par. 3 TFUE espressamente prevede che il volume di ingresso di cittadini di Paesi terzi «allo scopo di cercarvi un lavoro subordinato o autonomo» è determinato dagli Stati, pur essendo “concorrenti” la competenza dell’Unione in materia di immigrazione (artt. 4, par. 2 e 79, par. 1 TFUE). Ai profili dell’immigrazione, con riguardo a un Paese dell’Unione che è stato (e continua ad essere) Paese di immigrazione, è dedicato, in questo numero della Rivista, il contributo di R. Lehner, Labour migration law and employment access for migrants in Germany: General principles and new developments. Si sottolinea come, dopo un’importante riforma adottata nel 2019, una successiva modifica nel 2023 abbia avuto quale conseguenza una liberalizzazione e una flessibilità assai marcate quanto all’immigrazione qualificata, mentre appare restrittiva la disciplina sui lavoratori non (o scarsamente) qualificati e sui richiedenti asilo che chiedono un permesso di soggiorno per motivi di lavoro dopo che la loro domanda di asilo è stata respinta (pur sottolineando, l’autore, alcuni nuovi, positivi sviluppi nel più recente orientamento).
- La migrazione ordinaria, insomma, meriterebbe maggiore attenzione, pure essendo significativi i progressi compiuti in alcuni settori, come quello della c.d. carta blu (direttiva 2021/1883) e quello della direttiva sul permesso unico (recente direttiva 2024/1233, non compresa nel “pacchetto”), ma non quello relativo ai soggiornanti di lungo periodo, ove una riforma (un negoziato per la modifica è in corso) ha incontrato difficoltà di realizzazione, specie con riguardo alla possibile riduzione del tempo minimo per l’accesso allo status (rispetto agli attuali cinque anni di soggiorno legale e ininterrotto) e al possibile cumulo di periodi di soggiorno in diversi Stati europei, nell’intento di facilitare la circolazione dei cittadini di Paesi terzi. Queste ultime due direttive contengono una clausola di parità di trattamento con i cittadini degli Stati membri, che include, fra l’altro, anche le procedure per ottenere l’accesso all’edilizia residenziale pubblica. In un contributo, pubblicato in questo numero della Rivista, di F. Santarsero, Diseguaglianze intorno all’accesso all’edilizia residenziale pubblica vengono esaminate le differenze fondate sulla cittadinanza che, tuttora, permangono, in un determinato contesto.
- A conferma della varietà di profili che immigrazione e asilo presentano, e della rilevanza della giurisprudenza della Corte di giustizia nell’interpretare ed applicare il diritto dell’Unione, la lettura del commento ( qui pubblicato ) di L. Stamme alla sentenza della Corte di giustizia del 16 gennaio 2024 nella causa C-621/21 (WS c. Intervyuirasht organ na Darzhavna agentsia za bezhantsite pri Ministerskia savet, EU:C:2024:47) è di sicura utilità, anche perché aiuta a comprendere la conoscenza di un fenomeno che i media trattano spesso con enfasi, ma senza approfondimento. La Corte ha riconosciuto la violenza sulle donne come forma di persecuzione contro un determinato «gruppo sociale». La violenza di genere, come è noto, è fenomeno crescente e diffuso e le donne possono configurarsi come «gruppo sociale» meritevole di protezione internazionale (dagli atti di causa –cioè dalle osservazioni presentate dalle parti – emerge che era stata invece sostenuta la tesi secondo cui non può «essere concesso lo status di rifugiato a tutte le donne vittime di violenze domestiche, in quanto si tratta di un problema comune a tutti gli Stati»; in questi termini le conclusioni dell’avvocato generale de la Tour, EU:C:2023:314, punto 3). La stessa tendenza, in epoca più recente, è confermata dalla sentenza della Corte (11 giugno 2024, causa C-646/21, K, L c. Staatssecretaris van Justitie an Veiligheid, EU:C:2024:487), ove si afferma che le donne (comprese le minori) che condividono come caratteristica comune l’effettiva identificazione nel valore fondamentale della parità tra donne e uomini, maturata nel corso di un soggiorno in uno Stato membro, possono essere considerate (a seconda delle condizioni esistenti nel Paese d’origine) come appartenenti a un «determinato gruppo sociale», in quanto «motivo di persecuzione» idoneo a condurre al riconoscimento dello status di rifugiato. L’apertura della Corte a favore di tale riconoscimento, insomma, è di sicuro rilievo, non solo a livello europeo, ma internazionale.
