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Fascicolo 2, Luglio 2024


«Il volontariato, nelle sue diverse forme, è un orgoglio del nostro Paese. Trasmette energia preziosa. I valori che esprime sono parte della cultura e della stessa identità del nostro popolo. Questo è il carattere dell’Italia, ampiamente diffuso nella concreta vita quotidiana, ed è quel che la rende, in conformità alla sua storia, un Paese di grande civiltà.

Contro questa grande civiltà stridono - gravi ed estranei - episodi e comportamenti come quello avvenuto tre giorni fa, quando il giovane Satnam Singh, lavoratore immigrato, è morto, vedendosi rifiutati soccorso e assistenza dopo l’ennesimo incidente sul lavoro.

Una forma di lavoro che si manifesta con caratteri disumani e che rientra in un fenomeno - che affiora non di rado - di sfruttamento del lavoro dei più deboli e indifesi, con modalità e condizioni illegali e crudeli.

Fenomeno che, con rigore e con fermezza, va ovunque contrastato, totalmente eliminato e sanzionato, evitando di fornire l’erronea e inaccettabile impressione che venga tollerato ignorandolo».

Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica, 22.6.24

Asilo e protezione internazionale

SOMMARIO

PROTEZIONE INTERNAZIONALE. La formalizzazione della domanda di protezione internazionale (ricorso cautelare per la formalizzazione della domanda di protezione internazionale - termine tra manifestazione della volontà e formalizzazione - decorrenza del termine per lo svolgimento di attività lavorativa - fissazione giudiziale termine per la formalizzazione); status di rifugio politico (appartenenza ad un particolare gruppo sociale - maltrattamenti subiti da un minore - orientamento sessuale - gruppo sociale costituito da persone LGBTQI+ - persone affette da HIV - persecuzione come risultato di una pluralità di discriminazioni - tratta di essere umani - sfruttamento sessuale - tratta ai fini di sfruttamento lavorativo - opinioni politiche - IPOB - motivi religiosi - apostasia - cause di esclusione - “contributo sostanziale” alla commissione dell’attività criminale);

Protezione sussidiaria (debt bondage - violazioni sistematiche dei diritti umani fondamentali - trattamenti inumani e degradanti - etnia bedè - violenza indiscriminata in condizioni di conflitto armato interno - Colombia); Questioni processuali (procedure accelerate ed effetto sospensivo conseguente alla proposizione del ricorso - rispetto dei termini previsti per la procedura accelerata - gravi e circostanziate ragioni per disporre la sospensione - trasmissione via PEC delle domande di protezione internazionale - individuazione del dies a quo - cooperazione istruttoria - identificazione preliminare delle vittime di tratta - dovere del giudice di sospendere l’esame e inviare la persona richiedente ad una valutazione dell’ente antitratta - debt bondage - obbligo di disporre l’audizione); Diritto all’iscrizione anagrafica del titolare di status (titolare status senza fissa dimora - procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno - diritto all’iscrizione anagrafica); Regolamento Dublino (clausola discrezionale ex art. 17 reg. n. 604/2013 - sindacato da parte del giudice ordinario in merito al mancato esercizio di tale clausola - rapporti tra clausola discrezionale e protezione complementare - rilevanza del tempo trascorso in Italia - vulnerabilità rilevanti - clausola discrezionale e rispetto dei diritti fondamentali - asilo costituzionale - carenze sistemiche (Austria) - obblighi informativi - colloquio - onere della prova in capo all’autorità amministrativa); LA PROTEZIONE SPECIALE. Formalizzazione della domanda di protezione speciale diretta al questore (tentativi di accesso in questura - istanza via PEC - irritualità - obbligo della questura di fissare appuntamento); Domanda diretta al questore dopo la riforma 2023 (abrogazione a partire dall’entrata in vigore della legge n. 50/2023, di conversione del d.l. n. 20/2023 - rilevanza, nonostante abrogazione 3° e 4° periodo dell’art. 19 TU immigrazione, dell’art. 5, co. 6 e dell’art. 8 CEDU); Presupposti della protezione speciale (diritto al rispetto della vita privata e familiare - rilevanza dei pregiudizi penali - pregiudizi penali e divieto di refoulement - pregiudizi penali e art. 8 CEDU - violenza domestica in Italia - insicurezza sociale nel Delta State - protezione temporanea e protezione speciale); Conversione del permesso da protezione speciale a lavoro; Diritto all’iscrizione anagrafica del/della titolare di ricevuta di permesso per protezione speciale; Diritto all’accoglienza (richiedenti asilo disabili - diritto all’accoglienza in SAI)

 

LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE

Diritto alla formalizzazione della domanda di protezione internazionale

Il Tribunale di Milano, con ordinanza 26.3.2024 , ha accolto il ricorso ex art. 700 c.p.c., proposto da un cittadino del Bangladesh per ottenere dalla questura la possibilità di formalizzare la sua domanda di protezione internazionale (atteso che, per oltre un anno, nonostante egli avesse manifestato la volontà di voler chiedere protezione, chiedendo l’“appuntamento” alla questura, quest’ultima non lo aveva mai convocato). Di particolare interesse quanto osservato dal giudice in merito al requisito del periculum in mora, laddove ha ravvisato la sussistenza dello stesso sottolineando come «l’impossibilità di presentare la domanda determina la lesione del diritto assoluto riconosciuto dall’art. 10 comma 3 della Costituzione e dalla normativa sopra richiamata in tema di accesso alla protezione internazionale. Per un verso, nonostante la perentoria affermazione della Suprema Corte, lo straniero è stato destinatario di un provvedimento di espulsione e di un ordine di lasciare il Paese; per altro verso scopo delle norme è proprio quello di permettere la permanenza sul territorio dello Stato per verificare la sussistenza o meno dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, mentre il non consentire la formalizzazione della domanda determina il perpetuarsi di una condizione di irregolarità del ricorrente, con conseguente impossibilità di accedere al lavoro e ai diritti connessi alla presenza regolare sul territorio».

 

Con decreto 20.2.2024 RG. 601/2024  il Tribunale di Bologna ha esaminato un ricorso d’urgenza, ex art. 700 c.p.c., proposto sotto due profili in relazione alla formalizzazione di una domanda reiterata di riconoscimento della protezione internazionale: il primo per l’anticipazione dell’appuntamento (fissato dalla questura a marzo 2024) rispetto alla manifestazione della volontà espressa nell’ottobre 2023; il secondo per accertare il diritto allo svolgimento di attività lavorativa decorsi 60 gg. dalla manifestazione della volontà. Da precisare che, in occasione della manifestazione della volontà il ricorrente era stato attinto anche da provvedimento di espulsione e ordine di allontanamento, poi sospesi dal Giudice di pace.

Quanto al primo profilo, il Tribunale ha evidenziato che il tempo tra la manifestazione della volontà di presentare una nuova domanda di protezione e l’appuntamento per la sua formalizzazione dopo 5 mesi supera abbondantemente il termine legale previsto dall’art. 26, co. 2-bis d.lgs. 25/2008. Ha escluso, tuttavia, il periculum in mora per l’anticipazione in quanto l’udienza cautelare si è svolta pochi giorni prima dell’appuntamento indicato dalla questura per la formalizzazione e il rischio espulsione era da escludersi poiché provvedimento già sospeso dal Giudice di pace.

Quanto alla decorrenza del termine per lo svolgimento di attività lavorativa (art. 22, co. 1 d.lgs. 142/2015), il giudice muove dalla medesima premessa, cioè il diritto a formalizzare la domanda nei tempi indicati dalla legge, perché risponde sia al diritto del/della richiedente asilo di avere i necessari mezzi di sostentamento, sia all’interesse pubblico di evitare distorsioni del sistema economico costringendo una persona a lavorare in nero o verso la commissione di attività illecite. Da questa premessa il Tribunale giunge alla conclusione secondo cui «La lettera della legge, la quale segnala l’autorizzazione a lavorare «trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda» consente una lettura conforme alla sua ratio, atteso che il termine «presentazione», per gli scopi di detta disposizione, ben può essere riferito non già alla «formalizzazione» mediante redazione del cd. modello C3, ma alla manifestazione in Questura della volontà di presentare la domanda di protezione internazionale.». Precisa il decreto che sono irrilevanti le pur comprensibili esigenze organizzative della questura perché il rischio è che esse ricadano ai danni del richiedente asilo o peggio abbiano un effetto «manifestamente criminogeno».

Dunque, il termine di 60 gg., passati i quali il/la richiedente asilo può svolgere attività lavorativa, decorre dal momento in cui ha manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale.

Precisa, altresì, il Tribunale che al ricorrente deve essere rilasciato un permesso di soggiorno provvisorio ex art. 4 d.lgs. 142/2015 «con effetto immediato di autorizzazione al lavoro».

 

Sempre il Tribunale di Bologna, con ordinanza cautelare 15.3.2024 RG. 3860/2024 , in un ricorso d’urgenza avverso mancato riscontro a richiesta di appuntamento per rilascio di permesso di soggiorno ed eventuale domanda di protezione internazionale, pur affermando di non potere decidere inaudita altera parte sulla sospensiva proposta, ha comunque ordinato alla questura di fissare immediatamente, entro 15 gg., un appuntamento «per la formalizzazione della domanda di rilascio di un permesso di soggiorno».

 

Anche il Tribunale di Venezia, con decreto 21.2.2024 RG. 1811/2024 , si è pronunciato su un ricorso d’urgenza proposto da richiedente asilo che ha manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale il 13 ottobre 2023, con appuntamento per la formalizzazione fissato dalla questura di Verona per il 19 giugno 2024. Il giudice veneziano ha accolto il ricorso affermando che l’Amministrazione è priva di potere discrezionale nell’avvio della procedura asilo, trattandosi di procedimento vincolato (art. 26 d.lgs. 25/2008 e art. 4 d.lgs. 142/2015) ed evidenzia che la mancata formalizzazione preclude al richiedente l’esercizio di diritti sociali importanti quali l’attività lavorativa, la fruizione di servizi pubblici e reca pregiudizio anche alla dimensione familiare. In accoglimento del ricorso il Tribunale ha ordinato alla questura veronese di formalizzare la domanda entro 45 gg.

 

LO STATUS DI RIFUGIO POLITICO

Appartenenza ad un particolare gruppo sociale

Il Tribunale di Torino, con decreto del 22.1.2024 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un ricorrente, cittadino tunisino, in ragione dei ripetuti maltrattamenti subiti, da parte del padre, quando era minorenne. Il Tribunale ha valutato la vicenda narrata dal ricorrente alla luce del contesto di provenienza (come emergente dalle fonti di informazione consultate dal Collegio) e delle caratteristiche personali dello stesso, in particolar modo lo stato di abbandono e perdita di riferimenti familiari vissuto durante l’infanzia, in seguito ai maltrattamenti subiti dal padre ed al contesto sociale e familiare che aveva fortemente disincentivato qualsiasi denuncia nei confronti del genitore. Con riferimento alla nozione di persecuzione, i giudici torinesi hanno osservato che gli atti di violenza subiti dal ricorrente, quando era minorenne, per la loro natura e reiterazione, sono tali da rappresentare una grave violazione dei diritti umani fondamentali (nel caso dei bambini, il diritto alla vita, la libertà dalla tortura da pene o trattamenti inumani o degradanti, artt. 2 e 3 CEDU, nonché il diritto a non essere separati dai genitori). In particolare, il Collegio ha osservato che «nonostante il richiedente abbia raggiunto la maggiore età, quanto subito durante l’infanzia e l’adolescenza, risulta corrispondere ad una somma di diverse misure, tra cui le predette violazioni dei diritti umani e del fanciullo, il cui impatto risulta sufficientemente grave da esercitare sullo stesso un effetto analogo a quello di cui all’art. 7, co. 1, lett. a) del d.lgs. 251/2007, e che tali atti stessi siano stati particolarmente atroci da aver comportato protratti effetti psicologici e traumatici che renderebbero intollerabile il suo ritorno nel Paese di origine. Per via della propria condizione, alla luce del timore espresso di essere nuovamente aggredito e minacciato dal padre, l’isolamento e la mancanza di reti sociali sul territorio possono accrescere il comprovato disagio psicologico già esistente e risultante dalle persecuzioni vissute in passato e fondare, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, il timore manifestato». Il Tribunale ha altresì affermato la sussistenza di un nesso causale tra gli atti di persecuzione, nella specie di cui all’art. 7, comma 1, lett. f), ed uno dei cinque motivi della Convenzione di cui all’art. 8 del d.lgs. 251/2007, in quanto gli atti di persecuzione subiti in passato risultano essere stati motivati dall’appartenenza del ricorrente a un particolare gruppo sociale, vale a dire quello dei minori. 

