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Fascicolo 2, Luglio 2024


«Il volontariato, nelle sue diverse forme, è un orgoglio del nostro Paese. Trasmette energia preziosa. I valori che esprime sono parte della cultura e della stessa identità del nostro popolo. Questo è il carattere dell’Italia, ampiamente diffuso nella concreta vita quotidiana, ed è quel che la rende, in conformità alla sua storia, un Paese di grande civiltà.

Contro questa grande civiltà stridono - gravi ed estranei - episodi e comportamenti come quello avvenuto tre giorni fa, quando il giovane Satnam Singh, lavoratore immigrato, è morto, vedendosi rifiutati soccorso e assistenza dopo l’ennesimo incidente sul lavoro.

Una forma di lavoro che si manifesta con caratteri disumani e che rientra in un fenomeno - che affiora non di rado - di sfruttamento del lavoro dei più deboli e indifesi, con modalità e condizioni illegali e crudeli.

Fenomeno che, con rigore e con fermezza, va ovunque contrastato, totalmente eliminato e sanzionato, evitando di fornire l’erronea e inaccettabile impressione che venga tollerato ignorandolo».

Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica, 22.6.24

Non discriminazione

Nel corso del primo quadrimestre del 2024 sono intervenute tre interessanti pronunce della Corte costituzionale che hanno affrontato il tema della discriminazione in relazione a diversi profili. Avanti ai giudici di merito sono state segnalate varie questioni relative alla violazione della parità di trattamento fra cittadini italiani e stranieri in prevalenza nella consueta materia delle prestazioni di assistenza sociale. 

Discriminazione per ragione di nazionalità  

La Corte costituzionale con la sentenza n. 15/2024, depositata in data 12 febbraio 2024, ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Udine in funzione di giudice del lavoro nell’ambito di un ricorso proposto ex art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, dichiarando «l’illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 19 febbraio 2016, n. 1 (Riforma organica delle politiche abitative e riordino delle Ater), nella parte in cui stabilisce che l’ivi prevista documentazione attestante che tutti i componenti del nucleo familiare non sono proprietari di altri alloggi nel Paese di origine e nel Paese di provenienza – documentazione richiesta per dimostrare l’impossidenza di altri alloggi, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera d), della medesima legge regionale – debba essere presentata dai cittadini extra UE soggiornanti di lungo periodo con modalità diverse rispetto a quelle utilizzabili dai cittadini italiani e dell’Unione europea» ribadendo i principi già affermati nella sentenza n.9 del 2021.

