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Fascicolo 2, Luglio 2020


Questa è un'altra delle cose degli immigranti (rifugiati, emigranti, viaggiatori): non possono sfuggire alla loro storia più di quanto voi possiate perdere la vostra ombra.

(Zadie Smith, «Denti bianchi», Mondadori, 2000) 

Penale

La decisione della Cassazione sul caso dell’arresto di Carola Rackete
Si è conclusa con la decisione della Cassazione n. 6626/2020 del 20.2.2020 la vicenda relativa all’arresto di Carola Rackete, capitana della nave Sea Watch 3, che nel giugno 2019 era stata arrestata dalla Guardia di finanza all’esito di una vicenda dal grandissimo impatto mediatico, che merita ora qui di essere rapidamente sintetizzata.
Il 12 giugno 2019 la nave Sea Watch 3, battente bandiera olandese, effettua il soccorso di 53 persone presenti su un natante in condizioni precarie a 47 miglia dalle coste libiche. Operato il soccorso, la comandante procede subito a richiedere l’indicazione di un POS (place of safety) alle autorità italiane, maltesi, olandesi e libiche. La prima risposta giunge dalle autorità libiche, che indicano Tripoli quale porto sicuro ove condurre i migranti. Considerate le tragiche condizioni in cui versano i migranti nei campi di detenzione libici, la comandante ritiene che la Libia non possa essere considerata un porto sicuro per i naufraghi soccorsi, e si dirige verso le coste europee, benché le autorità italiane e maltesi si rifiutino di indicare un POS affermando la propria incompetenza rispetto al soccorso operato nella cd. zona SAR libica. Dopo che la Sea Watch 3, pur restando in acque internazionali, si era portata a poche miglia da Lampedusa, il 15 giugno il Ministro dell’interno, sulla base dei poteri conferitigli dal cd. decreto-sicurezza bis appena entrato in vigore (d.l. 14.6.2019, n. 53, conv. in l. 8.8.2019, n. 77), formalizza il divieto di ingresso della nave in acque italiane. Nei giorni successivi vengono evacuati dalla nave 10 soggetti in condizioni di particolare vulnerabilità, ma per gli altri 43 la situazione continua a non sbloccarsi. Il 26 giugno la comandante si risolve infine a violare il divieto e ad entrare nelle acque nazionali, ritenendo non più sostenibile la condizione di stallo venutasi a creare. Dopo qualche giorno di ulteriore attesa di una soluzione concordata con le autorità italiane, nella notte del 29 giugno la nave entra nel porto di Lampedusa, dirigendosi verso l’unica banchina adatta all’attracco di un natante delle dimensioni della Sea Watch 3; nel tentativo di impedire l’attracco, una motonave della Guardia di finanza si frappone tra la banchina e la nave, e viene urtata da quest’ultima nelle manovre di ormeggio, prima di riuscire a sfilarsi e mettersi al sicuro. Ormeggiata la nave, la capitana viene immediatamente arrestata dalla Guardia di finanza, ed il giorno successivo la Procura della Repubblica di Agrigento chiede la convalida dell’arresto e la contestuale applicazione della misura cautelare del divieto di dimora in provincia di Agrigento, ritenendo sussistente nella condotta della capitana, che decideva di procedere all’approdo nonostante l’interposizione fisica sulla banchina del natante della Guardia di finanza, gli estremi di due figure delittuose: il delitto di violenza contro nave da guerra di cui all’art. 1100 cod. nav. (punito con la reclusione da tre a dieci anni) e il delitto di resistenza a un pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p. (reclusione da sei mesi a cinque anni).
Il GIP, oltre a non concedere la misura cautelare, aveva altresì negato la convalida dell’arresto, ritenendo, quanto al reato di cui all’art. 337 c.p., che la Rackete avesse agito in adempimento deldovere come capitano della nave di condurre in un “luogo sicuro” i naufraghi soccorsi; in ordine invece al reato previsto dal codice della navigazione, ne aveva escluso la ricorrenza, in quanto nel caso di specie l’imbarcazione della Guardia di finanza con cui la nave della Rackete era entrata in collisione non avrebbe potuto essere qualificata come nave da guerra (vedi il commento di C. Ruggiero alla decisione del GIP su n. 1/2020).
