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Fascicolo 2, Luglio 2024


«Il volontariato, nelle sue diverse forme, è un orgoglio del nostro Paese. Trasmette energia preziosa. I valori che esprime sono parte della cultura e della stessa identità del nostro popolo. Questo è il carattere dell’Italia, ampiamente diffuso nella concreta vita quotidiana, ed è quel che la rende, in conformità alla sua storia, un Paese di grande civiltà.

Contro questa grande civiltà stridono - gravi ed estranei - episodi e comportamenti come quello avvenuto tre giorni fa, quando il giovane Satnam Singh, lavoratore immigrato, è morto, vedendosi rifiutati soccorso e assistenza dopo l’ennesimo incidente sul lavoro.

Una forma di lavoro che si manifesta con caratteri disumani e che rientra in un fenomeno - che affiora non di rado - di sfruttamento del lavoro dei più deboli e indifesi, con modalità e condizioni illegali e crudeli.

Fenomeno che, con rigore e con fermezza, va ovunque contrastato, totalmente eliminato e sanzionato, evitando di fornire l’erronea e inaccettabile impressione che venga tollerato ignorandolo».

Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica, 22.6.24

Cittadinanza e apolidia

Ferma restando l’immancabile presenza di una fitta serie di provvedimenti del giudice amministrativo sull’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione, nel presente quadrimestre (gennaio-aprile 2024, con qualche pronuncia risalente al quadrimestre precedente) sono state pubblicate alcune decisioni su aspetti piuttosto inusuali, specialmente in tema di acquisto e addirittura di perdita della cittadinanza collegati a status familiari, relativi soprattutto alla filiazione, ma anche al matrimonio. Sempre ispirate dal favore nei confronti dei richiedenti appaiono le decisioni relative all’acquisto della cittadinanza per elezione, ma non mancano neppure sentenze del massimo organo di giustizia amministrativa che si orientano in senso analogo.

 

Riconoscimento della cittadinanza per discendenza da avo italiano

a) Discendenti da cittadini italiani emigrati in Brasile; loro residenza in Brasile; nuove norme sulla individuazione del giudice italiano competente per territorio. b) Discendenti da cittadini italiani emigrati in Brasile; potere esclusivo del giudice di chiedere informazioni sul loro status alle autorità consolari italiane competenti

All’interno di questo ormai inesauribile filone giurisprudenziale sembra opportuno segnalare una pronuncia del giudice di merito, il quale, prima di compiere la consueta indagine sulla mancanza di interruzione nella linea di trasmissione della cittadinanza italiana (anche in questa occasione relativa ad un avo emigrato in Brasile), richiama le nuove norme processuali sulla competenza territoriale nel caso di ricorrenti residenti all’estero. Viene così applicato l’art. 1, co. 36 della legge di riforma del processo civile n. 206 del 26.11.2021, il quale, integrando l’art. 4, co. 5, secondo periodo del d.l. 17.2. 2017, n. 13, ha statuito che, in caso di residenza all’estero dell’attore, le controversie di accertamento dello stato di cittadinanza italiana sono assegnate avendo riguardo al Comune di nascita del padre, della madre o dell’avo cittadini italiani ( Trib. Potenza, sent. 22.2.2024, n. 308, in Banca dati One Legale ).

Occorre inoltre menzionare una ulteriore pronuncia del Tribunale di Brescia, il quale ha modo di riprendere il suo orientamento (già in precedenza riportato) sul potere spettante al giudice, e non al Ministero dell’interno che da parte sua condivide tale assunto, di chiedere informazioni all’autorità consolare italiana competente in territorio brasiliano circa la mancata rinuncia dell’avo alla cittadinanza italiana. L’esito negativo di tale indagine, relativa a un gruppo di cittadini di quello Stato, emerge al termine di una ampia disamina sulla evoluzione nel tempo della disciplina relativa al criterio dello ius sanguinis e sulla incidenza della giurisprudenza costituzionale e di legittimità ( Trib. Brescia, ord. 3.1.2024 ).