Si legge al riguardo nella sentenza in esame al punto 9.1 «Questa Corte, in relazione a norma analoga a quella oggetto dell’odierna questione di legittimità costituzionale, ha già avuto modo di osservare che un siffatto onere documentale […] “risulta in radice irragionevole innanzitutto per la palese irrilevanza e per la pretestuosità del requisito che mira a dimostrare” (sentenza n. 9 del 2021). Quando, come nel caso di specie, obiettivo del legislatore regionale è riconoscere «il valore primario del diritto all’abitazione quale fattore fondamentale di inclusione, di coesione sociale e di qualità della vita» (art. 1, comma 1, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016) e a tal fine sostiene «l’accesso a un alloggio adeguato, in locazione o in proprietà come prima casa ai cittadini della Regione, in particolare alle fasce deboli della popolazione» (art. 1, comma 2, della medesima legge regionale), «il possesso da parte di uno dei componenti del nucleo familiare del richiedente di un alloggio adeguato nel Paese di origine o di provenienza non appare sotto alcun profilo rilevante. Non lo è sotto il profilo dell’indicazione del bisogno, giacché, intesa l’espressione “alloggio adeguato” come alloggio idoneo a ospitare il richiedente e il suo nucleo familiare, è evidente che la circostanza che qualcuno del medesimo nucleo familiare possegga, nel Paese di provenienza, un alloggio siffatto non dimostra nulla circa l’effettivo bisogno di un alloggio in Italia» (sentenza n. 9 del 2021). Non è, inoltre, neppure un indicatore della situazione patrimoniale del richiedente, peraltro già considerata, ai sensi dell’art. 29, comma 1, lettera b, della legge regionale n. 1 del 2016, dal necessario «possesso di determinati indicatori della situazione economica» di cui al d.p.c.m. n. 159 del 2013. Nella medesima occasione, si è altresì rilevato che una norma del genere è anche discriminatoria «solo che si consideri il fatto che le asserite difficoltà di verifica del possesso di alloggi in Paesi extraeuropei possono riguardare anche cittadini italiani o di altri Paesi dell’Unione europea» (sentenza n. 9 del 2021). Essa, pertanto, pone in essere «un aggravio procedimentale che si risolve in uno di quegli “ostacoli di ordine pratico e burocratico” che questa Corte ha ripetutamente censurato, ritenendo che in questo modo il legislatore (statale o regionale) discrimini alcune categorie di individui (sentenze n. 186 del 2020 e n. 254 del 2019)» (ancora sentenza n. 9 del 2021; in termini analoghi, in riferimento ad altro onere documentale, sentenza n. 157 del 2021). 9.2.− L’onere documentale di cui alla disposizione censurata è, d’altra parte, manifestamente in contrasto anche con l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE, nell’ambito della cui attuazione «gli Stati membri devono rispettare i diritti e osservare i principi previsti dalla Carta, segnatamente quelli enunciati dall’articolo 34 di quest’ultima. Conformemente a quest’ultimo articolo, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa destinate a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti» (Corte di giustizia, sentenza 10 giugno 2021, in causa C-94/20, Land Oberösterreich). A tale direttiva l’Italia ha dato attuazione con il decreto legislativo n. 3 del 2007, senza avvalersi della possibilità, prevista dall’art. 11, paragrafo 4, della direttiva indicata, di limitare la parità di trattamento alle prestazioni essenziali: deroga, questa, cui può ricorrersi, secondo la Corte di giustizia, unicamente quando lo Stato membro esprima chiaramente la relativa intenzione (Corte di giustizia, sentenza 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj). L’art. 1, comma 1, lettera a), di tale decreto ha sostituito l’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, che detta la disciplina concernente il «Permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo». Il comma 12 di detto art. 9 prevede, in particolare, che il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo può «c) usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, compreso l’accesso alla procedura per l’ottenimento di alloggi di edilizia residenziale pubblica, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l’effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale». La legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016, nel prevedere, tra le altre azioni attuative del programma di politiche abitative, quella di sostegno alle locazioni (art. 19), offre una prestazione essenziale ai sensi dell’art. 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109/CE, in quanto essa è «destinata a consentire a persone che non dispongono di risorse sufficienti di far fronte alle proprie esigenze abitative, in modo da garantire loro un’esistenza dignitosa» (Corte di giustizia UE, in causa C-94/20). Non v’è dubbio, allora, che si tratti di prestazione che deve essere assicurata ai cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo «consentendo loro di alloggiare adeguatamente, senza impegnare nella casa una parte eccessiva dei loro redditi, a scapito, eventualmente, del soddisfacimento di altre necessità elementari» (ancora Corte di giustizia UE, in causa C-94/20). La disposizione censurata, ponendo in capo ai cittadini di Paesi terzi titolari di permesso di lungo soggiorno oneri documentali diversi rispetto a quelli previsti per cittadini italiani e UE, impedisce allora a tali soggetti di «ricevere le prestazioni sociali alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato membro» (sentenza n. 67 del 2022), come imposto invece dall’art. 11 della direttiva 2003/109/CE.».

Il riferimento contenuto nella sentenza della Corte ai soli titolari di permesso di lungo periodo dipende dalla formulazione dell’eccezione sollevata limitatamente a questa categoria di stranieri anche se le sopra richiamate argomentazioni possono essere applicate a tutti gli stranieri come evidenziato, del resto, nella sentenza n. 9/2021 più volte richiamata. 

La Corte costituzionale, nella medesima sentenza, ha deciso anche il ricorso per conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione Friuli-Venezia Giulia dichiarando che: «2) non spettava al Tribunale ordinario di Udine, in funzione di giudice del lavoro, ordinare la rimozione dell’art. 12, comma 3-bis, del decreto del Presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia 13 luglio 2016, n. 0144, recante “Regolamento di esecuzione per la disciplina degli incentivi di edilizia agevolata a favore dei privati cittadini, a sostegno dell’acquisizione o del recupero di alloggi da destinare a prima casa di abitazione di cui all’articolo 18 della legge regionale 19 febbraio 2016, n. 1 (Riforma organica delle politiche abitative e riordino delle Ater)” (punto 2 del dispositivo dell’ordinanza 31 gennaio - 1 febbraio 2023, resa nel procedimento R.G. 358/2022), senza prima aver sollevato questione di legittimità costituzionale sull’art. 29, comma 1-bis, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 1 del 2016; né, conseguentemente, spettava al medesimo Tribunale adottare l’apparato coercitivo sanzionatorio conseguente al suddetto ordine di rimozione (punti 3, 7 e 8 del dispositivo della medesima ordinanza).».