La Procura di Agrigento aveva deciso di non impugnare il provvedimento del GIP quanto al rigetto della misura cautelare, ma aveva invece fatto ricorso in Cassazione rispetto alla decisione di non convalidare l’arresto eseguito dalla GdF. Tre erano in particolare i motivi di ricorso dedotti. Il primo riguardava l’illogicità-contraddittorietà della motivazione riguardante la legittimità dell’arresto; il secondo l’esclusione (erronea secondo la Procura) della qualifica di nave da guerra alla motovedetta della GdF; il terzo infine concerneva la presunta illogicità e contraddittorietà della motivazione in merito alla sussistenza della scriminante dell’art. 51 c.p.
Quanto al primo motivo di ricorso, la Corte prende le mosse dal ricordare il consolidato orientamento secondo cui «il giudice della convalida deve limitarsi alla verifica della sussistenza dei presupposti legali per l’arresto e dell’uso ragionevole dei poteri da parte della polizia giudiziaria …, ponendosi nella stessa situazione di chi ha operato l’arresto e fondando il suo giudizio sulla base degli elementi al momento conosciuti». Secondo la prospettazione del ricorso, i limiti propri del giudizio di convalida sarebbero stati travalicati dal GIP, posto che «il giudice avrebbe effettuato un penetrante giudizio sulla insussistenza della gravità indiziaria, ritenendo configurabile la causa di giustificazione dell’art. 51 c.p., segnatamente dell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sulla scorta di un complesso percorso argomentativo che faceva ampio richiamo alle fonti internazionali, laddove l’art. 385 c.p.p., facendo riferimento al concetto di “apparenza”, implicitamente escluderebbe che si possa pervenire alla non convalida dell’arresto sulla base di argomenti o ragionamenti complessi».
Dopo avere ricordato la netta distinzione tra la fase pre-cautelare cui si riferisce il giudizio di convalida dell’arresto e la fase cautelare («la convalida guarda al passato, e, quindi, per il futuro, occorre, affinché perduri una limitazione della libertà personale, un autonomo provvedimento idoneo a costituire titolo autosufficiente per fondare una limitazione del diritto di libertà»), la Corte, per valutare l’ampiezza del vaglio affidato al giudice al momento della convalida, individua come parametro di riferimento l’art. 13 Cost. Secondo la Cassazione, «il meccanismo della convalida nel processo penale discende proprio dalla previsione, di rango costituzionale, per cui un organo “incompetente” è autorizzato, sussistendo determinate condizioni, a sostituirsi a un organo “competente”, e, quindi, ad emettere, a titolo provvisorio, un atto rientrante, di regola, nelle attribuzione dell’autorità legittimata, in via ordinaria, all’intervento diretto ad intaccare la sfera di libertà del singolo. Ne consegue che la convalida, quando interviene, non incide sugli effetti dell’atto provvisorio convalidato e, quindi, non comporta il consolidamento di quegli effetti, risolvendosi solo in un controllo diretto a stabilire se l’intervento dell’organo “incompetente” sia stato bene o male operato».
Sulla base di questi presupposti di diritto, la Corte ritiene corretta la decisione del GIP di negare la convalida. La Cassazione condivide innanzitutto la scelta, criticata nel ricorso e nel parere della Procura generale, di fornire una valutazione complessiva della situazione, non limitando l’attenzione solo all’episodio della collisione con l’imbarcazione della GdF, ma inserendo quest’ultimo all’interno di una vicenda unitaria che ha inizio con il soccorso dei naufraghi.
Passando poi alla questione di come vada intesa l’espressione di cui all’art. 385 c.p.p., secondo cui l’arresto non è consentito quando “appare” che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, la Cassazione precisa come «non sia richiesto che la sussistenza della causa di giustificazione “appaia evidente”, ma che essa sia “verosimilmente esistente”. … In presenza di “verosimile” rappresentazione di una causa di giustificazione, opera quindi il divieto di cui all’art. 385 c.p.p. e l’atto di arresto eventualmente compiuto non è legittimo».
Posta questa premessa, la Corte ritiene corretti gli argomenti spesi dal GIP per motivare perché, alla luce del quadro normativo relativo alla disciplina dei soccorsi, fosse verosimile la sussistenza in capo alla Rackete della scriminante dell’adempimento del dovere.
La Cassazione ritiene congruamente motivata” la ricostruzione da parte del GIP delle fonti di diritto internazionale rilevanti in materia di soccorso in mare, che fondavano la sussistenza della causa di giustificazione in capo alla Rackete: «proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento interno, in forza del disposto di cui all’art. 10 co. 1 Cost – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima –, sono il parametro normativo che ha guidato il giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione nelle quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente».