 

Acquisto e perdita della cittadinanza per filiazione

a-b) Perdita della cittadinanza da parte del figlio minorenne conseguente alla perdita volontaria della medesima da parte del genitore; onere della prova. c) Elezione della cittadinanza italiana da parte del figlio a seguito di riconoscimento della filiazione durante la maggiore età; decorrenza degli effetti

Talvolta la catena genealogica dei cittadini italiani, utile per rivendicare il possesso della cittadinanza italiana da parte dei discendenti, può risultare interrotta a causa dell’acquisto volontario, da parte dell’avo, della cittadinanza dello Stato in cui era emigrato e dove aveva continuato a risiedere. In parziale analogia con una fattispecie precedentemente esaminata (Cass., n. 17161/2023, in questa Rassegna, fasc. 2.2023), il Supremo Collegio ha dovuto affrontare nuovamente il caso di un discendente da un cittadino statunitense iure soli, il quale aveva perso la cittadinanza italiana durante la minore età in conseguenza appunto della rinuncia da parte del proprio genitore allo status civitatis italiano derivante dall’acquisto volontario di quello statunitense.

Poiché tali eventi si erano verificati nel 1910 risultavano applicabili le norme del c.c. 1865, in particolare l’art. 11, rispetto al quale il ricorrente sosteneva tuttavia (con una certa spregiudicatezza di argomentazioni) la necessità di una sua interpretazione “autentica” alla luce dell’art. 7 della l. n. 555/1912, sostenendo che la norma del 1865 non poteva incidere sulla situazione di chi era già “straniero” fin dalla nascita iure soli. Si tratta di una tesi destituita di fondamento, dato che anche nella legge del 1912 era prevista l’estensione della perdita della cittadinanza dal genitore ai figli (…e alla moglie) conviventi mediante una norma (l’art. 12) avente un oggetto distinto e incommensurabile con quello dell’art. 7.

La Corte di cassazione giunge a questa conclusione con una pronuncia assai ampia e dettagliata, la quale si ispira dichiaratamente ai canoni interpretativi enunciati nei due leading cases delle Sezioni Unite n. 25317 e n. 25318 del 24.08.2022 (v. questa Rassegna, n. 2.2022). Anzitutto, viene respinta la richiesta di un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea evocando, proprio alla luce della giurisprudenza di quest’ultima, sia il principio relativo alla competenza degli Stati in materia sia quello sulla ragionevolezza di talune norme indirizzate al mantenimento, entro certi limiti, dell’unità familiare in questo campo. 

Successivamente si dipana un lungo ragionamento sulla già ricordata incommensurabilità tra le due norme sopra citate e sulla differenza tra bipolidia di fatto, contemplata dal sistema del 1865, e bipolidia di diritto, presente invece in quello del 1912. Viene posto l’accento, da un lato, sulla necessaria, dunque consapevole volontarietà dell’acquisto di una cittadinanza straniera da parte di un individuo maggiorenne; e, dall’altro, sull’automaticità delle conseguenze relative al figlio minorenne, sempre sul presupposto che acquisti il medesimo status del genitore in base alla legge estera, con la conseguente tutela dall’apolidia se così non fosse. Tuttavia, viene anche sottolineata, a favore del minorenne, la possibilità di un riacquisto della cittadinanza italiana una volta raggiunta la maggiore età, espressamente prevista fin dal c.c. del 1865 per i figli così “deprivati” sottolineando, anche sotto tale profilo, una certa ragionevolezza dei due sistemi normativi ( Cass., ord. 8.1.2024, n. 454 ). Non si può fare a meno di ricordare, a chiusura di questi rilievi, che la attuale l. n. 91/1992 non prevede più la suddetta estensione della perdita della cittadinanza italiana, ma solo quella relativa al suo acquisto, collegato a quello da parte del genitore straniero.