La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia aveva chiesto, in via principale, che fosse dichiarato che non spettasse allo Stato, e per esso al Tribunale ordinario di Udine, in funzione di giudice del lavoro, adottare l’ordinanza 31 gennaio - 1 febbraio 2023, resa nel procedimento R.G. 358/2022, nella parte in cui, nell’ambito di un’azione civile contro la discriminazione per motivi di nazionalità, ha ordinato alla Regione autonoma (punto 2 del dispositivo) di modificare il decreto del Presidente della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 13 luglio 2016, n. 0144, «nella parte che prevede per i cittadini extracomunitari soggiornanti di lungo periodo requisiti o modalità diverse rispetto a quelli previsti per i cittadini comunitari per attestare l’impossidenza di alloggi in Italia e all’estero e garantendo invece che i cittadini comunitari e quelli extracomunitari soggiornanti di lungo periodo possano documentare allo stesso modo l’impossidenza di cui all’art. 9, comma 2 lett. c) dello stesso regolamento». L’oggetto del conflitto era esteso anche alla parte dell’ordinanza in cui si adotta un apparato coercitivo sanzionatorio conseguente al suddetto ordine di modifica del regolamento regionale (punti 3, 7 e 8 del dispositivo). In subordine, la Regione ha chiesto che fosse dichiarato che non spettava al Tribunale di Udine adottare l’impugnata ordinanza, nelle parti indicate, «senza aver prima chiesto ed ottenuto da codesta Corte costituzionale la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 29, comma 1-bis, della legge regionale n. 1 del 2016».

La Corte costituzionale ha accolto la domanda subordinata, rilevando che l’ordine di modifica di un regolamento riproduttivo di una norma di legge avrebbe imposto alla Regione di adottare e applicare una norma regolamentare difforme da una legge e che la disapplicazione della legge per contrasto con il diritto dell’Unione, se è consentita e anzi doverosa al fine di far conseguire al singolo il bene garantito appunto dal diritto dell’Unione europea, tuttavia non è consentita al fine di ottenere il “rimedio generale” previsto dalla azione civile contro la discriminazione ex art. 28 d.lgs. 150/2011 cioè l’ordine di rimozione della norma regolamentare.

Di particolare interesse la parte di motivazione della sentenza ove sono stati delineati i tratti essenziali del giudizio antidiscriminatorio ed i poteri del giudice ordinario ai sensi dell’art. 28 d.lgs. 150/2011 che si riporta di seguito. «Con la sentenza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Nei casi di comportamento discriminatorio di carattere collettivo, il piano è adottato sentito l’ente collettivo ricorrente». Il legislatore, in tal modo, ha predisposto una normativa che, per garantire incisivamente la parità di trattamento e sanzionare discriminazioni ingiustificate e intollerabili alla luce del principio di eguaglianza scolpito nell’art. 3 Cost., affida al giudice ordinario «strumenti processuali speciali per la loro repressione» (Corte di cassazione, SU civili, ordinanza 30 marzo 2011, n. 7186). E ancora «La pienezza della tutela speciale così costruita dal legislatore si estende sino a consentire al giudice ordinario – pur senza tratteggiare l’attribuzione, ai sensi dell’art. 113, terzo comma, Cost., di un eccezionale potere di annullamento degli atti amministrativi – di pronunciare sentenze di condanna nei confronti della pubblica amministrazione per avere adottato atti discriminatori, dei quali può ordinare la rimozione. La scelta legislativa è, dunque, quella di accordare una tutela particolarmente incisiva, che consenta un efficace e immediato controllo sull’esercizio del potere anche da parte del giudice ordinario, senza che ciò impedisca al giudice amministrativo, ove venga a conoscere dei medesimi atti, di procedere all’annullamento degli stessi, con l’efficacia erga omnes che gli è propria (si veda, per esempio, Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 6 marzo 2023, n. 2290)» (in G.U. 14.2.2024 n. 7).