La Suprema Corte, con ordinanza n. 9290 dell’8.4.2024  – chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto da un ricorrente proveniente dall’Iran, il quale aveva riferito di essere fuggito dopo aver acquisito consapevolezza della propria omosessualità, in conseguenza del forte dissidio con il padre, il quale, a causa del detto orientamento sessuale, lo aveva denunciato alle autorità iraniane – ha cassato con rinvio la decisione del Tribunale che aveva ritenuto non credibile il racconto del ricorrente sulla scorta di elementi quali la “fluidità” nei rapporti sessuali dallo stesso rappresentata e la circostanza che egli aveva lasciato il Paese con un regolare passaporto. La Corte, in particolare, ha affermato che la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del ricorrente doveva essere effettuata tenendo conto del contesto personale del ricorrente (il quale aveva dichiarato di provenire da una famiglia molto agiata, che lo aveva aiutato ad espatriare) e degli atteggiamenti di integralismo religioso che connotavano il Paese di provenienza ed il contesto familiare del ricorrente, nel quale la «presenza in patria del richiedente poteva propagare i suoi negativi effetti su tutto il nucleo familiare».

 

Ancora con riferimento all’appartenenza ad un particolare gruppo sociale, rappresentato dall’identità di genere, si è pronunciato il Tribunale di Milano, con decreto dell’8.4.2024 . Nel caso portato all’attenzione del Collegio il ricorrente, cittadino del Perù, ha riferito di aver subito moltissime discriminazioni legate al suo orientamento omosessuale e alla patologia della quale soffriva (HIV). Il Tribunale, esaminate le fonti più accreditate e aggiornate, ha verificato che, sebbene la Costituzione peruviana includa un ampio divieto di discriminazione riguardo le relazioni tra persone dello stesso sesso, tuttavia, poche leggi nazionali menzionano l’orientamento sessuale e l’identità di genere come categorie meritevoli di protezione, il che lascia spazio a interpretazioni che trascurano i diritti delle persone LGBTQI+. Valutando il timore espresso dal ricorrente all’interno di un unicum, una sfera che vede la sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale come inclusiva di una doppia condizione: quella di persona affetta da HIV oltre che di persona appartenente alla categoria LGBTQI+, ha ritenuto sussistenti i presupposti per la protezione maggiore.

 

Il Tribunale di Torino, con decreto dell’11.3.2024 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino della Guinea, affetto, sin dalla nascita da polidattilia ed associato dalla famiglia e dalla comunità di appartenenza ad uno stregone. Nel caso in esame, il Tribunale ha ritenuto che, in caso di rientro nel Paese di origine, il richiedente si sarebbe trovato a rischiare di subire nuovamente le discriminazioni già subite prima della fuga, in diversi ambiti della propria vita, che avrebbero comportato la violazione dei suoi diritti umani fondamentali, quali il diritto alla salute, all’accesso al lavoro, all’istruzione. In particolare, è stato osservato che: «l’impatto e la somma di tali misure discriminatorie appare sufficientemente grave, tale da esercitare sulla richiedente un effetto analogo a quello degli atti persecutori di cui all’art. 7, co. 1, lett. a) del d.lgs. 251/2007». Con riferimento alla protezione da parte dello Stato, il Collegio ha osservato che dalle fonti consultate è emerso «come la credenza nella stregoneria sia comune in Guinea, altresì tra membri del Governo, e come la discriminazione delle persone con disabilità, nonostante le leggi previste a loro tutela, sia un fenomeno diffuso nel Paese».

 

Sul tema della tratta a fini di sfruttamento sessuale si soffermano, nel periodo in rassegna, la Suprema Corte, con ordinanza n. 7283 del 19.3.2024  ed il Tribunale di Bologna, con decreto del 22.3.2024 . In particolare, i Giudici di legittimità affermano che la sottoposizione a tratta ai fini di sfruttamento sessuale integra i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, in quanto la situazione di vulnerabilità espone al rischio di atti persecutori gravi in caso di rimpatrio e vessazioni che costituiscono trattamento persecutorio di genere più ristretto di quello femminile, riguardante le donne che hanno esercitato il meretricio, pur se costrette o ingannate. Tanto premesso, la Corte ribadisce che la valutazione del singolo caso deve svolgersi tramite l’acquisizione di informazioni pertinenti ed aggiornate sul Paese di origine della richiedente, ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. n. 25 del 2008, senza limitarsi alla verifica del rischio di re-trafficking, ma dovendosi estendere al rischio di subire gravi discriminazioni dal contesto sociale o sottoposizione a vessazioni, per la particolare vulnerabilità conseguente alla tratta.

Nel caso portato all’attenzione dei giudici bolognesi, la donna, cittadina nigeriana, dopo essere stata sentita dalla Commissione territoriale, ha riferito di non voler essere udita in sede giudiziale. Il Tribunale, acquisiti i documenti prodotti (tra i quali la relazione dell’ente antitratta), ha ritenuto sussistenti i principali indici di tratta. In particolare, con riferimento alla valutazione di credibilità delle dichiarazioni della ricorrente, nel decreto in esame si legge che «nelle domande di protezione che riguardano questioni relative alla tratta dagli esseri umani, in particolar modo nelle fasi iniziali, è del tutto verosimile che la vicenda di tratta non emerga in maniera esplicita, o persino che questa venga negata dai richiedenti protezione. Il trauma derivante da tale vissuto e condizione, in molti casi ancora attuale e presente al momento della richiesta di protezione, rende estremamente complesso per il o la richiedente aprirsi di fronte all’autorità giudicante e rivelare le vere ragioni e vicende che ne hanno determinato l’allontanamento dal Paese di origine», con la conseguenza che “comprensibile” la volontà della ricorrente di non voler ripercorrere il vissuto traumatico anche in questa sede. Con riferimento all’elemento del rischio in caso di rimpatrio, il Tribunale, dopo aver ricordato come sia irrilevante il fatto che la richiedente, in sede amministrativa, abbia riferito di non aver ricevuto più minacce da quando era giunta in Italia, ha ribadito che la valutazione del rischio deve essere compiuta con riferimento al Paese d’origine. Tanto premesso, è stato precisato che «dalle COI consultate risulta che le donne rimpatriate, salvo il caso in cui abbiano fatto fortuna, sono accolte da atteggiamenti negativi, tanto dalla famiglia che dalla comunità di appartenenza», sono vittime di stigmatizzazione sociale, possono andare incontro a nuovi atti di violenza e, come nel caso della ricorrente, se non hanno ripagato integralmente il loro debito, si trovano ancora sotto la pressione dei debitori.

 

Il Tribunale di Torino, con decreto del 4.3.2024 , ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Bangladesh, il quale aveva contratto numerosi debiti e si era affidato a trafficanti locali per lasciare il Paese d’origine, perché costretto dalla necessità di provvedere al sostentamento della famiglia (in una condizione di grave indigenza) e di sostenere i costi delle cure dei genitori, gravemente malati. Nella decisione in esame, il Collegio ha sottolineato come «tale situazione risulta corrispondere ad un abuso della posizione di vulnerabilità del ricorrente. Le persone vulnerabili sono, infatti, definite come coloro che, per motivi di età, sesso, stato fisico o mentale, o per circostanze sociali, economiche, etniche e/o culturali, hanno particolari difficoltà a esercitare pienamente i diritti riconosciuti loro dalla legge di fronte al sistema giudiziario». In particolare, ha ricordato come l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ha elaborato una serie di indicatori per poter individuare i casi di grave sfruttamento lavorativo. Tali indicatori comprendono l’uso di violenza e minacce, la limitazione della libertà di movimento, la presenza di debiti a carico del lavoratore, il trattenimento del salario e il sequestro dei documenti di identità. Esaminate le più accreditate fonti di informazione, il Tribunale ha concluso che lo Stato bengalese non può garantire una protezione effettiva e non temporanea alle vittime di tratta, ai sensi dell’art. 6, co. 2, d.lgs. 251/2007, ritenendo che, «in caso di rientro nel Paese di origine, il richiedente, stante la situazione di estrema vulnerabilità dovuta alla situazione dell’esperienza di tratta ai fini dello sfruttamento lavorativo ed i c.d. push factors alla base del viaggio migratorio e dell’affidamento iniziale a creditori e trafficanti, possa nuovamente subire episodi qualificabili come atti di reale persecuzione, fisica o psichica, posti in essere per motivi legati all’appartenenza ad un particolare gruppo sociale, senza poter accedere ad un’effettiva e non temporanea protezione da parte del proprio Paese».

 

Opinioni politiche

Il Tribunale di Napoli, con decreto del 24.1.2024 , ha esaminato la domanda di protezione di un cittadino nigeriano, il quale aveva riferito di essere stato costretto a lasciare il Paese d’origine in seguito ai problemi avuti dopo la sua adesione al movimento dell’IPOB, nel 2013. Il Collegio si è soffermato, in particolare, sulla questione relativa al livello di rischio necessario per stabilire la fondatezza del timore di persecuzione in caso di rimpatrio, e, alla luce di un approfondito esame delle caratteristiche del predetto movimento, dell’articolazione delle sue strutture, della diffusione del movimento e della sua ideologia, ha ritenuto che, in ragione del livello e della natura del coinvolgimento del richiedente, dovevano essere ritenuti sussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato.

 

Religione

Il Tribunale di Roma, con decreto del 22.12.2023  ha riconosciuto la protezione maggiore in favore di un cittadino del Pakistan (nato a Gujrat e cresciuto a Gujrawala) per motivi religiosi. Il richiedente, sentito dalla Commissione territoriale (ma non ascoltato nuovamente dal Tribunale), aveva riferito di professare la religione musulmana sunnita e di essere stato accusato di apostasia dopo essersi fidanzato con una ragazza cristiana e dopo essere stato visto con un crocifisso al collo. Il Collegio si è soffermato, in particolare, sulle fonti di informazione relative al trattamento dell’apostasia in Pakistan, evidenziando che, sebbene questa non sia esplicitamente criminalizzata dal codice penale, la rinuncia all’Islam è considerata dai religiosi come una forma di blasfemia, che può comportare la pena di morte. 

 

Cause di esclusione

Con   ordinanza n. 4984 del 26.2.2024 , la Suprema Corte si è soffermata sulle clausole di esclusione e sull’attività istruttoria cui il giudice è chiamato per verificare la sussistenza delle stesse. Nella vicenda portata all’attenzione della Corte il ricorrente, cittadino nigeriano, aveva riferito di essere fuggito dal Paese d’origine perché ingiustamente accusato di furto, di essere stato poi arrestato, di essere riuscito ad evadere e di temere, in caso di rimpatrio, di dover tornare nuovamente in carcere. Il Tribunale di Palermo aveva rilevato che dagli atti di causa emergeva che il ricorrente era stato posto in stato di fermo in Italia, perché indiziato del reato di violenza sessuale, perpetrato ai danni di una minore di anni 18 e attinto anche da una misura cautelare custodiale e che tali circostanze dovevano essere ritenute sintomatiche della evidente pericolosità sociale del ricorrente, la cui permanenza nel territorio italiano – considerata, in particolare, la gravità del reato ex art 609-quater c.p. – costituiva un pericolo per la sicurezza dello Stato, sicché non poteva riconoscersi alcuna forma di protezione. La Corte, nel censurare la decisione del Tribunale, ha evidenziato che «i giudici di merito, senza effettuare alcuna valutazione individuale del caso in disamina, si sono limitati a valorizzare quali cause ostative al riconoscimento del rifugio e della protezione sussidiaria, in primo luogo, il reato asseritamente commesso in Italia (violenza sessuale ai danni di minore) e, secondariamente, quelli di furto ed evasione che sarebbero stati commessi all’estero, obliterando il disposto delle citate norme e indistintamente sovrapponendo la fattispecie del reato commesso all’estero a quella del reato commesso in Italia». È stato poi ribadito il principio già affermato dalla Corte in forza del quale «la Commissione di un grave reato all’estero, rilevante, ai sensi degli artt. 10, comma 2, lett. b), e 16, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, quale causa ostativa al riconoscimento dello “status” di rifugiato e della protezione sussidiaria, non può essere ritenuta sussistente sulla base di una mera prospettazione di parte, ma dev’essere concretamente accertata dal giudice, tenuto a verificare, anche previo utilizzo dei poteri di accertamento ufficiosi di cui all’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, da un lato se la contestata violazione di norme di legge nel Paese di provenienza provenga dagli organi a ciò istituzionalmente deputati e abbia avuto ad oggetto la legittima reazione dell’ordinamento all’infrazione commessa, non costituendo piuttosto una forma di persecuzione razziale, di genere o politico-religiosa verso il denunciante, dall’altro il tipo di trattamento sanzionatorio previsto nel Paese di origine per il reato commesso dal richiedente, in quanto il rischio di subire torture o trattamenti inumani o degradanti nelle carceri può avere rilevanza per l’eventuale riconoscimento sia della protezione sussidiaria, in base al combinato disposto dell’art. 2, lett. g), del d.lgs. n. 251 del 2007 con l’art. 14, lett. b), dello stesso d.lgs., sia, in subordine, della protezione umanitaria, in base all'art. 3 CEDU e all'art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998» (Cass. 26604/2020). Atteso che, nel caso in esame, il Tribunale non aveva compiuto alcuna attività istruttoria in ordine allo stato dei procedimenti, pendenti o definiti, per i reati in tesi commessi all’estero dal ricorrente né alcuna indagine sullo stato del processo penale relativo al reato commesso in Italia in tal modo omettendo una valutazione di pericolosità sociale basata su elementi concreti ed attuali, la Corte ha cassato con rinvio la decisione della Corte territoriale.