Questa netta (e ineccepibile) presa di posizione viene ribadita dalla Suprema Corte in una pronuncia di poco successiva originata da un ricorso di contenuto analogo a quello alla base della decisione testé esaminata. Anche in tale occasione veniva in rilievo la presunta involontarietà dell’avo nell’acquisto della cittadinanza dello Stato straniero di residenza. E inesorabilmente anche questa decisione insiste sul c.d. effetto trascinante rispetto ai figli minori conviventi derivante dalla perdita volontaria della cittadinanza italiana da parte del padre; ma il Supremo Collegio altrettanto egualmente insiste sul mancato esercizio della facoltà di riacquisto della medesima da parte di questi ultimi. Tutto ciò risulta ancora più nettamente dal documento consolare contenente anche in questo caso la rinuncia alla cittadinanza italiana; esso infatti, a differenza di quanto sostenuto nel ricorso, vale a testimoniare il pregresso acquisto volontario dello status civitatis straniero. 

Infine, a confutazione del motivo di gravame concernente l’onere della prova del fatto estintivo della cittadinanza a carico di chi si oppone a tale risultato, la Corte enuncia ancora una volta con chiarezza che a chi chiede il riconoscimento della cittadinanza spetta di provare solo il fatto acquisitivo e la linea di trasmissione, mentre incombe alla controparte, che ne abbia fatto eccezione, la prova dell’eventuale fattispecie interruttiva. Risulta perciò sufficiente che chi rivendica la cittadinanza italiana per discendenza dia prova di avere un avo cittadino italiano; tuttavia, l’onere della prova può ritenersi assolto soltanto quando gli elementi offerti dal soggetto onerato consentano una conclusione univoca ( Cass., 8.2.2024, n. 3564, in Banca dati De Jure ).

Di contenuto ben diverso appare una controversia sottoposta anch’essa ai giudici di legittimità. Si trattava infatti, a quanto si deduce dal testo oscurato della sentenza di un genitore che aveva manifestato la volontà di “eleggere” la cittadinanza italiana ai sensi dell’art. 2, co. 2, della l. n. 91/1992 a seguito dell’avvenuto suo riconoscimento come figlio naturale durante la maggiore età da parte appunto di un cittadino italiano. Il suo status si era esteso, a sua volta, ai figli minorenni al momento della sua manifestazione di volontà ex art. 14. Tuttavia, una figlia all’epoca già maggiorenne rivendicava la cittadinanza italiana sostenendo che gli effetti della suddetta manifestazione di volontà dovevano retroagire ex tunc, ovvero sin dalla nascita del neo cittadino.

Censurando le opposte conclusioni cui erano giunti entrambi i giudici di merito, la Corte di cassazione condivide inopinatamente questo motivo di ricorso ravvisando per di più nelle questioni di diritto proposte dai ricorrenti un interesse nomofilattico trascendente la singola controversia. Le ragioni di questa orientamento, muovendo ovviamente dal silenzio della norma al riguardo, fanno perno, da un lato, sulla lettera dell’art. 1 della legge il quale statuirebbe l’acquisto della cittadinanza iure sanguinis senza distinguere tra figli minorenni e maggiorenni; dall’altro, sul principio costituzionale della parificazione tra figli naturali e figli nati da un matrimonio, ormai pienamente attuato nel nostro ordinamento. Da tutto ciò deriva inevitabilmente un nuovo principio di diritto secondo il quale la dichiarazione di elezione di cittadinanza da parte del figlio maggiorenne riconosciuto produce effetti retroattivi sin dal momento della nascita del dichiarante ( Cass., 1.3.2024, n. 5518 ).

Stupisce, ad avviso di chi scrive, la mancata visione interpretativa della legge sulla cittadinanza nel suo complesso. Anzitutto, la norma dell’art. 1, quale norma fondamentale del sistema, non può che essere riservata all’acquisto della cittadinanza al momento della nascita. In secondo luogo, la legge è già costituzionalmente orientata dato che non distingue in tale momento tra figli nati all’interno o fuori dal matrimonio e non distingue successivamente tra figli riconoscibili e non riconoscibili. Ma soprattutto rileva, come anticipato, uno sguardo d’insieme della legge stessa la quale assegna effetti ex nunc a tutte le dichiarazioni di volontà di acquisto della cittadinanza, le quali non possono che essere compiute da individui maggiorenni. La necessità di una equiparazione tra i discendenti dei figli naturali riconosciuti o dichiarati e i discendenti dei figli c.d. legittimi è argomento valido nel campo del diritto civile ma estraneo al sistema delle norme sulla cittadinanza.