 

Il Tribunale di Civitavecchia  in funzione di giudice del lavoro, con sentenza n. 198 depositata in data 18 aprile 2024, ha accolto il ricorso promosso, per ottenere l’assegno di invalidità da un cittadino extracomunitario titolare di permesso di soggiorno per cure mediche avente durata di 6 mesi e riconosciuto invalido totale e permanente, con inabilità lavorativa pari al 100% e con necessità di assistenza continua. L’INPS aveva negato la prestazione assistenziale in quanto lo straniero, benché residente in Italia da oltre venti anni, non era in possesso di un titolo di soggiorno di durata almeno annuale come previsto dall’art. 41 TU immigrazione. Il Tribunale con un’articolata e condivisibile pronuncia, dopo aver rilevato che l’assegno mensile di assistenza agli invalidi parziali previsto dall’art. 13, l. 118/1971, è qualificato, «dalla costante giurisprudenza intervenuta su tema, quale “erogazione destinata non già ad integrare il minor reddito dipendente dalle condizioni soggettive, ma a fornire alla persona un minimo di “sostentamento”, atto ad assicurarne la sopravvivenza” e dunque, viene ascritta tra i parametri di ineludibile uguaglianza di trattamento tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato (cfr., per tutte, Corte cost., sentenza n. 187/2010)», ha richiamato i principi enucleati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 187 del 2010 con riferimento all’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 ed ha affermato che la condizione che, secondo l’istituto, sarebbe posta dal citato articolo 41 TU al godimento della prestazione assistenziale in esame (titolarità del permesso di soggiorno di durata almeno annuale) «configurerebbe un discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, privo di giustificazione oggettiva e ragionevole» e si porrebbe, di conseguenza, in contrasto con la Carta costituzionale. Tale contrasto, tuttavia, può essere superato essendo possibile e doverosa un’interpretazione costituzionalmente orientata della citata disposizione: «Ebbene, l’art 41 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 richiedendo la titolarità “di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno” a ben vedere non impedisce di ritenere configurato il requisito in parola quando, al momento della domanda, lo straniero è in possesso di permesso di soggiorno di durata che, sommata a quella dei permessi in precedenza goduti, arriva alla soglia di un anno. In altri termini, la norma non richiede che la durata non inferiore ad un anno debba essere raggiunta con un solo titolo di soggiorno e non anche con la somma di più titoli di soggiorno.» (cfr. Tribunale di Ancona, sentenza del 24.11.2021; Tribunale di Perugia, sentenza del 12.01.2024).

Rilevato che il ricorrente, considerando la sommatoria tra il permesso di soggiorno vigente al momento della domanda (6 mesi) ed i precedenti permessi di soggiorno, superava il limite annuale ha quindi concluso che il diniego della prestazione da parte dell’Istituto nazionale della previdenza sociale era discriminatorio ed ha dichiarato il diritto del cittadino extracomunitario ad ottenere la prestazione assistenziale richiesta.

 

 

Assegno sociale 

Con ordinanza dell’8 marzo 2023, iscritta al n. 82 del registro ordinanze 2023, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 11, 38, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione all’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», «nella parte in cui condiziona la corresponsione dell’assegno sociale ai cittadini extracomunitari al possesso della (ex) carta di soggiorno».

L’Istituto nazionale della previdenza sociale aveva impugnato avanti alla Corte di cassazione la sentenza della Corte d’appello di Firenze con la quale, in riforma della pronuncia di primo grado, era stata accolta la domanda di riconoscimento dell’assegno sociale ex art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) avanzata da una cittadina albanese priva del permesso di soggiorno di lungo periodo. Secondo i giudici di appello l’art. 20, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, nel condizionare il riconoscimento dell’assegno sociale alla permanenza continuativa, da parte dell’avente diritto, per almeno dieci anni sul territorio nazionale, avesse implicitamente abrogato il requisito, previsto dall’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, del possesso della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo). Ad avviso della Suprema Corte, che richiamava le proprie precedenti pronunce, il citato art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito, impone un requisito aggiuntivo, e non sostitutivo, rispetto a quello della titolarità del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo richiesto dall’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000.

La Corte costituzionale con ordinanza n. 29 del 2024 depositata in data 27 febbraio 2024 ha operato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea al fine di verificare «se l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, quale espressione concreta della tutela del diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale riconosciuta dall’art. 34, paragrafi 1 e 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, debba essere interpretato nel senso che nel suo ambito di applicazione rientri una provvidenza come l’assegno sociale ex art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), e se, pertanto, il diritto dell’Unione osti ad una normativa nazionale che non estende agli stranieri titolari del permesso unico di cui alla medesima direttiva la provvidenza sopra citata, già riconosciuta agli stranieri a condizione che siano titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.».