 

Il Tribunale di Bologna, con decreto del 15.3.2024  si è pronunciato in materia di cause di esclusione, di cui all’art. 1 (F), lett. A, della Convenzione di Ginevra, decidendo la domanda di protezione spiegata da un cittadino eritreo responsabile di favoreggiamento nella commissione di atti sussumibili all’interno della definizione di crimini contro l’umanità di cui all’art. 7 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale. Il ricorrente, con dichiarazioni ritenute credibili dal Tribunale, ha riferito di avere prestato servizio militare nell’esercito eritreo, come soldato semplice, fin dal 2006, di essere stato assegnato dal 2011-2012 alla zona di confine con l’Etiopia, a Tsorona, per sorvegliare l’area ed evitare attraversamenti illegali e di aver catturato dei minori, privandoli della loro libertà personale e di averli consegnati ai superiori per mano del quali essi avrebbero subito trattamenti inumani e degradanti. Tanto premesso il Collegio, dopo aver dato atto che le COI confermano l’esistenza di crimini contro l’umanità nella regione di frontiera in esame, ha valutato se il ricorrente possa essere ritenuto individualmente responsabile per aver partecipato ai crimini contro l’umanità che si sono verificati al confine. In particolare, è stato osservato che, «secondo le Linee guida dell’UNHCR sulla protezione internazionale, l’applicazione delle clausole stabilisce che la responsabilità individuale è generalmente dedotta dal fatto che la persona ha commesso l’atto criminale o ha contribuito in modo significativo alla sua esecuzione, sapendo che la sua azione o omissione faciliterà l’atto criminale. L’individuo non deve aver commesso fisicamente l’atto criminale. La partecipazione o la partecipazione a un’attività criminale congiunta può essere sufficiente. La partecipazione a un determinato reato può, ad esempio, consistere nel fornire assistenza pratica nell’esecuzione del reato sapendo che gli atti contribuiscono o facilitano l’esecuzione del reato. Non è necessario dichiarare che il reato non sarebbe avvenuto senza il coinvolgimento della persona. Né la persona è tenuta a condividere l’intenzione dell’autore del reato, ma è sufficiente essere a conoscenza degli elementi principali del reato. Il criterio chiave è che la partecipazione deve costituire un «contributo sostanziale» per essere interessata dalla disposizione di esclusione». Tanto premesso il Tribunale, considerato che 1) il ricorrente era diventato una guardia di frontiera a causa del servizio nazionale obbligatorio, 2) che le sue azioni erano conformi alle regole di ingaggio, 3) che, data la presenza di colleghi, non avrebbe potuto fare altrimenti salvo esporsi anche lui a torture, e 4) che, data la leva obbligatoria e a vita, la sua capacità di recedere può essere considerata inesistente, ha osservato come egli avrebbe rischiato, in caso di inadempimento ai suoi doveri di soldato semplice, di subire torture, detenzioni arbitrarie e punizioni nei confronti dei suoi familiari. È stata, pertanto, esclusa la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della clausola di esclusione ed è stato così riconosciuto lo status di rifugiato politico.

 

PROTEZIONE SUSSIDIARIA 

D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. a) e b)

Il Tribunale di Perugia, con decreto del 27.2.2024 , ha riconosciuto la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007 in favore di un cittadino pakistano, costretto a vivere in una condizione di schiavitù a causa dei debiti contratti dalla sua famiglia. Il Collegio, dopo aver ricordato che in Pakistan, il sistema per cui si è costretti a lavorare fino all’adempimento dell’obbligazione viene denominato peshgi (un vero e proprio vincolo tra il creditore e il debitore che spesso arriva a coinvolgere l’intero nucleo familiare, in forza del quale i figli assumono la posizione lavorativa del genitore), ha precisato che, sebbene il Paese di origine del ricorrente abbia ratificato nel tempo diverse Convenzioni internazionali inerenti il lavoro forzato e la sua Costituzione vieti espressamente ogni forma di sfruttamento e di schiavitù, le fonti sono concordi nel ritenere che lo Stato non offra alcuna protezione alle vittime del debt bondage, rimanendo questa una realtà diffusa in diverse zone del Paese e costituisce una radicata consuetudine. Ritenuto credibile il racconto del ricorrente, il Tribunale, esclusa la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, ha ritenuto che egli, in caso di rimpatrio, si troverebbe quasi certamente, e ancora una volta, vittima di un contesto oppressivo e limitativo della propria libertà di autodeterminazione, con manifestazioni di violenza e maltrattamenti nei propri confronti, in una condizione resa possibile dall’insufficienza delle misure di protezione nel Paese di origine. 

 

Con riferimento alla protezione riconoscibile in favore delle vittime di sfruttamento lavorativo, la Suprema Corte, con ordinanza n. 11027 del 24.4.2024 , ribadito che è compito del giudice valutare, alla luce di «informazioni sul Paese di origine e su quello di transito, se i trattamenti subiti possano inquadrarsi giuridicamente quali atti di persecuzione ex art. 7 del d.lgs. n. 251/2007, ovvero quale trattamento inumano e degradante ai sensi dell’art 14 lett. b) del d.lgs. 251/2007, e verificare, sempre alla luce di pertinenti ed aggiornate informazioni sul Paese di origine, il rischio che il soggetto corre in caso di rimpatrio ed in particolare se, pur essendo sfuggito all’asservimento, corra il rischio di esservi nuovamente sottoposto, ovvero di essere sottoposto ad altro trattamento inumano in ragione del vincolo debitorio; in ultima analisi ed in via residuale valutare se da queste vicende, unitariamente considerate, sono indicative di una condizione di vulnerabilità sulla base della quale esaminare i presupposti per riconoscimento della protezione complementare».

 

L’appartenenza all’etnia bedè e le ripetute e gravi discriminazioni subite dal ricorrente, cittadino del Bangladesh, in ragione della detta appartenenza giustificano, ad avviso del Tribunale di Torino, il riconoscimento della protezione sussidiaria. Nel caso portato all’attenzione dei giudici sabaudi – deciso con   decreto del 18.3.2024  – il ricorrente aveva riferito di non aver potuto avere accesso all’istruzione, di non aver mai avuto documenti identificativi rilasciati dal Bangladesh e di non aver mai avuto accesso ai servizi essenziali (tra i quali, ad esempio, il servizio sanitario). Il Tribunale ha pertanto ritenuto fornita la prova di «ripetute e sistematiche violazioni dei suoi diritti fondamentali che gli hanno causato sofferenze ed umiliazioni anche nella più tenera età, motivo per cui è ragionevole ritenere che, in caso di ritorno in Bangladesh, egli tornerebbe a subire, a causa della sua appartenenza all’etnia bedé, vessazioni e discriminazioni del tutto compatibili con il concetto di trattamenti inumani e degradanti elaborato a livello giurisprudenziale comunitario e nazionale». Con riferimento a tale aspetto, nella decisione in esame è stato precisato che: «affinché una pena o un trattamento possano essere qualificati inumani o degradanti, occorre tuttavia che venga superata una soglia minima di gravità e questo giudizio - che è sempre relativo - dipende da uno specifico apprezzamento del caso concreto, che tenga conto altresì della situazione generale del Paese e della situazione particolare dell’interessato. Rilevano, a tal fine, il tipo, la durata e le conseguenze fisiche o mentali subite dalla vittima in rapporto alle sue condizioni personali (quali, per esempio, l’età, il sesso e lo stato di salute della vittima) ed eventualmente anche «lo scopo di umiliare e avvilire l’interessato” che ha determinato il trattamento, anche se, normalmente, l’assenza di questo fine non è risolutivo per escludere la violazione».

 

D.lgs. 19.11.2007, n. 251, art. 14 lett. c)

Il Tribunale di Brescia, con decreto del 10.10.2023 , esaminando la domanda di protezione spiegata da una donna, nata nel distretto di Bolivar (Colombia) e poi trasferitasi a Cali, ha riconosciuto i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, ex art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007. In particolare, il Collegio ha osservato che dalla consultazione delle più aggiornate ed accreditate informazioni sul Paese d’origine della ricorrente, è emersa una «situazione di “delinquenza radicata”, dove qualsiasi cittadino colombiano residente in determinate zone del Paese è una potenziale vittima delle azioni criminose delle bande armate. In particolare, queste persone rischiano quotidianamente la propria incolumità indipendentemente dalla propria appartenenza a un qualsiasi gruppo sociale. Infatti, a rischiare la vita non sono solo i membri delle bande o chi con esse deve rapportarsi (membri delle forze dell’ordine; commercianti) ma anche le persone comuni, come nel caso di specie». È stato inoltre sottolineato che, dalle fonti specificamente indicate, è risultato come, «alla diffusione delle azioni dei criminali, è corrisposta l’inidoneità delle forze statali alla salvaguardia effettiva dell’incolumità dei propri cittadini. In particolare, lo Stato colombiano, pur avendo tentato di realizzare attività di tutela per il mantenimento della sicurezza e per l’ottenimento della pace, non è, allo stato, in grado di sradicare e fronteggiare adeguatamente il descritto contesto di violenza diffusa all’interno di alcune delle sue principali regioni (come il dipartimento di Valle del Cauca)». È stato così ritenuto che in Colombia sussiste una condizione di violenza indiscriminata, tale da comportare una minaccia grave ed individuale alla persona di un civile, a prescindere dalle sue condizioni personali.

 

QUESTIONI PROCEDURALI E PROCESSUALI

Provvedimenti di manifesta infondatezza nei confronti di ricorrenti provenienti da Paesi sicuri e sospensione automatica dell’efficacia degli stessi

Con  sentenza n. 11399 del 29.4.2024 , le Sezioni Unite della Corte di cassazione, decidendo sul rinvio pregiudiziale, ex art. 363-bis c.p.c. proposto dal Tribunale di Bologna, hanno affermato che in caso di ricorso giurisdizionale avente ad oggetto il provvedimento di manifesta infondatezza emesso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale nei confronti di soggetto proveniente da Paese sicuro, vi è deroga al principio generale di sospensione automatica del provvedimento impugnato solo nel caso in cui la Commissione territoriale abbia correttamente applicato la procedura accelerata, utilizzabile nell’ipotesi di manifesta infondatezza della richiesta protezione; altrimenti, se la procedura accelerata non è stata rispettata nelle sue articolazioni procedimentali, si determina il ripristino della procedura ordinaria ed il riespandersi del principio generale di sospensione automatica del provvedimento della Commissione territoriale. Nella decisione in esame è stato ribadito che: «il principio di sospensione automatica del provvedimento della Commissione è espressione del principio di effettività della tutela. Si tratta di un principio generale dell’ordinamento unionale che trova positive affermazioni negli artt. 6 e 13 CEDU, nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE e, con riferimento alla materia della protezione internazionale, nell’art. 46 della Direttiva 2013/32/UE. Il principio si traduce, in concreto, nel diritto di difesa, di parità delle armi processuali, di ricorso al giudice, nel diritto complessivo ad un giusto processo. Nel caso in esame si traduce, specificamente, nel diritto ad essere presente nel processo allorché, in caso non fosse operativa la sospensione del provvedimento emesso dall’Organo amministrativo, il richiedente sarebbe a rischio di un allontanamento in quanto non più titolato a restare nel Paese, con effetti preclusivi sul suo diritto di difesa e, come visto, addirittura sulla possibilità di giungere ad una decisione di merito eventualmente a lui favorevole». Tanto premesso, le Sezioni Unite hanno affermato che «proprio la qualità di principio generale della sospensione non può che richiedere stretta osservanza della possibilità di azione delle deroghe. Non risulta infatti compatibile con l’impianto del sistema e con il rapporto tra principi generali e deroghe agli stessi, la possibilità di ampliare il funzionamento di queste ultime tollerando il superamento dei termini indicati per ragioni che, evidentemente, dimostrano la necessità di accertamenti e attività non compatibili con la ristrettezza dei tempi dati». Al par. 31 è stato poi precisato che: «La ratio comune alle ipotesi contenute nell’art. 28-bis, ovvero la immediata presenza o acquisibilità degli elementi da valutare, e la stretta connessione tra ristrettezza dei tempi, decisione e deroga al principio della sospensione, evidenzia la necessitata coesistenza dei tre fattori e, dunque, il venir meno dell’intero impianto in caso del venir meno di uno di essi (tempi dati). La presenza di variabili nell’accertamento in tempi ristretti (si è detto sulla contestazione e sull’accertamento circa la natura di paese sicuro ma le difficoltà possono essere di varia tipologia) non può che evidenziare che, qualora si verifichi un prolungamento temporale che faccia superare i tempi previsti dalla disposizione, si versa in una differente ipotesi procedimentale, evidentemente necessaria per gli approfondimenti richiesti, con conseguenze anche sulla necessaria sospensione del provvedimento».

 

Anche prima della decisione delle Sezioni Unite, si erano orientati per ritenere che, in caso di superamento dei termini, la proposizione del ricorso avverso la decisione di manifesta infondatezza della Commissione territoriale sospendesse automaticamente l’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, anche il Tribunale di Milano, decreto dell’11.3.2024 ; il Tribunale di Trento, decreto del 30.4.2024 ; il Tribunale di Napoli, decreto del 25.3.2024 ; il Tribunale di Venezia, decreto del 25.1.2024 ; il Tribunale di Torino, decreto del 12.3.2024 .