- Il Patto offre l’occasione, pur tra le molte critiche, di approfondire un tema, questo sì “storico”: non lo è il Patto in sé, malgrado le affermazioni in tal senso, poiché molti sono i problemi che restano irrisolti. Le voci critiche (anche in campo accademico) hanno posto in luce a) un orientamento restrittivo del nuovo sistema nei confronti dei cittadini dei Paesi terzi, volto a prevenire, o comunque a disincentivare, l’ingresso sul territorio dell’Unione europea, rafforzando i controlli e favorendo il ricorso a procedure semplificate, quali le procedure di frontiera accelerate e l’introduzione della «finzione di non ingresso» (una sorta di limbo territoriale in cui vengono collocati gli stranieri, che ne escluderebbe la presenza, appunto, sul territorio di un Paese membro, in attesa dello svolgimento delle procedure di controllo); b) una certa indeterminatezza nelle definizioni che introducono deroghe alle procedure ordinarie (per esempio in caso di crisi e di forza maggiore); c) una previsione di solidarietà obbligatoria fra gli Stati quanto alla disponibilità a offrire protezione internazionale, ma lasciando agli stessi la possibilità di scegliere la forma (e comunque limitando a trentamila, ogni anno, il numero dei ricollocamenti, a fronte di oltre duecentocinquantamila arrivi irregolari nel 2023). Anche la compressione dei diritti fondamentali della persona, pur richiamati negli strumenti che andranno a incidere sulla tutela di tali diritti, ha suscitato critiche e, comunque, perplessità, in considerazione della necessità, indiscutibile, di meglio gestire anche a livello giuridico la migrazione, ma senza far venire meno o affievolire i diritti fondamentali della persona, specie se questa è soggetto debole o vulnerabile. Le sollecitazioni di varie associazioni e componenti della società civile a che il Parlamento europeo si esprimesse in senso contrario all’approvazione dei dieci strumenti che compongono il Patto non ebbero successo: ma hanno lasciato il segno, rafforzando la critica al disegno complessivo e sottolineando le non poche incertezze che accompagneranno l’attuazione del Patto nei prossimi due anni. Nel 2026 si dovrà anche valutare l’esito della proroga che la Commissione ha recentemente annunciato (proposta di decisione di esecuzione dell’11 giugno 2024, COM[2024] 253 final) di voler introdurre, per quanto riguarda la protezione temporanea dei profughi ucraini, disposta in virtù della direttiva 2001/53, che non era stata mai attuata fino alla crisi ucraina. Una crisi che ha visto “uscire” dal proprio Paese alcuni milioni di persone: oggi sarebbero oltre quattro milioni le persone in attesa di rientro in Patria. Il predetto strumento giuridico è, ad avviso della Commissione, coerente con quelli contenuti nel Patto, e non ha subito modifiche, anche se la facoltà di proroga (nella fattispecie reiterata) in situazioni definite eccezionali avrebbe meritato (e meriterebbe) una migliore definizione e giustificazione, proprio in considerazione del regime eccezionale posto a base dell’adozione e della reiterazione.
- Il «laboratorio migrazione» e asilo richiederà un impegno costante di chi segue questi temi e il contributo della Rivista è essenziale per poter disporre di una guida affidabile e sicura. Il forum intergovernativo dei sette Paesi di rilevante peso politico, economico, industriale e militare denominato G7, riunitosi il 13-15 giugno in Puglia (si veda il «Comunicato» finale «dei leader del G7 pugliese»), dopo aver sottolineato nel preambolo a) di voler «Affermare il nostro impegno collettivo e una cooperazione rafforzata per affrontare la migrazione, affrontare le sfide e cogliere le opportunità che essa presenta, in partenariato con i Paesi di origine e di transito», nonché b) la necessità di concentrarsi «sulle cause profonde della migrazione irregolare, sugli sforzi per migliorare la gestione delle frontiere e frenare la criminalità organizzata transnazionale e sui percorsi sicuri e regolari per la migrazione», proponendo quindi di lanciare una «Coalizione del G7 per prevenire e contrastare il traffico dei migranti», dedica un ampio paragrafo alla «Migrazione». Vengono individuati tre «approcci» o «pilastri», che riguardano: le cause profonde della migrazione irregolare e degli sfollamenti forzati; la necessità di prevenire e affrontare la migrazione irregolare, nonché contrastare le attività che la facilitano; l’importanza di realizzare percorsi sicuri e regolari per migranti e rifugiati come parte integrante di strategie globali. Al di là degli impegni di carattere complessivo e politico, anche (volutamente) generici e indeterminati, rileva il fermo richiamo agli obblighi di diritto internazionale, ai Trattati internazionali (fra questi la Convenzione di Ginevra sui rifugiati), al diritto umanitario, più precisamente al «diritto internazionale sui diritti umani», alla Dichiarazione universale dei diritti umani e ai principi generali del diritto internazionale, quale il divieto di refoulement. Riferimenti vincolanti: auspicabilmente non di stile, che vale la pena tenere sempre presenti.