La Corte ha rilevato che «3.– I dubbi di legittimità costituzionale sollevati involgono primariamente la questione interpretativa della riconducibilità, o meno, dell’assegno sociale ex art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995 tra le prestazioni di sicurezza sociale rispetto alle quali i cittadini di Paesi terzi muniti di permesso di soggiorno per finalità lavorative o che, comunque, consenta di lavorare, beneficiano della parità di trattamento ex art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE. Tale quesito esige preliminarmente una risposta nella prospettiva del diritto europeo e, poiché non è ancora stato oggetto di specifiche pronunce della Corte di giustizia, cui spetta la funzione di interpretare il diritto dell’Unione in modo tale da assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri, si ritiene necessario interpellare, mediante il rinvio pregiudiziale, la Corte medesima affinché chiarisca, rispetto all’istituto di diritto interno che viene in rilievo nel caso di specie, la portata e gli effetti delle norme dell’Unione assunte a parametro interposto nell’odierno incidente di costituzionalità.».

La lettura dell’ordinanza rende palese che la Corte costituzionale ha ritenuto che sussistono dubbi interpretativi circa la portata dell’art. 12 sopra citato come si evince dal punto 9 «– Pare, dunque, a questa Corte che i cittadini di Paesi terzi ai quali si applica l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE possano beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano soltanto se lavoratori e con esclusivo riferimento alle prestazioni relative ai settori di sicurezza sociale elencati all’art. 3, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 883/2004, mentre, per poter fruire delle speciali prestazioni di cui all’art. 70 del medesimo regolamento – nel cui novero si inscrive l’assegno sociale in scrutinio – non possono che sottostare alle condizioni per esse espressamente previste dalla stessa disciplina di coordinamento nonché dalla legislazione dello Stato ospitante. 9.1.– In conclusione, questa Corte dubita che la sola titolarità di un permesso di soggiorno che consente di lavorare ai sensi della citata direttiva conferisca al cittadino extra UE il diritto di accedere alle prestazioni “miste” alle stesse condizioni dei cittadini del Paese membro in cui soggiorna.» (in G.U. 28.2.2024 n. 9).

 

Alloggi in edilizia residenziale pubblica  

La Corte costituzionale con la sentenza n. 67 del 22 aprile 2024 ha dichiarato incostituzionale il requisito di residenza quinquennale nel territorio regionale previsto anche dalla legge Regione Veneto n. 39 del 2017 per accedere alle graduatorie per l’edilizia residenziale pubblica confermando un orientamento ormai consolidato (ved. sentenza n. 44/2020, nn. 145 e 77 del 2023). Anche in questa pronuncia la Corte ha affermato che l’accesso all’abitazione, in quanto “diritto sociale inviolabile”, non può prevedere criteri che esulino dallo stato di bisogno della persona. Si legge nella sentenza «7.1.– Ebbene – come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare – non si ravvisa alcuna ragionevole correlazione fra l’esigenza di accedere al bene casa, ove si versi in condizioni economiche di fragilità, e la pregressa e protratta residenza – comunque la si declini (infra, punto 7.2.) – nel territorio regionale (sentenze n. 145 del 2023, n. 44 del 2020, n. 166 del 2018 e n. 168 del 2014). 7.1.1.– Il criterio della prolungata residenza si risolve nella previsione di «una soglia rigida che porta a negare l’accesso all’ERP a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente (quali ad esempio condizioni economiche, presenza di disabili o di anziani nel nucleo familiare, numero dei figli)» (sentenza n. 44 del 2020, nello stesso senso, sentenze n. 145 e n. 77 del 2023). La durata della permanenza nel territorio regionale non incide in alcun modo sullo stato di bisogno e, pertanto, lo sbarramento che comporta tale requisito nell’accesso al bene casa è «incompatibile con il concetto stesso di servizio sociale, […] destinato prioritariamente ai soggetti economicamente deboli» (ancora sentenza n. 44 del 2020). 7.1.2.– Inoltre, occorre rilevare che la residenza prolungata nel territorio regionale non considera che proprio chi versa in stato di bisogno si vede più di frequente costretto a trasferirsi da un luogo all’altro spinto dalla ricerca di opportunità di lavoro (sentenza n. 53 del 2024, punto 7.2. del Considerato in diritto, e sentenze ivi richiamate). In sostanza, «se la residenza costituisce un requisito ragionevole al fine d’identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione, non è invece possibile che l’accesso alle prestazioni pubbliche sia escluso per il solo fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza» (sentenza n. 199 del 2022; in senso analogo sentenza n. 7 del 2021). 9.– Infine – come questa Corte ha già in passato evidenziato (sentenze n. 77 del 2023 e n. 44 del 2020) – il criterio della residenza protratta per accedere ai servizi sociali dell’ERP tradisce il principio di eguaglianza non solo rispetto al primo comma dell’art. 3 Cost., ma anche con riguardo al suo secondo comma, che affida alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Una norma che prevede quale criterio di accesso ai servizi dell’ERP la residenza protratta nel territorio regionale «equivale, infatti, ad aggiungere agli ostacoli di fatto costituiti dal disagio economico e sociale un ulteriore e irragionevole ostacolo che allontana vieppiù le persone dal traguardo di conseguire una casa, tradendo l’ontologica destinazione sociale al soddisfacimento paritario del diritto all’abitazione della proprietà pubblica degli immobili ERP». Tale valutazione rimane valida, sottolinea la Corte, anche qualora, come nel caso della Regione Veneto, la legge diluisca il criterio nel tempo, prevedendo la possibilità di maturare il requisito di 5 anni di residenza anche nell’arco di 10 anni (in Banca dati Asgi).