A diverse conclusioni era giunto il Tribunale di Milano che, con decreto 29.4.2024 , decidendo sull’istanza di sospensione proposta dal difensore in ragione del superamento dei termini per la notifica del provvedimento di manifesta infondatezza (provvedimento del 23.5.2023, notificato il 5.3.2024), ha osservato che tale tardività «non comporta alcuna sanzione dal punto di vista della normativa. Si rileva la perentorietà dei termini solo per il termine di audizione di 7 giorni e il termine di emissione del provvedimento nei 2 giorni successivi e non indica alcun termine per la notifica».

 

Dopo la decisione delle Sezioni Unite, il Tribunale di Bologna, con decreto 10.5.2024  decidendo sull’istanza di sospensione avverso un provvedimento di manifesta infondatezza emesso dalla Commissione territoriale senza l’osservanza dei termini previsti e in difetto di una decisione del Presidente della detta Commissione, emessa all’esito dell’esame preliminare previsto dall’art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 25 del 2008, ha osservato che: «1) le Sezioni Unite, nella sentenza sopra citata, nulla precisano in merito alla necessità o meno di rispettare in casi di manifesta infondatezza entrambi i termini (5+2), con la conseguenza che si deve ritenere sufficiente – ai fini della regolarità della procedura – il rispetto del termine complessivo di 9 giorni dalla ricezione degli atti da parte della Commissione, attesa l’invarianza degli interessi in gioco; 2) ai fini della decorrenza del predetto termine occorre tener conto, inoltre, che, ai sensi del comma 2 dell’art. 28-bis “La Questura provvede senza ritardo alla trasmissione della documentazione necessaria alla Commissione territoriale” (sottolineatura aggiunta); 3) al fine di individuare il decorso del termine di nove giorni sopra indicato, l’inciso “senza ritardo” di cui al secondo comma va interpretato nel senso che la trasmissione della domanda alla Commissione deve avvenire “immediatamente” rispetto alla formalizzazione della domanda di protezione internazionale da parte del richiedente, ossia entro lo stesso giorno (salva la possibilità di valutare eventuali giustificazioni addotte dalla Commissione in ordine al ritardo nella trasmissione)». 

 

Con  decreto dell’8.5.2024 , il Tribunale di Firenze, ancora con riferimento ad un’istanza di sospensione di un provvedimento di manifesta infondatezza adottato all’esito di una procedura accelerata, nei confronti di un ricorrente cittadino del Marocco, ha precisato che: «al fine di consentire un corretto esplicarsi del diritto di difesa del richiedente (garantito dall’art. 24 Cost) e di consentigli un effettivo accesso alle procedure (che si lega anche al principio di effettività della tutela giurisdizionale di cui all’art. 6 CEDU) qualora la Commissione territoriale intenda dichiarare manifestamente infondata una domanda di protezione internazionale il presidente della C.T. a seguito della trasmissione degli atti da parte della questura, deve rispettare i termini di cui all’art. 28-bis, co. 2, previsti tanto per l’audizione del richiedente quanto per l’adozione della decisione finale; e qualora ciò non avvenga deve ritenersi che la decisione di “manifesta infondatezza” non sia stata correttamente adottata con la conseguenza che a detto provvedimento debbano applicarsi le regole ordinarie e non quelle speciali, prima tra tutte quella relativa all’effetto sospensivo automatico dell’efficacia esecutiva del provvedimento derivante dalla proposizione del ricorso giudiziale».

 

Sospensione dell’efficacia esecutiva per «gravi e circostanziate ragioni» (art. 35-bis, comma 4, d.lgs. n. 25 del 2008)

 

Il Tribunale di Bologna, con decreto 22.3.2024 , nell’esaminare l’istanza di sospensione proposta da un cittadino del Marocco, il quale aveva dichiarato di aver lasciato il proprio Paese d’origine a causa del fatto che viveva in condizioni di povertà assoluta, ha ritenuto sussistenti le gravi e circostanziate ragioni per sospendere il provvedimento impugnato, sottolineando come la Commissione territoriale, «nel rigettare la domanda avrebbe dovuto meglio valutare le effettive condizioni nel Paese d’origine del ricorrente, che viveva in condizioni di povertà forse non emendabile, secondo le sue allegazioni».

 

Termini della procedura accelerata e individuazione del dies a quo per il calcolo di detti termini

 

Il Tribunale di Firenze, con decreto 31.1.2024  ha esaminato la questione relativa all’individuazione del momento, a partire del quale, devono essere calcolati i termini della procedura accelerata, di cui all’art. 28-bis d.lgs. n. 25 del 2008 nel caso di trasmissione via PEC delle domande di protezione internazionale. Nella decisione in esame il Collegio, dopo aver precisato che non sussiste una particolare forma giuridica per la manifestazione della volontà della persona straniera di chiedere protezione (e che certamente può dirsi che la PEC sia valido strumento di trasmissione alla questura della volontà della persona di chiedere protezione internazionale), si è soffermato sull’interpretazione dell’espressione “senza ritardo”, entro la quale la questura deve provvedere a trasmettere alla Commissione territoriale la domanda ricevuta e la documentazione raccolta. In particolare, nella decisione in esame è stato osservato che «da un lato, le lentezze burocratiche dell’Amministrazione competente non possano in alcun modo ricadere in danno del richiedente asilo comprimendo i suoi diritti, dall’altro lato che le questure abbiano un obbligo di avviare una rapida istruttoria, la quale peraltro non può superare i 10 gg lavorativi. Inoltre, in caso di procedure accelerate le questure devono curare l’immediata trasmissione alla Commissione territoriale competente la domanda ricevuta e la documentazione raccolta, al fine di far esprimere entro 9 gg. la Commissione stessa». Nel caso portato all’attenzione dei giudici fiorentini, il difensore del ricorrente aveva inviato una PEC alla questura in data 22.2.2022, mentre, nonostante la sollecitazione del predetto difensore, la data di formalizzazione del modello C3 era avvenuta solo in data 28.4.2022. Per tali motivi, ha affermato che «vi sia stato un eccessivo ritardo burocratico da parte della questura i cui effetti non possono ricadere sul ricorrente e che di fatto la domanda, non essendo stata trasmessa “senza ritardo” alla Commissione territoriale sia stata trattata come ordinaria e non accelerata» (elemento, quest’ultimo, che porta a ritenere il provvedimento impugnato automaticamente sospeso).

 

Cooperazione istruttoria

Nell’ ordinanza n. 5867 del 5.3.2024 , la Suprema Corte si sofferma sul dovere di cooperazione del giudice nell’esaminare una domanda di protezione spiegata da una persona straniera nel corso di un giudizio nel quale emerga un quadro indiziario che faccia temere che quest’ultima possa essere vittima di tratta. In particolare, la Corte ha osservato che, qualora gli indicatori di tratta ai fini di sfruttamento sessuale emergano solo in sede giudiziale, il giudice deve sospendere l’esame e rinviare ad un ente antitratta per l’identificazione formale, pur dovendo il procedimento giurisdizionale giungere ad una decisione autonoma e indipendente dalle decisioni assunte in sede amministrativa, in quanto la vittima, in presenza delle condizioni previste dalla legge, può avere diritto ad una misura di protezione di contenuto più ampio rispetto al permesso di soggiorno previsto dall’art. 18 del d.lgs. n. 286 del 1998, quale il riconoscimento dello status di rifugiato. Tanto premesso, è stato altresì chiarito che il giudice, laddove emergano i predetti indicatori, alla luce di informazioni aggiornate e pertinenti sulle condizioni del Paese d’origine e dei Paesi di transito, nonché delle Linee guida dell’UNHCR, deve valutare se vi siano elementi sufficienti per ritenere sussistente il fatto storico della tratta e l’attualità del rischio, non potendo omettere tale valutazione solo perché la ricorrente ha negato di essere vittima di tratta o si è rifiutata di partecipare alla procedura di c.d. referral.

 

Ancora in tema di dovere di cooperazione istruttoria, la Suprema Corte, con ordinanza n. 11027 del 24.4.2024 , ha affermato che qualora il richiedente alleghi di avere contratto un ingente debito per migrare a causa di una condizione di estrema povertà (c.d. vincolo debitorio o debt bondage), di essere stato sottoposto a servitù o lavoro forzato nel Paese di transito, nonché di avere una situazione lavorativa precaria sul territorio nazionale, ove sia ritenuto credibile su questi fatti, il giudice deve valutare unitariamente il racconto (anche alla luce delle Linee guida per l’identificazione delle vittime di tratta redatte dall’UNHCR) e disporre l’audizione del ricorrente, per verificare se quanto subito possa essere qualificato come atti di persecuzione o trattamenti inumani e degradanti. In forza delle predette argomentazioni, la Corte, con riferimento alla protezione riconoscibile, ha poi precisato che, ove alla luce di pertinenti ed aggiornate informazioni sul Paese d’origine e sui Paesi di transito (specificamente relative alla configurazione del fenomeno del vincolo debitorio e della riduzione in servitù o sfruttamento lavorativo) si possa escludere il rischio che il ricorrente sia nuovamente sottoposto a forme di sfruttamento o ad altri trattamenti inumani o degradanti in ragione del vincolo debitorio, è necessario valutare se la condizione di vulnerabilità derivante dai pregressi trattamenti, anche se subiti nel Paese di transito, giustifichi il riconoscimento della protezione complementare (tenendo conto della complessiva condizione del richiedente, da considerare all’attualità).

 

Domande proposte da ricorrenti provenienti da Paesi di origine sicura

Con  sentenza n. 11399 del 29.4.2024 , decidendo sul rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c., proposto dal Tribunale di Bologna, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che «in caso di ricorso giurisdizionale avente ad oggetto il provvedimento di manifesta infondatezza emesso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale nei confronti di soggetto proveniente da paese sicuro, vi è deroga al principio generale di sospensione automatica del provvedimento impugnato solo nel caso in cui la Commissione territoriale abbia correttamente applicato la procedura accelerata, utilizzabile nell’ipotesi di manifesta infondatezza della richiesta protezione; altrimenti, se la procedura accelerata non è stata rispettata nelle sue articolazioni procedimentali, si determina il ripristino della procedura ordinaria ed il riespandersi del principio generale di sospensione automatica del provvedimento della Commissione territoriale».

 

 

STATUS DI RIFUGIO POLITICO e ISCRIZIONE ANAGRAFICA

Il Tribunale di Latina, con decreto 10.6.2024 RG. 2382/2024  ha ordinato inaudita altera parte al Comune di Latina l’iscrizione anagrafica di un cittadino maliano, titolare di status di rifugio politico e temporaneamente senza fissa dimora, al quale era stata rifiutata (nella via fittizia regolarmente disciplinata dal Comune) sull’errato presupposto di essere privo di permesso di soggiorno in quanto presentata la richiesta di rinnovo dopo i 60 gg. previsti dalla legge. Rifiuto intrecciatosi con quello della questura di Roma di provvedere al rinnovo se non prodotto entro 10 gg. il certificato di residenza. Nel decreto vengono riassunte le deduzioni del ricorrente, di fatto accolte dal Tribunale, relative al fatto che l’intervenuta scadenza del titolo di soggiorno non è affatto preclusiva all’iscrizione anagrafica, che dipende da una mera ricognizione dell’effettività della residenza indicata dal richiedente e dal grave pregiudizio derivante dalla mancata iscrizione nel Registro anagrafico che impedisce l’esercizio di una pluralità di diritti sociali. Il Tribunale, pertanto, ha ordinato al Comune di iscrivere il ricorrente nel suddetto Registro.

  

Il REGOLAMENTO n. 604/2013 (Dublino)

La clausola discrezionale ex art. 17 del reg. n. 604/2013. Rapporti tra l’esercizio di tale clausola e la protezione complementare

La Corte di cassazione, con tre ordinanze interlocutorie –  n. 10898 del 23.4.2014 n. 10903 del 23.4.2024   n. 11298 del 26.4.2024  – ha rimesso gli atti alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite delle questioni di massima di particolare importanza relative: a) alla possibilità di derogare ai principi generali di determinazione della competenza di uno Stato membro, ex reg. n. 604 del 2013, all’esito di un’indagine individuale che valuti il rischio cui il ricorrente, in condizioni di vulnerabilità giuridicamente qualificata (alla luce delle ipotesi tutelate dal nostro sistema di protezione nazionale), sarebbe esposto in caso di rimpatrio coattivo verso il Paese terzo; b) alla sindacabilità, da parte del giudice del merito, del rifiuto da parte dell’autorità statuale della facoltà di avvalersi dell’esercizio della clausola discrezionale, in presenza di situazioni tutelabili dal sistema di protezione nazionale interno (fondato sulla necessità di portare a compimento l’attuazione del diritto di asilo costituzionale).