 

Acquisto della cittadinanza per elezione

a) Individuo nato e residente anagraficamente con continuità in Italia; irrilevanza del periodo di residenza effettiva all’estero per una decina d’anni a causa di motivi scolastici. b) Individuo nato e residente dalla nascita in Italia; irrilevanza delle mancate attestazioni anagrafiche

Emergono in questo periodo due richieste al Tribunale di Roma ai fini della soluzione di casi controversi riguardo al requisito della residenza continua in Italia, previsto, unitamente a quello della nascita nel nostro Stato e della dichiarazione di volontà diretta all’attribuzione della cittadinanza, dall’art. 4, c. 2, della l. n. 91/92.

Il primo di tali casi riguardava una cittadina straniera nata in Italia e iscritta ininterrottamente dall’età di tre anni all’anagrafe del Comune in cui risiedeva con la famiglia. Risultavano tuttavia altresì documentati i viaggi e le lunghe permanenze per motivi di studio nelle Filippine, Paese di origine dei genitori, protrattisi per una decina d’anni durante i quali la residenza effettiva ben poteva individuarsi in quello Stato, dato che l’interessata ritornava in Italia solo durante le vacanze estive. Tutto ciò non ha scalfito però il giudizio positivo del giudice sulla residenza dell’istante in Italia ai fini dell’applicazione della norma sulla cittadinanza sopra citata. 

Appare tuttavia ultroneo il primo argomento, fondato sulla continuità della residenza anagrafica, sia pure solo formale, della ricorrente. Nel caso in esame, come in tutti gli altri di residenza contestata, attinenti all’applicazione del già citato co. 2 dell’art. 4, il principio dell’effettività primeggia sul dato formale. Rileva piuttosto il ruolo predominante assegnato alla volontà dell’interessata di considerare comunque l’Italia come il centro dei propri interessi, manifestata dal ristabilimento duraturo della sua residenza in un nucleo familiare già ben radicato sul nostro territorio ( Trib. Roma, ord. 15.1.2024 ).

Nella stessa scia si inscrive, come anticipato, una seconda pronuncia dei giudici romani, chiamati a valutare l’incidenza delle mancate attestazioni anagrafiche e della carenza del titolo di soggiorno ai fini dell’acquisto della cittadinanza per elezione. Dopo avere ancora una volta estromesso dal giudizio il Comune, e dopo aver ripercorso le fasi della evoluzione interpretativa e soprattutto normativa della norma in esame, il Tribunale non può che dichiarare l’irrilevanza della carenza dei documenti suddetti a fronte del materiale probatorio addotto dall’attore per dimostrare la propria nascita e permanenza ininterrotta in Italia sino al compimento del diciottesimo anno di età ( Trib. Roma, ord. 24.4.2024 ).

 

Acquisto della cittadinanza per matrimonio

a) Requisito della residenza in Italia da parte del coniuge richiedente la cittadinanza; irrilevanza di successivi spostamenti all’estero. b) Computo dei termini per il coniuge residente all’estero e irrilevanza della separazione di fatto. c) Momento rilevante per l’esame della domanda del coniuge straniero di un neo-cittadino. d) Estraneità della sentenza di patteggiamento rispetto ai motivi ostativi. e) Dispensa dalla produzione di documenti a favore del rifugiato. f) Rimessione alle Sezioni Unite di un conflitto di giurisdizione