 

Bonus patenti autotrasporto

Il Tribunale di Torino, con sentenza del 20 marzo 2024, ha accertato «il carattere discriminatorio della condotta tenuta dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in persona del Ministro pro tempore, consistente nell’avere previsto, con il d.m. 30.6.2022, che il “buono patenti autotrasporto” di cui all’art. 1 d.l. 10.9.2021 n. 121, convertito con modificazioni dalla l. 156/2021, sia riservato ai soli “cittadini italiani ed europei” escludendo dalla prestazione gli altri cittadini stranieri» ed ha ordinato al Ministero «di modificare il citato d.m. o comunque le comunicazioni al pubblico relativo al predetto “buono patenti autotrasporto”, eliminando il requisito della cittadinanza italiana o europea e consentendo l’accesso alla prestazione a tutti i cittadini stranieri regolarmente residenti che ne facciano richiesta, fermi tutti gli altri requisiti richiesti anche ai richiedenti italiani ed europei».

La decisione è stata assunta in relazione ad un ricorso presentato ex art. 28 d.lgs. n.150/2011 da ASGI – Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e da un cittadino ecuadoriano che si era visto rifiutare la domanda proprio perché straniero. 

Il Tribunale respinta l’eccezione preliminare di carenza di giurisdizione sulla base di un ormai consolidato orientamento di legittimità, ha chiarito la portata dell’art. 43, co. 2 lett. b) e c) del TU immigrazione ed ha osservato che «il co. 2 alle lett. b) e c) prevede che compie un atto di discriminazione: b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio- assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità». Ha poi evidenziato che il «buono erogato per il conseguimento della patente per la guida dei veicoli destinati all’esercizio dell’attività di autotrasporto di persone e di merci, quantificato nell’80% della spesa sostenuta e per un importo comunque non superiore ai 2500,00 euro per i cittadini di età compresa tra i 18 e 35 anni debba essere qualificato come un contributo finalizzato ad agevolare l’accesso dei cittadini più giovani ad un bene ed un servizio pubblico quale è, appunto, quello che consente di acquisire la patente di guida. Nelle finalità espresse dalla stessa norma istitutiva del contributo, inoltre, viene specificato che lo stesso è finalizzato a contribuire alla formazione di nuovi autotrasportatori.». Ciò premesso ha concluso che il contributo in questione deve essere fatto rientrare nell’ambito dei beni e servizi offerti al pubblico di cui alla citata lett. b) della disposizione sopra richiamata configurandosi come mezzo per agevolare l’accesso al lavoro secondo quanto disposto dalla citata lett. c) dell’art. 43 TU immigrazione. Ad avviso del Tribunale ne consegue che «il d.m. 30.6.2022 introducendo la predetta limitazione ai soli cittadini italiani e comunitari abbia posto in essere una ingiustificata discriminazione ai danni dei cittadini extracomunitari in violazione dell’art. 43 TU immigrazione e, in particolare delle lett. b) e c) del secondo comma di tale disposizione» (in Banca dati Asgi).

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