Nelle decisioni in esame, la Corte, premessa la necessità di esaminare le questioni introdotte alla luce della pronuncia della Corte di giustizia del 30 novembre 2023, ha sottolineato come il sistema eurounitario della protezione internazionale, unitamente alle misure di protezione nazionale, attua il diritto d’asilo costituzionale e come, da tale premessa, consegua che «avendo le situazioni giuridiche soggettive che sostanziano il diritto alla protezione internazionale e nazionale natura di diritti autodeterminati (Cass. n. 8819 del 2020; Cass. n. 30365 del 2023), il giudice del merito che esamina la domanda, è tenuto, nei limiti del principio dispositivo, ovvero sulla base dei fatti allegati e di quelli acquisiti al processo mediante l’esercizio del potere dovere di cooperazione istruttoria cui è tenuto (art. 3 d.lgs. n. 251 del 2007), ad accertare, anche d’ufficio, se sussistono le condizioni anche per il rilascio di un permesso speciale fondato sul nostro sistema di protezione nazionale che trae la sua fonte dall’art. 10, terzo comma, Cost. e dall’obbligo, non cancellato dal legislatore ordinario che è variamente intervenuto a modellarne il contenuto, di rispettare il sistema dei diritti umani proveniente dalle Convenzioni Internazionali che se ne occupano, prima tra tutte la CEDU…».

In forza di tali premesse, la Corte ha sottolineato la necessità di applicare i principi affermati dalla Corte di giustizia, nella sentenza del 30 novembre 2023 (segnatamente le risposte ai quesiti n. 2 e 3), tenendo conto delle peculiarità del sistema giuridico italiano di protezione nazionale. In particolare, è stato ricordato che l’art. 19 del d.lgs. n. 286 del 1998 non si limita a riprodurre le ipotesi convenzionali di non refoulement, ma ricomprende numerose condizioni di vulnerabilità tutelabili, esemplificativamente indicate, nelle ordinanze in esame: a) nell’esposizione a rischi di discriminazione per motivi di razza, per motivi politici, religiosi, di genere, in presenza di condizioni ostative al riconoscimento delle protezioni maggiori (art. 19, comma 1, del citato d.lgs.); b) nell’esposizione a rischio di tortura e violazioni sistematiche dei diritti umani (art. 19, comma 1.1.); c) nella violazione dei diritti di cui all’art. 8 CEDU; d) nella violazione dei diritti umani conseguenti agli obblighi costituzionali e internazionali assunti dallo Stato.

Nelle ordinanze in esame viene sottolineata la necessità di esaminare le possibili interferenze tra una decisione di trasferimento del richiedente e il sistema italiano di rango costituzionale di protezione nazionale, alla luce di una valutazione compiuta caso per caso, o per determinate categorie di persone, tenuto conto della riconducibilità della vulnerabilità giuridicamente qualificata, cui si esporrebbe il richiedente in caso di rimpatrio coattivo verso il paese terzo, all’interno delle ipotesi tutelate dal nostro sistema di protezione nazionale.

La seconda questione rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite riguarda, più specificamente, l’ambito di applicazione della clausola discrezionale, di cui all’art. 17 del citato regolamento. In particolare, nelle ordinanze interlocutorie viene evidenziato come, dalla stessa motivazione contenuta nella sentenza della Corte di giustizia del 30 novembre 2023, emerge come «il giudice investito del ricorso sulla decisione di trasferimento non ha un obbligo, ma neanche è assoggettato al divieto di applicazione della clausola» e come, così come da tempo riconosciuto sia dai Giudici di Lussemburgo che dalla Corte di cassazione, il rifiuto di fare uso della clausola discrezionale può essere contestato in sede di ricorso avverso la decisione di trasferimento. Occorre, pertanto, valutare, ad avviso della Corte, se il complesso sistema di protezione nazionale interno possa essere qualificato come una modalità di esercizio della clausola discrezionale, così da ritenere che la decisione di trasferimento da parte dell’autorità statale (che ha la facoltà di applicare la clausola in esame) manifesti un rifiuto tacito di avvalersene e ne consenta, dunque, la sindacabilità.

 

Il Tribunale di Trento, con  decreto del 29.2.2024 , esaminando il ricorso proposto da un cittadino del Pakistan avverso la decisione dell’Unità Dublino che ne aveva disposto il suo trasferimento in Austria, dopo aver ribadito che, in forza della giurisprudenza della Suprema Corte, la situazione giuridica soggettiva di cui è portatore il ricorrente nel contesto del procedimento per la determinazione dello Stato competente è quella di diritto soggettivo fondamentale che si radica nel diritto costituzionale d’asilo (artt. 2 e 10 Cost.), ha precisato che «il giudice cui si rivolga il cittadino di un Paese terzo contro un ordine di trasferimento è dunque chiamato a verificare non solo che siano state rispettate le regole di competenza stabilite dal regolamento, ma anche che non sia occorsa la violazione di un diritto soggettivo fondamentale della persona». Con riferimento agli elementi da prendere in considerazione per riconoscere, ove ne ricorrano i presupposti, la protezione speciale, con ricorso alla clausola discrezionale, il Tribunale sottolineato la rilevanza della durata del soggiorno, per poi chiarire che «nell’unitario procedimento di riconoscimento della protezione internazionale, l’Amministrazione ha l’obbligo, in base alla legge (articolo 19.1.1 del d.lgs. 286/1998) di esaminare anche la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione complementare, ossia di un diritto fondamentale protetto dalla Costituzione per quanto affermato dalla giurisprudenza a sezioni unite della Corte di cassazione». Ad avviso del Collegio, pertanto, il Ministero dell’interno, che ha l’attribuzione legale tanto dell’esame delle domande di protezione quanto della responsabilità di determinazione dello Stato membro competente a esaminare la domanda di protezione internazionale, quando emette un ordine di trasferimento debba, in base alla legge, sempre riscontrare l’assenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione speciale. Viene, inoltre, espressamente chiarito che «il fatto che, in base al Sistema comune europeo dell’asilo, il diritto alla protezione internazionale di questi richiedenti asilo debba essere esaminato (art. 18.1 b del regolamento) o sia stato esaminato (art. 18.1 del regolamento) da un altro Stato membro non esime lo Stato italiano dall’accertare la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione complementare, in presenza dei quali il ricorso alla clausola discrezionale diventa obbligatorio, pena la violazione di un diritto fondamentale del richiedente asilo». In merito al contenuto del sindacato giurisdizionale, nella decisione in esame, dopo aver ricordato che il ricorso alla clausola discrezionale da parte del giudice per la tutela di un diritto protetto dalla legge nazionale è consentito dal diritto europeo, è stato affermato che il controllo da parte del giudice sul mancato esercizio della clausola discrezionale, così come chiarito dalla Suprema Corte (nell’ordinanza n. 23724 del 2020), «deve essere effettuato attraverso la lente del diritto di accesso del ricorrente a questa forma di protezione costituzionalmente garantita». Nel caso portato all’attenzione del Collegio, pertanto, è stato ritenuto che «l’omesso esercizio della clausola discrezionale è così avvenuto in violazione di un diritto del ricorrente: il diritto di accesso alla procedura di esame per la protezione complementare», diritto che assume lo stesso rango del diritto tutelato.

Il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 20.2.2024 , dopo aver rilevato che la decisione della Corte di giustizia era intervenuta a distanza di oltre due anni e mezzo dalla proposizione dei rinvii e che «la durata del tutto eccezionale della procedura, resa necessaria dall’attesa della decisione della Corte di Giustizia, ha condotto dunque ad una condizione del tutto straordinaria, in aperto contrasto con le finalità del Regolamento», ha sottolineato che nella logica del regolamento sono stabiliti i casi in cui ogni Stato membro deve riconoscersi competente, mentre non è precluso che lo stesso possa riconoscersi competente sulla base di scelte discrezionali o comunque sulla base di regole stabilite dalla propria normativa interna e che, pertanto, come riconosciuto dalla stessa Corte di giustizia, «ciò che può configurarsi come discrezionale per il diritto dell’Unione, possa assumere invece carattere vincolato per la legge nazionale». Tanto premesso, il giudice ha osservato che l’eccezionale ed anomala durata della procedura diretta alla determinazione dello Stato competente (cui è verosimilmente corrisposta un altrettanto eccezionale durata del soggiorno della persona), configura, a norma dell’art. 19, comma 1.1. seconda parte, del d.lgs. n. 286 del 1998 (nel testo applicabile ratione temporis alla fattispecie portata all’attenzione del Tribunale), uno dei parametri principali per l’individuazione del pericolo che l’allontanamento dal Paese ospitante comporti una violazione della vita privata e familiare dello straniero. In forza di tali premesse, il Tribunale ha assegnato all’Unità Dublino un termine per verificare, nell’attualità ed alla luce del lunghissimo tempo trascorso, l’applicabilità dell’art. 17, comma 1, del regolamento. 

Il Tribunale di Firenze, con decreto dell’11.3.2024 , decidendo sul ricorso proposto da un cittadino pakistano avverso la decisione con la quale l’Unità Dublino aveva disposto il suo trasferimento in Austria, quale Paese ritenuto competente, dopo aver premesso che «una domanda implicita di protezione complementare è sempre già contenuta nella domanda di protezione internazionale», ha affermato che la protezione complementare, derivante da obblighi costituzionali ed internazionali, non è esclusa dal regolamento Dublino e, pertanto, ove se ne riconoscano sussistenti i presupposti, deve trovare applicazione «l’unico elemento di raccordo e chiusura del sistema, costituito dalla clausola di sovranità, in grado di salvaguardare l’applicazione del diritto interno, senza in alcun modo insidiare o compromettere la base fiduciaria posta a fondamento del sistema Dublino». Nel caso portato all’attenzione del Collegio, in ragione del percorso di integrazione sociale e lavorativa del ricorrente, è stato ritenuto che il suo rimpatrio si porrebbe in violazione dell’art. 8 CEDU e, previo annullamento della decisione di trasferimento, è stata accertata la competenza dello Stato italiano all’esame della domanda di protezione del ricorrente. 

Il Tribunale di Genova, con decreto del 16.4.2024 , esaminando il ricorso proposto da un cittadino del Bangladesh, il quale aveva invocato l’esercizio della clausola discrezionale in ragione del lungo tempo trascorso in Italia (ove era giunto nel settembre del 2022) e del percorso di integrazione lavorativa dallo stesso intrapreso, si è soffermato sulla questione relativa alla possibilità di fare ricorso all’applicazione della detta clausola per fatti sopravvenuti alla decisione di trasferimento. In particolare, è stato osservato che all’eccezionale ed anomala durata della procedura diretta alla determinazione dello Stato competente, è corrisposta una altrettanto eccezionale durata del soggiorno della persona sul territorio nazionale, con la conseguenza che l’allontanamento dal Paese ospitante del ricorrente comporterebbe una violazione della vita privata dello stesso (in contrasto con il disposto dell’art. 8 CEDU). Il rifiuto immotivato dell’amministrazione di far uso della clausola in sede di autotutela, ad avviso del Tribunale, «può essere oggetto di contestazione in questa sede giurisdizionale, al pari della sua impropria utilizzazione».

Anche il Tribunale di Torino, con decreto del 19.2.2024 , si è soffermato sulla questione relativa all’ambito di applicazione della clausola discrezionale ed ai rapporti tra la stessa e la protezione complementare. In particolare, dopo aver richiamato i principi affermati dalla Corte di giustizia, nella nota sentenza del 30 novembre 2023, il Collegio ha affermato che «il giudice del procedimento “Dublino” si confronta, in una fase incidentale del processo per il riconoscimento della protezione internazionale e nazionale, con diritti soggettivi fondamentali della persona e che la consistenza di diritto soggettivo fondamentale appartiene tanto alla situazione giuridica soggettiva che è tutelata dalle norme internazionali sullo status di rifugiato e dal Sistema comune europeo dell’asilo quanto a quella riconosciuta dalle norme nazionali sulla protezione complementare, con la conseguenza che il giudice cui in nessun caso compete un sindacato sul potere discrezionale dell’amministrazione cui si rivolga il cittadino di un Paese terzo contro un ordine di trasferimento è dunque chiamato a verificare non solo che siano state rispettate le regole di competenza stabilite dal regolamento ma anche che non sia occorsa la violazione di un diritto soggettivo fondamentale della persona». Anche nella decisione in esame, infine, si afferma che la durata del soggiorno del ricorrente in Italia rappresenta un fatto sopravvenuto di cui l’amministrazione dovrebbe tenere in considerazione per riconoscere, ove ne ricorrano i presupposti, la protezione speciale, con ricorso alla clausola discrezionale.