Sempre riguardo al requisito della residenza in Italia, richiesto anche al coniuge straniero del cittadino italiano ma nella misura di due anni dalla data del matrimonio, era stata dichiarata inammissibile la domanda di una cittadina straniera sulla base di un rapporto informativo di un commissariato, confermato dalla questura, da cui emergeva che la medesima, una volta trascorsi i due anni suddetti, si fosse traferita in Francia, ad onta delle risultanze anagrafiche sulla residenza sua e dei figli in Italia. Dal canto suo, il giudice ordinario competente disattende questo rifiuto accogliendo il ricorso dell’attrice. Il Tribunale fonda il suo convincimento su tre constatazioni: anzitutto, la ininterrotta iscrizione anagrafica presso un Comune italiano, accompagnata da un permesso di soggiorno permanente per motivi familiari dell’interessata e da altre testimonianze sulla sua residenza in Italia; in secondo luogo, le giustificate assenze dal territorio italiano per raggiungere il marito trasferitosi per lavoro in Francia, segno del perdurare di una maritalis affectio e della conseguente esclusione di una separazione di fatto (da ricordare qui peraltro la sua irrilevanza secondo una costante giurisprudenza); infine la riunificazione definitiva di tutta la famiglia in Italia a seguito del ritorno del coniuge italiano. Mediante questa estensione interpretativa del rigido dettato dell’art. 5, il quale prevede la residenza ininterrotta del coniuge straniero in Italia sino al momento dell’avvenuto acquisto della cittadinanza, viene riconosciuto alla ricorrente «il diritto ad ottenere la concessione della cittadinanza per matrimonio… in assenza di eventuali ulteriori motivi ostativi non emersi in questo giudizio»: una formulazione che deve essere ritenuta assai corretta ( Trib. Ancona, sent. 20.3.2024 ).

La residenza all’estero della coniuge istante è stata esaminata, sotto un ben differente profilo, anche da parte di un altro giudice di merito. L’azione intentata contro il Ministero traeva origine da un’altra – frettolosa – dichiarazione di inammissibilità della domanda, motivata dal mancato raggiungimento dei due anni di residenza in Italia da parte della moglie straniera di un cittadino italiano. In realtà, come l’interessata aveva modo di dimostrare, era stato invece completato il periodo di tre anni dal matrimonio, ridotto a un anno e mezzo in presenza di figli, a causa della pregressa residenza all’estero della coppia, così come previsto dall’art. 5 della l. n. 91/1992. A tale proposito, il Ministero dell’interno aveva eccepito, oltre a pretesi vizi di forma dell’istanza, che nel periodo di matrimonio trascorso all’estero (ovvero, in Tunisia), valido ai fini della richiesta di cittadinanza, i coniugi non vivevano insieme dato che il marito si era trasferito a lavorare in Italia. Il Tribunale respinge seccamente tale prospettazione limitandosi a osservare che il requisito della convivenza non è previsto dalla norma testé ricordata e accoglie la domanda dell’attrice ( Trib. Firenze, ord. 24.4.2024 ).

È stata invece respinta una richiesta presentata dal coniuge straniero di una discendente da avo italiano dichiarata anch’essa italiana in una pronuncia già ricordata all’inizio. Il giudice, dopo aver accertato la propria competenza in materia, ha correttamente escluso il proprio potere di decidere al riguardo fino al momento del passaggio in giudicato del proprio provvedimento appena adottato (Trib. Brescia, ord. 3.1.2024). 

Riguardo alle controversie di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria, sembra opportuno richiamare, per motivi di completezza, anche una poco più risalente sentenza nella quale la Corte di cassazione si pronuncia ancora sull’istituto del c.d. patteggiamento. Si controverteva in particolare sulla esistenza a carico del richiedente di una sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 445 c.p.p. per il reato di contrabbando di tabacchi; tale precedente non era stato menzionato dall'interessato nell’istanza per l’attribuzione della cittadinanza iure matrimonii