Non è poi fondato, secondo la Corte, il tentativo della Procura di distinguere la fase del soccorso da quella dello sbarco, ritenendo che l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare non comporti il dovere per le autorità di fornire un luogo di attracco, almeno quando, come nel caso di specie, la situazione igienico-sanitaria a bordo della nave sia monitorata e escluda il rischio di danni alla salute dei naufraghi. Scrive infatti la Cassazione che «non si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla Convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (cd. place of safety)». La Corte rammenta la nozione di porto sicuro contenuta nelle Linee guida del 2004 alla Convenzione SAR, per cui «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio, cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale». Alla luce di tale nozione, la Corte conclude che «non può quindi essere considerato “luogo sicuro” una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi meteorologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave».
Il primo motivo di ricorso viene dunque respinto, in quanto «in conclusione, la verifica del giudice della convalida è stata correttamente compiuta e corretta è la sua decisione. Il giudice non soltanto ha ritenuto configurabile, nella situazione descritta nel provvedimento, la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso, individuandone la portata, ma ha anche valutato che la sussistenza di tale scriminante fosse percepibile da parte degli operanti che avevano proceduto all’arresto, sulla base di una valutazione della singolarità della vicenda e delle concrete circostanze di fatto, come meticolosamente riepilogate».
Venendo ora più brevemente al secondo motivo di ricorso, relativo alla qualifica di nave da guerra della motovedetta della GdF, la Corte condivide la conclusione del GIP che aveva escluso tale qualifica, anche se ritiene decisiva non già la sentenza della Corte costituzionale del 2000 invocata dal GIP, quanto la definizione di nave da guerra di cui all’art. 1, co. 2 d.lgs. 66/2010 (Codice dell’ordinamento militare), secondo cui per nave da guerra «si intende una nave che appartiene alla Forze armate di uno Stato, che porta i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità ed è posta sotto il comando di un ufficiale di marina al servizio dello Stato ed iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in un documento equipollente, il cui equipaggio è sottoposto alla disciplina militare». Alla stregua di tale definizione, la Corte riscontra come nel caso di specie il comando non fosse nelle mani di un ufficiale, ma di un maresciallo della GdF, e conclude negando la sussistenza dei requisiti normativi necessari perché la motovedetta potesse essere qualificata come nave da guerra.
Quanto infine al terzo motivo di ricorso, relativo alla fondatezza della decisione del GIP di riconoscere la scriminante dell’adempimento del dovere, la Corte lo ritiene inammissibile «perché propone una censura che si pone fuori dal perimetro del sindacato del giudice sulla non convalida. Quest’ultimo resta delineato, come lo stesso ricorrente evidenzia nel primo motivo di ricorso, al controllo di ragionevolezza dell’operato di coloro che hanno eseguito l’arresto in flagranza. Non rilevano quindi valutazioni alternative dei fatti e diverse interpretazioni delle fonti normative, ai fini della configurazione e dei confini della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., oppure prospettazioni alternative in ordine all’adempimento del dovere di soccorso e alla sua ampiezza, fondate su una interpretazione diversa della nozione di place of safety contenuta nella Convenzione di Amburgo, che ne delinea peraltro puntualmente l’ambito e i confini».
La decisione appena sintetizzata è di estrema importanza, perché rappresenta la prima occasione in cui i Giudici di legittimità prendono posizione sul tema della compatibilità con il diritto internazionale e interno della prassi, adottata nei mesi del Governo Conte 1, di negare lo sbarco nei nostri porti alle navi di ONG straniere che avevano operato in acque internazionali il soccorso di naufraghi in provenienza dalla Libia. La Cassazione – sia pure all’interno di un procedimento di natura cautelare, e dunque con un grado di approfondimento delle questioni giuridiche controverse minore di quello proprio delle decisioni conclusive di un procedimento di merito – afferma che il rifiuto (opposto dal Ministro dell’interno ed eseguito dalla Guardia di finanza) di autorizzare lo sbarco ai naufraghi soccorsi dalla nave della ONG era illegittimo, perché contrario a quanto previsto dal diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) sui soccorsi in mare: un’affermazione le cui ricadute vanno ben al di là del caso specifico dell’arresto di Carola Rackete.
Rimane da ricordare che la capitana della Sea Watch 3 rimane comunque sotto indagine per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare di cui all’art. 12 TUI, in relazione al quale la Procura agrigentina non ha ancora deciso se chiedere l’archiviazione o procedere all’esercizio dell’azione penale.