Ancora il Tribunale di Firenze, con decreto del 23.5.2024 , è tornato a pronunciarsi in merito al rapporto tra esercizio della clausola discrezionale e protezione complementare e, dopo aver esaminato la questione relativa alla ricostruzione dell’ordine di esame dei criteri di determinazione della competenza, ha affrontato la questione relativa alla portata del sindacato sulla violazione di diritti soggettivi in presenza di un provvedimento di trasferimento adottato dall’Unità Dublino e, richiamate e condivise tutte le argomentazioni contenute nelle ordinanze interlocutorie della Prima sezione civile, ha osservato che «se si precludesse al giudice nazionale di esercitare il potere/dovere di sindacato sull’esercizio della clausola discrezionale da parte dell’organo amministrativo che avesse negato il riconoscimento dei diritti conseguenti alle “disposizioni più favorevoli” previste dall’ordinamento interno (nel nostro caso anche di primario rango costituzionale), si finirebbe con l’introdurre un ostacolo al riconoscimento del diritto nazionale di asilo, non contemplato né dall’ordinamento UE né dal diritto interno. Tale impedimento sarebbe rappresentato dall’aver presentato in precedenza una domanda di protezione internazionale in altro Stato membro. Ma tale impedimento non è previsto dal diritto UE perché, per quanto si è argomentato, il regolamento in esame consente agli Stati membri di assumere, secondo le proprie regole interne, la responsabilità della decisione sulla domanda di protezione internazionale». Il Tribunale aggiunge, inoltre, come il suddetto ostacolo non possa ritenersi previsto neanche dal diritto interno, perché altrimenti «la regola di determinazione della competenza si tradurrebbe in una implicita disciplina dei presupposti di riconoscimento del diritto di asilo, sub specie di protezione complementare, per le ipotesi diverse dalla protezione internazionale, senza che ciò sia previsto da alcuna disposizione di legge ed in potenziale conflitto con la previsione costituzionale». 

Diverse le motivazioni che portano il Tribunale di Roma ad applicare la clausola discrezionale. Con  decreto del 12.3.2024 , i giudici capitolini, decidendo su un ricorso proposto avverso una decisione di trasferimento del richiedente in Austria, ritenuto competente per l’esame della domanda di protezione internazionale, hanno affermato che detto Stato sia affetto da carenze sistemiche, in primo luogo in ordine al sistema accoglienza. Alla luce di aggiornate e dettagliate fonti di informazione, anche relative al procedimento per il riconoscimento del diritto di asilo, il Collegio ha concluso che il trasferimento del richiedente in Austria «si ponga in contrasto con la previsione dell’art. 3, par. 2, del Regolamento UE n. 604 del 2013 e con quella dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non garantendo con certezza, o comunque al di là di ogni ragionevole dubbio, il rispetto dei diritti fondamentali del richiedente in tale Stato».

 

Regolamento Dublino ed obblighi informativi

La Suprema Corte, con ordinanza n. 10331 del 17.4.2024 , ha affermato che, in sede di decisione su ricorso avverso la decisione di trasferimento disposta dall’Unità Dublino, dovuta a ripresa in carico del richiedente protezione internazionale da parte di altro Stato membro, gli obblighi informativi cui è tenuta l’autorità amministrativa competente, contenuti negli artt. 4 e 5 del reg. UE n. 604 del 2013, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia nella sentenza del 30.11.2023, pur nell’unitarietà del procedimento, non possono ritenersi né assorbiti né fungibili con quelli disposti in funzione della domanda di protezione internazionale dall’art. 10 d.lgs. n. 25 del 2008, ma devono avere a specifico oggetto le domande (in sede di audizione) e le informazioni espressamente specificate nei citati artt. 4 e 5, in quanto funzionali a consentire al richiedente di fornire all’autorità tutte le informazioni utili ad individuare lo Stato membro competente all’esame della sua domanda di protezione internazionale; ne consegue che, ove questi specifici adempimenti non risultino assolti dall’autorità amministrativa, onerata della relativa prova, la decisione di trasferimento deve essere annullata.

 

 

La PROTEZIONE SPECIALE

La formalizzazione della domanda di protezione speciale diretta al questore

Il Tribunale di Torino, con ordinanza ex art. 700 c.p.c. del 9.5.2024 RG. 5352/2024 , ha esaminato un ricorso d’urgenza proposto da richiedente la protezione speciale che non era riuscito a farsi dare dalla questura un appuntamento per la sua formalizzazione, nonostante molteplici tentativi compiuti anche attraverso la sua legale, da ultimo con PEC. Con riguardo a quest’ultima modalità il giudice torinese la ritiene irrituale perché le modalità per la presentazione della domanda di protezione speciale sono indicate dalla questura sul proprio sito, coerenti con le Linee guida ministeriali, con accesso diretto allo Sportello immigrazione e dunque non è validamente presentata la domanda mediante PEC. Il Tribunale, tuttavia, ha accertato che in concreto quella modalità formalmente prevista dalla questura torinese si è rivelata del tutto inutile poiché i vari accessi del richiedente in questura non hanno avuto alcun esito e anzi il giudice ha affermato che «con il suo atteggiamento la PA abbia illegittimamente osteggiato la presentazione della domanda da parte dello straniero, con conseguente sussistenza del fumus boni iuris richiesta per la tutela cautelare richiesta». Precisa l’ordinanza che «la questura deve ricevere tali domande, non rilevando che la stessa ritenga che le motivazioni addotte dalla parte non siano sussumibili in tale fattispecie [ndr: la protezione ex art. 19 TU], potendo questo solo sostanziare un successivo rigetto della domanda e non il rifiuto della sua registrazione.» e, pertanto, in accoglimento del ricorso il Tribunale ha ordinato alla questura di Torino di ricevere e registrare la domanda.

 

La domanda diretta al questore dopo la riforma 2023

La riforma dell’art. 19 TU d.lgs. 286/98 recata dal d.l. n. 20/2023 e dalla sua legge di conversione n. 50/2023 ha posto non pochi problemi interpretativi e applicativi della protezione speciale, tra i quali il diritto alla conversione in permesso per lavoro (di cui si tratterà nel corso della odierna Rassegna) ma ancor prima del diritto alla presentazione della domanda di protezione speciale direttamente al questore. Si ricorda, brevemente, che prima della riforma 2023 la protezione speciale era riconoscibile espressamente in una duplice alternativa modalità: all’interno del procedimento di protezione internazionale oppure con domanda diretta al questore (art. 19, co. 1.2 TU 286/98). La riforma 2023 è intervenuta in due fasi: con d.l. n. 20/2023 (entrato in vigore l’11 marzo 2023) sono stati abrogati il 3° e 4° periodo del comma 1.1. dell’art. 19 (riferito al diritto al rispetto della vita privata e familiare e ai suoi criteri di accertamento), mentre in sede di conversione in legge n. 50/2023 (entrata in vigore il 5 maggio 2023) sono stati abrogati la parte del comma 1.2. dell’art. 19 che indicava la possibilità di richiesta diretta al questore e l’art. 6, co. 1-bis lett. a) TU d.lgs. 286/98 che consentiva la conversione del permesso da protezione speciale a lavoro.

Da precisare che il d.l. n. 20/2023 reca una disposizione transitoria (art. 7) sia per le domande presentate prima della sua entrata in vigore (soggette alla previgente disciplina) che per i permessi in corso di validità.

 

Il primo problema affrontato dalla giurisprudenza ha riguardato le domande presentate al questore da richiedente la protezione speciale successivamente all’entrata in vigore del decreto-legge.

Con  ordinanza 4.4.2024 RG. 4504/2024  il Tribunale di Bologna ha sospeso in via cautelare il provvedimento con cui il questore di Bologna ha rigettato la domanda di protezione speciale presentata successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 20/2023 ma precedentemente alla sua legge di conversione n. 50/2023. Rigetto motivato sulla base di un parere sfavorevole della Commissione territoriale di Bologna che si era dichiarata incompetente proprio perché domanda successiva all’entrata in vigore di detto decreto-legge. Secondo il Tribunale felsineo la suddetta Commissione avrebbe, invece, dovuto emettere il suo parere poiché l’abrogazione della parte dell’art. 19, co. 1.2. che consentiva la domanda diretta al questore è stata disposta solo con la legge di conversione n. 50/2023, mentre la domanda, oggetto di giudizio, era stata proposta precedentemente. Precisa, inoltre, il Tribunale che l’abrogazione del 3° e 4° periodo dell’art. 19 TU immigrazione non ha eliminato il dovere di valutazione degli obblighi costituzionali o internazionali di cui all’art. 5, co. 6 TU 286/98 compresi nell’art. 19, tra i quali certamente anche l’art. 8 CEDU oltre che gli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 della Costituzione, richiamando, al riguardo, una recente pronuncia di Cassazione (n. 28162/2023).

 

Sempre con riguardo agli effetti dell’abrogazione operata dal d.l. n. 20/2023 del 3° e 4° periodo dell’art. 19, co. 1.1. TU d.lgs. 286/98 si pone l’interessante  decreto 29.3.2024 RG. 6326-1/2024  del Tribunale di Napoli che in un ricorso ex art. 35-bis d.lgs. 25/2008 avverso decisione di inammissibilità ex art. 28-bis del medesimo d.lgs., ha rigettato la parte relativa alla protezione internazionale di richiedente asilo del Ghana (ritenendo che la 3^ domanda reiterata non contenesse elementi nuovi), ma ha riconosciuto la protezione speciale affermando innanzitutto che la grave crisi alimentare del Ghana, risultante dalle COI consultate, è elemento da tenere in considerazione per la protezione complementare, tenuto conto che, nonostante la riforma 2023, permangono i divieto di respingimento, espulsione ed estradizione indicati nell’art. 19, co. 1.1. anche con riferimento agli obblighi di cui all’art. 5, co. 6 TU immigrazione e «permane, pertanto, il dovere di valutare, in caso di allontanamento, il rispetto degli obblighi costituzionali ed internazionali richiamati dall’art. 5 co. 6 TUI, tra i quali vanno annoverati anche quelli assunti dall’Italia con la sottoscrizione della CEDU», richiamando la pronuncia di Cassazione n. 28162/2023.

Il Tribunale partenopeo ricorda che, secondo la CEDU, per il riconoscimento della vita privata e familiare va operato un bilanciamento tra le esigenze dello Stato di controllare gli ingressi e l’interesse personale del richiedente di rimanere nello Stato contraente, applicando gli standard di tutela dei diritti umani previsti dalla Convenzione. In applicazione di tali principi, nel caso oggetto di giudizio, il Tribunale ha rinvenuto, già in sede cautelare di sospensiva, sussistenti i presupposti per il riconoscimento al cittadino ghanese del diritto al rispetto della vista privata, tenuto conto che vive in Italia da 16 anni e ha saputo dimostrare un positivo percorso di inserimento lavorativo, mentre in Ghana sarebbe esposto alle conseguenze negative della grave crisi alimentare che affligge il Paese.

 

I presupposti della protezione speciale

Il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU)

La Corte di cassazione, ordinanza n. 3978/2024 , ha censurato una decisione del Tribunale di Bologna con cui era stato rigettato il ricorso per il riconoscimento della protezione speciale a cittadino della Tunisia perché arrivato in Italia da pochi mesi e dunque «Il tempo trascorso è infatti talmente irrisorio da non poter essere seriamente considerato come radicamento, per sua natura profondo e pressoché definitivo, tale da far sorgere un diritto meritevole di tutela.», irrilevante sia la temporanea attività lavorativa svolta, sia la presenza in Italia della moglie in stato di gravidanza e dei figli minori. La Suprema Corte richiama alcuni precedenti (Cass. n. 30736/2023 e n. 32851/2023), ricordando che i criteri per l’accertamento dei presupposti della protezione speciale in relazione all’art. 8 CEDU (nel testo vigente prima della riforma attuata con il d.l. n. 20/2023) sono autonomi tra loro e dunque già il vincolo familiare ha un rilievo in sé rispetto all’inserimento lavorativo. Quanto al requisito della durata della presenza in Italia, la Corte afferma che «Il mero dato temporale della durata della presenza in Italia della famiglia del richiedente la protezione speciale non può avere un rilievo esclusivo e decisivo in quanto il giudice del merito è chiamato piuttosto a valutare all’attualità la natura e l’effettività del legame familiare e a ponderare quali effetti lesivi produrrebbe il rimpatrio dell’intero nucleo familiare o il suo smembramento.».

 

 

I motivi economici della migrazione

Con   decreto 29.2.2024 RG. 3194/2023  il Tribunale di Venezia ha riconosciuto a richiedente asilo del Marocco la protezione speciale, dopo avere precisato che «Non si è proceduto al rinnovo dell’audizione in sede giudiziale, stante la natura economica delle ragioni poste a fondamento dell’espatrio, con conseguente insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale». Tutela complementare riconosciuta in ragione del percorso di integrazione sociale e lavorativa documentato, interrotto solo da un grave infortunio lavorativo. Interessante la parte della pronuncia in cui il giudice veneziano valorizza lo stato di grave precarietà economica in Marocco che ha determinato la necessità di emigrare ma anche il grave sfruttamento lavorativo subito nei 3 anni di permanenza in Spagna, che l’ha indotto a nuova emigrazione spostandosi in Italia.