Di fronte alle posizioni divergenti mostrate dai giudici di primo e secondo grado relative alla rilevanza di tale istituto penale ai fini del motivo ostativo contemplato dall’art. 6, co.1, lett. b) della legge sulla cittadinanza, la Corte dichiara che, pur non dubitando sulla equiparazione della sentenza di patteggiamento ad una sentenza di condanna, come affermato espressamente all’art. 445 c.p.p., al tempo stesso la stessa norma afferma che la sentenza prevista dall’art. 444 c.p.p. non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Ciò significa che essa non vale ad affermare con efficacia di giudicato la responsabilità per il fatto nel giudizio civile o amministrativo, pur se, secondo una giurisprudenza sviluppatasi con riferimento al testo normativo previgente alla riforma operata dal d.lgs. n. 150/2022, essa costituiva un elemento di prova per il giudice di merito. In conclusione, di fronte ai due motivi ostativi previsti dall’art. 6, co. 1, lett. a) e b), le cui sentenze di condanna ivi contemplate impediscono appunto l’acquisto della cittadinanza per matrimonio, la Cassazione esclude che la sentenza derivante da patteggiamento possa produrre un effetto preclusivo all’acquisto suddetto, anche alla luce di una esauriente ricognizione delle precedenti sentenze su tale problema ( Cass., 13.12.2023, n. 34992, in Banca dati De Jure ).

Non sono mancate infine in questa materia due decisioni rese dai tribunali amministrativi. Anzitutto il Tar delle Marche è stato chiamato, come è già avvenuto per altri giudici di altre sedi o distretti, a pronunciarsi sulla dispensa, a favore del rifugiato, dall’esibizione del certificato penale dello Stato di origine essendo quest’ultimo nella condizione di non poterlo chiedere neppure alla propria Ambasciata in Roma, come pure curiosamente suggerito dall’autorità consolare italiana accreditata in quel Paese (Tar Marche, sez. II, sent. 24.1.2024, n. 72).

Dall’altro lato, un altro giudice amministrativo ha deciso di sollevare d’ufficio un conflitto di giurisdizione dinnanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione in relazione ad una precedente ordinanza con la quale l’autorità giudiziaria ordinaria aveva demandato al giudice amministrativo la valutazione della situazione del cittadino straniero istante derubricandola per così dire a un caso di interesse legittimo. Viceversa, a parere del giudice amministrativo estensore della presente sentenza, si trattava (come del resto appare da tempo pacifico) di una ipotesi di diritto soggettivo in capo all’istante. Il quesito di fondo pare risiedere piuttosto nel decidere se la valutazione inerente la sussistenza, nel caso specifico, di comprovati motivi inerenti la sicurezza della Repubblica ex art. 6, co. 1, lett. c) sarebbe antecedente ad ogni altra valutazione; e tale da attrarre ogni altra valutazione nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo. Si tratta di una conseguenza evidentemente eccessiva, ma rimane da chiarire chi e quando deve valutare l’eventuale presenza o assenza di tali motivi, anche alla luce della copiosa giurisprudenza (sia pure, esclusivamente) amministrativa qui esaminata (Tar Sicilia, sez. IV, 13.3.2024, n. 984).

 

Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione

a) Requisiti di reddito: irrilevanza dei mutamenti intervenuti dopo l’istanza malgrado il sensibile ritardo del suo rigetto. b) Irrilevanza del mancato rispetto dei termini per la conclusione del procedimento. c) Incidenza di un reato contravvenzionale risalente. d-e) Requisito della residenza decennale: esclusiva rilevanza delle certificazioni anagrafiche

Appare persino inutile, e comunque scontato, ribadire per l’ennesima volta l’esistenza di una ricchissima giurisprudenza del Tar del Lazio anche nel quadrimestre qui esaminato, sempre connotata dal richiamo alla ampia discrezionalità della PA nel valutare le richieste di naturalizzazione a causa dell’interesse pubblico sottostante e in larghissima parte orientata a respingere i ricorsi ad essa presentati. Sembra invece opportuno passare qui in rassegna alcune decisioni del Consiglio di Stato nelle quali sono state viceversa condivise le censure dei ricorrenti. Si tratta di pronunce di numero inferiore rispetto a quelle che concludono per l’infondatezza, ma non eccessivamente rare. 