 

La rilevanza dei pregiudizi penal 

Con  sentenza 15.3.2024 RG. 5749/2023  il Tribunale di Bologna ha esaminato un ricorso avverso un provvedimento di diniego di permesso per protezione speciale, richiesto prima della riforma ex d.l. n. 20/2023 da cittadino pakistano, da molti anni in Italia e già titolare di permesso di lungo soggiorno poi revocato, con percorso lavorativo in continua progressione ma gravato da vari precedenti penali. Il giudice felsineo, dopo avere ribadito la sussistenza della giurisdizione ordinaria, compie un’ampia ricostruzione dei principi giurisprudenziali della protezione umanitaria e della protezione speciale di cui al d.l. n. 130/2020, con particolare riferimento al diritto al rispetto della vita privata e familiare ex art. 8 CEDU, e, nello specifico del caso del ricorrente, afferma che nei lunghi anni trascorsi in Italia il cittadino pakistano ha «sviluppato in larga misura qui la propria stessa identità personale» e ha intrapreso un documentato percorso lavorativo e di autonomia abitativa. Affrontando la questione dei precedenti penali per reati uno solo dei quali con condanna passata in giudicato (per spaccio di sostanze stupefacenti) e gli altri sub judice, il Tribunale evidenzia che la risalenza nel tempo della commissione dell’illecito penale esclude di per sé l’attualità della pericolosità sociale, che va parimenti esclusa anche con riguardo ai reati per i quali manca una decisione giudiziale ma che di per sé non fanno emergere un quadro prognostico secondo il quale il richiedente tornerà a delinquere. Fermo restando, precisa il Tribunale, che «l’eventuale manifestarsi di ulteriori condotte pregiudizievoli potrà comunque dare luogo, tenuto conto della loro eventuale gravità, alla revoca del permesso di soggiorno.».

In conclusione, operato il bilanciamento tra il vissuto del richiedente in Italia e i pregiudizi penali, nella sentenza si afferma che «La ravvisata presenza di positivi riferimenti, unitamente al manifesto pregiudizio che verrebbe sicuramente patito dal ricorrente in ipotesi di subitaneo sradicamento dal territorio italiano e ai gravissimi disagi conseguenti alla ricerca di un nuovo radicamento nel territorio di origine, ormai lasciato da anni, inducono ad affermare dunque la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione speciale, attesa la necessità di proteggere il ricorrente dal rischio di una certa e rilevante compromissione di suoi diritti fondamentali e inviolabili».

 

Sempre il Tribunale di Bologna, con decreto cautelare 16.2.2024 RG. 579-1/2024  ha concesso la sospensiva in un ricorso cautelare avverso diniego di permesso di soggiorno per protezione speciale a cittadino delle Filippine in Italia da molti anni ma condannato per un grave reato, valorizzando sia il positivo percorso di rieducazione conseguito alla pena interamente scontata (durate il quale ha conseguito vari attestati di formazione e ammesso al lavoro all’esterno), sia l’attività lavorativa intrapresa dopo la conclusione della detenzione e pertanto la necessità di salvaguardare la vita privata e familiare del richiedente. Precisa il Tribunale che la sospensione cautelare del provvedimento impugnato ripristina la situazione giuridica dello straniero e pertanto egli ha diritto, nelle more del giudizio, al rilascio del cedolino attestante la richiesta di permesso e all’esercizio dei diritti ad esso connessi, in quanto la ricevuta del permesso per protezione speciale «ha valore di permesso di soggiorno provvisorio».

 

I pregiudizi penali e il rischio di refoulement

 

Ancora il Tribunale di Bologna, con sentenza 26.1.2024 RG. 10620/2023  ha affrontato il caso di un cittadino della Siria, soggiornante in Italia da più di 30 anni, al quale è stato negato il rinnovo del permesso di soggiorno (già per protezione umanitario e poi per protezione speciale) sulla base di un parere negativo della Commissione territoriale di Roma stante la ritenuta pericolosità sociale conseguente a condanna per un grave reato (omicidio). Dopo attenta ricostruzione del vissuto in Italia del ricorrente, il Tribunale rinviene conferma della sua pericolosità sociale in quanto, pur se il fatto per il quale è stato condannato è risalente nel tempo, durante la detenzione egli non ha mostrato nessuna consapevolezza del proprio comportamento illecito e anzi si è gravato di ulteriori violazioni penali, oltre a non avere dimostrato alcun percorso di integrazione sociale nel periodo al di fuori del carcere. Nel necessario bilanciamento tra le esigenze statali di sicurezza e ordine pubblico e la tutela della vita privata del richiedente, anche il giudice bolognese conferma, dunque, la prevalenza delle prime rispetto alla seconda. Tuttavia, consapevole dell’ampiezza e delle varietà dei presupposti indicati dall’art. 19, commi 1 e 1.1. TU d.lgs. 286/98, il Tribunale esamina l’eventuale rilevanza del rischio persecutorio di cui al comma 1, escludendolo per le ragioni già individuate dalla Commissione territoriale di Roma all’epoca del riconoscimento della protezione umanitaria. Con riguardo, invece, ai rischi di tortura o di trattamenti inumani e degradanti o qualora si rinvengano obblighi costituzionali o internazionali ex art. 5, co. 6 TU immigrazione, presupposti delineati nel comma 1.1. prima parte, il giudice felsineo afferma che «Tale disposizione rappresenta nel nostro ordinamento l’applicazione del principio di non refoulement contemplato da plurime fonti sovraordinate europee ex art. 19 para. 2 CDFUE e art. 21 co. 1 direttiva 2011/95/UE e internazionali ex art. art 33 Convenzione di Ginevra e art. 3 CEDU, nonché indirettamente da fonti costituzionali ex art. 10 co. 2 Cost. e 117 co. 1 Cost.», che ricalca, in sostanza, la previsione di cui all’art. 14 d.lgs. 251/2014 (protezione sussidiaria) e applicabile allorquando sussistano motivi ostativi al suo riconoscimento. Un’importante precisazione affermato nella sentenza è che «L’art. 19 co. 1.1 d.lgs. n. 286/1998, interpretato unitamente ai vincoli internazionali e sovranazionali, esprime un divieto di respingimento concepito come assoluto (cfr. CGUE sentenza 14 maggio 2019, cause riunite C-391/16, C-77/17, C-78/17), ogniqualvolta vi sia un rischio concreto e attuale che lo straniero subisca un pregiudizio in relazione a beni giuridici fondamentali, quali la vita e l’integrità fisica. Sebbene infatti la norma testualmente non ricomprenda il rischio di perdere la vita in caso di rimpatrio, l’art. 19 co. 1.1 d.lgs. n. 286/1998 deve essere interpretato in senso ampio, al fine di evitare una irrazionale interpretazione nel senso di garantire la protezione dal rimpatrio allo straniero che tema di essere torturato o sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e non anche al colui il quale rischi la vita.». Affermata, dunque, la natura assoluta del divieto di refoulement in presenza di rischi di tal natura, che rende irrilevante la pericolosità dello straniero, in continuità con il proprio orientamento il Tribunale di Bologna afferma che «… il riconoscimento della protezione in applicazione della norma in esame è subordinato al raggiungimento di uno standard minimo di violazione effettiva dei diritti umani che, complessivamente considerata, porti a ritenere fondato il rischio di tortura o di trattamenti inumani e degradanti in caso di rimpatrio, di regola dipendente da fattori oggettivi esterni ed estranei allo straniero che possano incidere eziologicamente sulle condizioni personali di vita del richiedente.», tenendo dunque conto di «molteplici fattori, tra i quali l’esistenza, anche circoscritta ad una specifica zona, di conflitti c.d. a bassa intensità, la presenza di sfollati interni, l’inaccessibilità o la carenza di risorse idriche potabili, uccisioni illegali, detenzioni arbitrarie di massa, uso della tortura o di punizioni inumani e degradanti.».

Accertata, dunque, attraverso specifiche COI l’esistenza in Siria di molteplici fattori di rischio – dal conflitto civile interno che perdura da anni, alle conseguenze di un devastante recente terremoto, alla grave crisi economica che priva di sostentamento milioni di persone e alla carenza di erogazione dei servizi essenziali di base a tutela della salute e all’intensificarsi di un conflitto bellico anche con forze esterne al Paese – il Tribunale ha riconosciuto al ricorrente la protezione speciale in relazione al divieto di refoulement.

Quanto al regime giuridico del permesso di soggiorno conseguente all’applicazione, nei termini sopra descritti, del divieto di refoulement, precisa il Tribunale che il permesso umanitario riconosciuto al ricorrente nel 2012 dalla Commissione territoriale in ragione dell’ostatività del grave reato commesso escludeva la convertibilità di questo peculiare permesso in motivi di lavoro già prima della riforma 2023 dell’art. 19 e dell’art. 6, co. 1-bis lett. a) TU d.lgs. 286/98, tanto più dopo l’abrogazione di detto art. 6.

 

I pregiudizi penali e il diritto al rispetto della vita privata e familiare

 

Il Tribunale di Roma, con ordinanza 7.5.2024 RG. 13029/2024 , ha accolto in sede cautelare il ricorso d’urgenza proposto da una cittadina delle Filippine in Italia da più di 30 anni, alla quale la questura di Roma ha revocato il permesso UE di lungo soggiorno in conseguenza di una condanna per il reato di spaccio comminatale nel 2019. Revoca cui è seguito, al momento della scarcerazione, l’emanazione di decreto di espulsione e trattenimento nel CPR di Ponte Galeria a Roma (non convalidato dal Giudice di pace). Già in sede procedimentale la ricorrente aveva chiesto alla questura di valutare i legami familiari della richiedente in Italia (dove vivono la figlia, titolare di PSUE, e i nipoti) e l’assenza di legami con le Filippine stante la risalente emigrazione, chiedendo conseguentemente il rilascio di un permesso per motivi familiari o di protezione speciale. A fronte del diniego di accoglimento di dette istanze, la donna ha proposto ricorso d’urgenza, sia per la contestuale espulsione sia per l’assenza di alcun titolo di soggiorno che le consentisse di esercitare un minimo di diritti sociali, quali l’iscrizione al SSN e all’anagrafe.

Il Tribunale di Roma censura, innanzitutto, l’eccezione dell’Avvocatura di Stato di difetto di giurisdizione (la revoca del PSUE sarebbe di competenza del Tribunale amministrativo) affermando che poiché le domande giudiziali afferiscono al permesso per motivi di famiglia o in subordine a quello per protezione speciale, indubbiamente appartengono alla piena giurisdizione ordinaria. Nel merito, il Tribunale censura il mancato bilanciamento da parte della questura tra la condanna subita e i criteri elaborati dalla giurisprudenza CEDU per esso, quali la durata del soggiorno, la natura e la gravità dell’infrazione penale, il tempo trascorso e la condotta mantenuta successivamente, la solidità dei legami sociali culturali e familiari con lo Stato ospite (Corte EDU, GC, 23.6.2008, Maslov e Corte EDU 15.11.2012 Shala). Bilanciamento la cui necessità è stata di recente affermata anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 88/2023.

Rapportati quei principi e il non automatismo ostativo alla condanna nel caso di specie, il giudice romano afferma la prevalenza dei legami familiari e sociali della ricorrente in Italia e l’assenza di effettivi legami con le Filippine, riconoscendole pertanto, nelle more del giudizio, il diritto al rilascio di un permesso provvisorio fino alla definizione del procedimento giudiziale. 

 

La violenza domestica

 

Con   decreto 27.9.2023 RG. 2468/20  il Tribunale di Milano ha riconosciuto a una donna di El Salvador, richiedente asilo, la protezione speciale in ragione della vulnerabilità derivante dall’essere stata vittima in Italia di violenza domestica. Dopo avere escluso il riconoscimento della protezione internazionale per difetto di credibilità delle sue dichiarazioni e non pertinenza con i presupposti delle due forme di tutela principale, il giudice ricostruisce il vissuto della giovane donna (a cui era già nato un figlio all’età di 17 anni), arrivata in Italia nel 2018, la quale ha intrapreso una relazione affettiva con un connazionale che l’ha ospitata inizialmente in cambio di lavori domestici e dal quale è divenuta, però, vittima di violenze e da cui ha avuto un figlio non riconosciuto dal padre. Dopo un’iniziale resistenza alla denuncia del compagno e una fuga dal sistema di protezione – che ha determinato l’intervento del Tribunale per i minorenni per la limitazione della responsabilità genitoriale e l’affidamento familiare del minore – la giovane donna ha finalmente sporto denuncia ed è assistita dai Servizi del Comune di Milano, ha intrapreso un percorso psicoterapeutico e vede con regolarità il figlio. Il Tribunale ha dunque rinvenuto nel vissuto della richiedente una specifica vulnerabilità, che «non può ritenersi esclusa, oggi, dalla valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione speciale in forza della novella legislativa, trattandosi di ipotesi che non solo non sono state eliminate dal legislatore nella riformulazione (parziale) del principio di non refoulement, ma sono immanenti all’intero impianto normativo della protezione internazionale (che prevede ipotesi tassative seppur non esaustive di casi di vulnerabilità ai sensi dell’art. 2 co. 1 lett. h-bis d.lgs. n. 25/2008) di cui la protezione speciale (protezione umanitaria nella disciplina antecedente al d.l. n. 130/2020 conv. l. n. 173/2020) costituisce una protezione complementare, espressione del diritto di asilo costituzionalmente tutelato dall’art. 10 Cost.». [ndr: Affermazione che riguardava la portata dell’art. 19 TU immigrazione conseguente alla riforma di cui al d.l. n. 130/2020 ma che hanno evidentemente una portata generale].

Vulnerabilità che afferisce al rispetto della vita privata e familiare e rende riconoscibile la protezione speciale a prescindere dalla credibilità delle dichiarazioni della richiedente asilo (Cass. n. 32237 del 2021).