Quest’ultima osservazione trova subito conferma in una sentenza concernente appunto un giudizio di ottemperanza, scaturito dall’inerzia del Ministero dell’interno il quale non aveva proceduto ad una nuova valutazione sulla concessione della cittadinanza italiana malgrado una precedente sentenza del medesimo giudice avesse affermato che, nel respingere la domanda di naturalizzazione, il Ministero stesso non avesse tenuto conto né della complessiva posizione sociale, familiare e lavorativa dello straniero, né della richiamata depenalizzazione del reato ascrittogli. I giudici di Palazzo Spada sottolineano comunque che non spetta a loro pronunciare la concessione della cittadinanza, ma che è compito del Ministero poiché a tale provvedimento è sottesa una valutazione di opportunità politico- amministrativa altamente discrezionale e informata, tra l’altro, ai principi di tutela e garanzia della sicurezza pubblica (Cons. St., sez. III, sent. 12.3.2024, n. 2414). 

Ad un esito in parte analogo, ovvero alla censura dell’operato della Amministrazione, è giunta un’altra sentenza nella quale viene dimostrata ancora una volta l’inefficienza (sui cui motivi si può riflettere) dei funzionari preposti nel fornire al Consiglio di Stato la documentazione supplementare richiesta. Anche in questo caso, viene indicata al Ministero la necessità di una valutazione di carattere complessivo, mediante un generale inquadramento delle singole vicende, anche penalmente rilevanti, anziché limitarsi ad affermare in modo meccanicistico la non coincidenza tra l’interesse pubblico e quello dell’istante, e non esplicitando le ragioni della ritenuta mancata integrazione nel contesto sociale italiano. Da qui scaturisce, come nel caso precedentemente ricordato, l’invito a rivalutare il comportamento dello straniero, ovvero la sua pericolosità (Cons. St., sez. III, sent. 5.4.2024, n. 3178).

Maggiormente innovativa rispetto alle precedenti risulta una fattispecie oggetto di una istanza cautelare presentata ai fini del riesame di una sentenza del Tar Lazio. In particolare, si trattava di una richiesta di annullamento di un secondo provvedimento di inammissibilità emesso dalla Prefettura a seguito della richiesta di cittadinanza italiana presentata da un cittadino straniero. Quest’ultimo, dopo aver ricevuto un primo provvedimento di inammissibilità della propria richiesta, aveva inoltrato una nuova istanza allegando una dichiarazione integrativa con la quale contestava la mancanza della residenza decennale continuativa, prescritta dall’art. 9 della l. n. 91/1992, che gli era stata addebitata. Tuttavia, secondo la prefettura e Tar Lazio, qualsiasi provvedimento di inammissibilità della PA costituisce atto endoprocedimentale e in quanto tale non impugnabile. 

Dal canto suo, il Consiglio di Stato accoglie l’istanza cautelare condividendo anzitutto il richiamo ai princìpi enunciati nella sua precedente sentenza n. 2322/2022, secondo cui, da un lato, l’automatizzazione del processo di acquisizione delle domande di cittadinanza può considerarsi lesiva del diritto del cittadino straniero a partecipare al procedimento che lo riguarda; dall’altro, i processi di digitalizzazione non possono risolversi in un depotenziamento delle garanzie per l’interessato. Nel merito, la prima dichiarazione di inammissibilità è giustificata perché induce il cittadino straniero a integrare la propria domanda mediante una nuova istanza. Viceversa, a seguito di tale integrazione, non è ammissibile la seconda dichiarazione di inammissibilità. Infatti, deve essere consentito all’interessato di far valere le proprie ragioni in sede procedimentale con conseguente obbligo dell’Amministrazione di valutarle. Al fine di garantire perciò l’effettività della tutela giurisdizionale, la decisione di inammissibilità adottata dall’Amministrazione, essendo idonea ad arrestare, per la seconda volta, il procedimento, deve ritenersi impugnabile. Viene così accolta l’istanza cautelare (Cons. St., sez. III, ord. 12.2.2024, n. 488).

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