 

L’insicurezza sociale nel Delta State (Nigeria)

 

Con  decreto 18.12.2023 RG. 4619/2022  il Tribunale di Brescia ha riconosciuto la protezione speciale a richiedente asilo della Nigeria, proveniente dal Delta State, in applicazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare (padre di una minore nata dalla relazione con la compagna titolare di status di rifugio politico) ma anche e soprattutto in relazione alla grave insicurezza sociale presente nel Delta del Niger, accertata con specifiche e aggiornate COI, anche se non integranti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14 lett. c) d.lgs. 251/2007. Secondo il Tribunale, infatti, «La situazione di grave instabilità e insicurezza che connota il Delta State è tale da integrare una condizione di vulnerabilità oggettiva valorizzabile ai fini del non refoulement: in caso di rimpatrio il ricorrente rischierebbe di subire un pregiudizio rispetto a beni giuridici fondamentali, tra cui l’incolumità.».

Protezione riconosciuta nonostante il ricorrente sia risultato gravato da condanna penale per sfruttamento della prostituzione per fatti risalenti al 2016. Condanna che nel bilanciamento con il diritto all’unità familiare ha visto prevalere quest’ultimo per la risalenza del fatto-reato nel tempo e l’assenza di ulteriori pregiudizi penali.

Da precisare che il ricorrente aveva presentato una domanda reiterata di protezione internazionale, ritenuta inammissibile sia dalla Commissione territoriale sia dal Tribunale per difetto di elementi nuovi rispetto alla domanda originaria. Inoltre, in corso di giudizio la difesa del ricorrente aveva chiesto l’applicazione dell’art. 7-quinques legge n. 50/2023 (che consentiva di limitare le domande oggetto di giudizio al solo riconoscimento della protezione speciale per i giudizi introdotti prima del 31.12.2021), ritenuta inammissibile perché il giudizio è stato introdotto nel 2022.

 

Protezione temporanea e successiva protezione speciale

 

Un’interessante  sentenza del Tribunale di Roma, del 14.2.2024 RG. 37931/2023  ha affrontato il caso di una cittadina ucraina già titolare di protezione temporanea (conseguito dopo l’arrivo in Italia a seguito dello scoppio del noto conflitto bellico tra Ucraina e Russia) la quale ha provato più volte a presentare alla questura di Roma istanza di protezione speciale per sé e i figli minori. Tentativi inoltrati sia direttamente in questura sia via PEC, anche con diffida, rispetto ai quali l’Amministrazione non ha mai risposto, rendendo necessaria la proposizione di un ricorso d’urgenza con cui la donna ucraina ha chiesto il rilascio di un permesso per protezione speciale.

Il Tribunale respinge la domanda di rilascio diretto del permesso di soggiorno, ritenendo necessario che essa sia previamente valutata in sede amministrativa, non potendo l’autorità giudiziaria pronunciarsi prima che l’Amministrazione abbia esercitato un potere attribuitole dal legislatore. Il giudice, tuttavia, censura di illegittimità il comportamento omissivo della questura che non ha consentito la formalizzazione della domanda di protezione speciale, comprovati in giudizio i vari tentativi compiuti. Nella pronuncia si analizza la differenza giuridica tra la protezione temporanea e la protezione speciale: la prima mera aspettativa, ex art. 2 direttiva 2001/55/CE, e non diritto soggettivo come, invece, la protezione internazionale, tutela collettiva e non individuale e si afferma la non preclusività della domanda di protezione internazionale rispetto alla protezione temporanea, confermata anche dall’art. 3 d.lgs. 85/2023 (attuativo della direttiva 2001/55), sia pur con valutazione in tempi differiti ma con estensione anche all’art. 19 TU d.lgs. 286/98. Pertanto, la conclusione del Tribunale è di assenza di alcuna preclusione alla domanda di protezione speciale di chi è titolare di protezione temporanea «con l’unico limite costituito dall’esame differito della domanda al momento della cessazione della protezione temporanea».

Quanto alla possibilità di presentare la domanda di protezione speciale direttamente al questore, il Tribunale precisa che, a differenza di quanto sostenuto verbalmente dalla questura, era previsione espressamente prevista dall’art. 19, co. 1.2. TU immigrazione fino al 5 maggio 2023, data di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della legge n. 50/2023 che convertendo il d.l. n. 20/2023, ha abrogato la parte di detto comma che la consentiva e poiché nel caso di specie la PEC inviata alla questura era del 15 aprile 2023 era perfettamente ammissibile, tenuto conto che la manifestazione di volontà di richiedere protezione non è subordinata ad alcuna forma, ex art. 2 d.lgs. 142/2015. Il Tribunale, pertanto, accoglie il ricorso e ordina alla questura di Roma di formalizzare la domanda di protezione speciale inviando alla Commissione territoriale per il parere previsto dall’art. 19, co. 1.2. TU d.lgs. 286/98, con esame differito alla cessazione della protezione temporanea. 

 

La conversione del permesso da protezione speciale a lavoro

La questione della convertibilità del permesso per protezione speciale in permesso per lavoro è stata oggetto di numerosissimi interventi giudiziali a seguito di ricorsi presentati a fronte di provvedimenti delle questure di ritenuta inammissibilità delle istanze presentate dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 20/2023 oppure dopo la sua legge di conversione n. 50/2023 (che ha abrogato l’art. 6, co. 1-bis lett. a) TU d.lgs. 286/98) nonostante l’art. 7 di detto decreto legge contenga una disposizione transitoria sia per il regime giuridico dei permessi conseguenti a domande presentate prima del d.l. n. 20, sia per i permessi già rilasciati.

I giudizi sono stati proposti in parte davanti al Tribunale ordinario e on maggioranza davanti al Tribunale amministrativo regionale e in tutte le sedi l’autorità giudiziaria ha ritenuto convertibili i permessi di soggiorno rilasciati prima della legge di conversione n. 50/2023 o per i permessi rilasciati a seguito di domande di protezione speciale presentate prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 20/2023.

Si segnalano, al riguardo, tra le tante: Tar Piemonte ord. n. 122/2024 e n. 546/2024 (nomina commissario ad acta per inottemperanza a ord. n. 122), ord. n. 1372024, ord. n. 169/2024 – Tar Milano sent. n. 1484/2024 – Tar Brescia sent. n. 260/2024 – Tar Venezia sent. 1186/2024 – Tar Bologna sent. n. 246/2024, sent. n. 227/2024, sent. n. 215/2024, ord. n. 35/2024 – Tar Firenze sent. n. 512/2024 (reperibili sul sito www.giustizia-amminitrativa.it).

Inoltre, si segnalano anche Trib. Bologna 5.4.2024 RG. 2556/2024 , Tribunale di Firenze 15.2.2024 , Tribunale di Ancona 23.5.2024 .

Una recente circolare del Ministero dell’interno del 31.5.2024 prot.0049449 ha in parte risolto la problematica su parere dell’Avvocatura di Stato, più volte sollecitata nei giudizi dai Tar. Per un suo commento si rinvia alla Rassegna di Osservatorio italiano in questo numero della Rivista, a cura di Paolo Bonetti.

 

 

PROTEZIONE SPECIALE e ISCRIZIONE ANAGRAFICA 

La ricevuta della domanda di protezione speciale e l’iscrizione anagrafica

Sulla questione del diritto di iscrizione anagrafica del/della titolare di ricevuta di permesso per protezione speciale si sono pronunciati, per il riconoscimento del diritto, il Tribunale di Bologna e il Tribunale di Napoli.

Il Giudice felsineo, con ordinanza ex art. 700 c.p.c. del 15.3.2024 RG. 1924/2024  ha accertato il diritto soggettivo all’iscrizione all’Anagrafe del Comune di Bologna di un richiedente la protezione speciale, in possesso di ricevuta rilasciata dalla questura nel procedimento amministrativo, al quale l’Ente aveva rifiutato l’iscrizione anagrafica ritenendo non rientrasse tra le tipologie di permesso di soggiorno idonee. Il Tribunale ripercorre il proprio orientamento giurisprudenziale secondo cui la protezione speciale fa parte del complessivo sistema asilo e pertanto la condizione giuridica sottesa è analoga a quella del/della richiedente la protezione internazionale e il permesso provvisorio rilasciabile ex art. 4 d.lgs. 142/2015 ha un identico valore giuridico. Conseguentemente, «Accertato che il ricorrente, avendo ottenuto la ricevuta della domanda di protezione speciale è titolare di un permesso di soggiorno provvisorio, si deve rilevare come alla regolarità del soggiorno consegua certamente il diritto alla iscrizione anagrafica. Il diritto soggettivo del titolare di un permesso di soggiorno provvisorio di ottenere l’iscrizione anagrafica e il correlato obbligo del Comune è invero ormai pacifico, in seguito al noto intervento della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1-bis, del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142 e 13 del d.l. n. 113 del 2018 [Corte costituzionale, sentenza n. 186 del 31 luglio 2020 …]».

 

Alle medesime conclusioni è pervenuto il Tribunale di Napoli con ordinanza 18.3.2024 RG. 2071/2024 , all’esito di un contenzioso che ha visto contrapporsi il ricorrente titolare di ricevuta di richiesta protezione speciale e il Comune di Napoli che gli ha rifiutato l’iscrizione anagrafica ritenendo non applicabile in via analogica l’art. 4 d.lgs. 142/2015. Il Tribunale, premessa la propria giurisdizione, rigetta l’eccezione del Comune di Napoli che si riteneva privo di legittimazione passiva poiché titolare della funzione anagrafica sarebbe il solo Ministero dell’interno, non evocato in giudizio. Secondo il giudice partenopeo, infatti, in materia anagrafica il Sindaco agisce in qualità di Ufficiale di Governo, mentre al Ministero dell’interno residua un potere di vigilanza e dunque un’eventuale partecipazione volontaria, ma non necessaria, al giudizio.

Nel merito, il Tribunale richiama la sentenza n. 186/2020 della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima la preclusione all’iscrizione anagrafica del richiedente asilo (nel testo dell’art. 5 d.lgs. 142/2015 vigente dopo la riforma operata dal d.l. n. 113/2018) e afferma implicitamente l’unitarietà della condizione giuridica del richiedente la protezione internazionale e della protezione speciale, conseguentemente ordinando al Comune di Napoli di procedere «all’immediata iscrizione anagrafica del ricorrente».

 

 

IL DIRITTO di ACCOGLIENZA

Disabilità e diritto di accoglienza nelle strutture del SAI

Il caso esaminato dal Tar Lazio, Roma, sentenza n. 16454/2023 riguarda il diritto all’accoglienza in SAI di due sorelle tunisine richiedenti la protezione internazionale in ragione della discriminazione subita in Tunisia in conseguenza della grave disabilità che le affligge, alle quali la Commissione territoriale ha riconosciuto il diritto al permesso per cure mediche, non ritenuto sufficiente dalle interessate che hanno proposto un ricorso ex art. 35-bis d.lgs. 25/2008. Richiesta di inserimento nel SAI negato per indisponibilità di posti idonei a garantire le cure sanitarie necessarie alle due richiedenti asilo. Dopo l’esaurimento della fase cautelare (sospensiva negata dal Tar poiché nel frattempo le richiedenti erano accolte in un CAS che consentiva un adeguato trattamento sanitario, poi riconosciuta invece dal Consiglio di Stato perché è dovere dell’Amministrazione dello Stato verificare la possibilità di inserimento in SAI idoneo) il Tar Roma accoglie il ricorso annullando il provvedimento del Servizio centrale di rifiuto dell’inserimento in SAI. Il Giudice amministrativo innanzitutto qualifica le richiedenti come persone vulnerabili in ragione delle loro gravi condizioni di salute, secondo quanto previsto dall’art. 17 d.lgs. 142/2015, il cui comma 3 prevede proprio servizi assistenziali particolari, confermato anche da quanto stabilito dall’art. 9, co. 1-bis del medesimo d.lgs., che richiama le Linee guida del Ministero della salute per l’adozione di adeguate misure di accoglienza. Secondo il Tar anche il decreto ministeriale 18.11.2019 del Ministero dell’interno relativo alle modalità di finanziamento del SAI, all’art. 34 dell’Allegato n. 1 conferma l’onere per l’ente locale di attivare programmi di supporto, cura e riabilitazione con la struttura sanitaria per garantire assistenza specialistica e/o prolungata a beneficiari disabili o con necessità di assistenza sanitaria specialistica. Afferma la sentenza che dall’insieme delle richiamate disposizioni normative «emerge la contrarietà a legge del provvedimento impugnato, che non può negare l’inserimento delle ricorrenti in un centro d’accoglienza in grado di garantirne le esigenze specifiche, effettuando nel caso i necessari coordinamenti con le ASL competenti per territorio e con gli enti locali di riferimento.» e conseguentemente «La locuzione “sulla base delle specifiche esigenze e nel limite dei posti disponibili”, di cui all’art. 9 del citato d.lgs. n. 18 agosto 2015, n. 142, non può infatti abilitare alcun arresto procedimentale nelle ipotesi in cui non siano state ancora reperite strutture idonee alla presa in carico del soggetto vulnerabile, imponendosi in capo all’Amministrazione un obbligo di risultato, al fine di garantire le esigenze fondamentali dei richiedenti, continuando a reperire strutture idonee.».

Sito realizzato con il contributo della Fondazione "Carlo Maria Verardi"

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