 
Delitto di inottemperanza all’ordine di allontanamento e improcedibilità per particolare tenuità del fatto
Continua ad essere oggetto di differenti orientamenti in sede di legittimità la questione, nella prassi assai rilevante, dell’onere di motivazione incombente sul Giudice di pace che rifiuti di riconoscere all’imputato per il reato per il delitto di inottemperanza all’ordine di allontanamento di cui all’art. 14 co. 5-ter TUI la clausola di esclusione della procedibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 34 d.lgs. 274/2000.
Tutte le sentenze allegate sono relative a ricorsi presentati nei confronti di provvedimenti emanati dal medesimo ufficio giudiziario (Giudice di pace di Genova).
Due sentenze (n. 13009 e n. 13010) sono relative a casi quasi identici, in cui il Giudice di pace aveva escluso la sussistenza degli estremi di cui all’art. 34 d.lgs. 274/2000 motivando con riferimento alla potenziale pericolosità per la pubblica sicurezza degli imputati, derivante dalla loro condizione di stranieri irregolari e disoccupati. La Cassazione respinge i ricorsi, nei quali il difensore dell’imputato si doleva di violazione e/o erronea applicazione della legge penale e di vizio di motivazione in relazione all’art. 34, ricordando anzitutto come «l’addebito mosso al ricorrente, come accertato nella sentenza impugnata, consistente nel trattenimento nel Paese dopo l’ordine di allontanamento, rimasto inottemperato, ha natura di reato permanente, non è affatto occasionale, essendo frutto di deliberata intenzione, e, per quanto emerso, neppure è stata addotta una situazione ostativa di una qualche pregnanza, incidente sulla possibilità di adempiere all’intimazione di allontanamento, se non escludendola, rendendola difficoltosa o pericolosa»; secondo la Corte, il riferimento del Giudice di pace alla condizione di straniero irregolare e disoccupato è sufficiente per escludere la particolare tenuità del fatto, dal momento che il ricorrente «non chiarisce gli elementi non valutati dal giudice, nell’escludere la particolare tenuità del fatto in scrutinio, che darebbero ragione, al contrario, dell’esiguità del danno o del pericolo, dell’occasionalità del reato, del grado minimo della colpevolezza e del pregiudizio sociale per l’imputato».
Ad opposte conclusioni giunge invece la terza sentenza qui allegata (n. 7897/2020), ancora relativa ad una vicenda pressoché identica a quelle oggetto delle sentenze appena citate. Anche in questo caso il Giudice di pace genovese aveva escluso l’applicabilità dell’art. 34 in quanto l’imputato era uno straniero irregolarmente soggiornante e disoccupato. La Corte osserva che «la carenza di titolo abilitante a trattenersi sul territorio italiano costituisce imprescindibile presupposto della violazione posta in essere, afferente ad un ordine di allontanamento scaturito proprio dall’omesso rilascio di permesso di soggiorno: a seguire il ragionamento del Giudice di pace ligure, si giungerebbe, allora, a configurare, in concreto ed in contrasto con le delineate premesse, una radicale incompatibilità tra il reato sanzionato dal d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 14, co. 5-ter, e la causa di esclusione della punibilità prevista dal d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 34. Né più convincente si rivela l’ulteriore argomento speso nella sentenza impugnata, che fa leva sulla condizione di disoccupazione di D. che, tuttavia, è portato, pressoché ineludibile, della irregolarità della sua presenza in Italia e non anche sintomo di più intesa offensività del reato da lui perpetrato». Secondo la Corte, allora, «lo sforzoargomentativo del Giudice di pace appare, dunque, inadeguato in quanto riferito ad elementi comuni a qualunque fattispecie del tipo di quella in esame e non parametrato, come sarebbe stato necessario, alle peculiarità del caso, relative, ad esempio, alla protrazione temporale dell’inottemperanza ovvero alla contestuale o pregressa commissione, da parte dell’imputato, di ulteriore e distinta attività illecita, nonché alle sue esigenze di lavoro, studio, famiglia o salute». Su queste basi, il ricorso viene accolto e la sentenza di condanna annullata con rinvio.
Si riscontrano dunque, in seno alla giurisprudenza della Prima sezione della Cassazione, due diversi orientamenti in ordine alla possibilità per il Giudice di pace di negare l’applicabilità dell’art. 34 sulla base di considerazioni di portata generale, prive di riscontri relativi alle peculiarità della vicenda concreta: mentre le prime due sentenze ritengono che la mancanza di elementi specifici in ordine alla condizione dell’imputato non escluda comunque la possibilità di condannarlo, la terza ritiene al contrario che una sentenza di condanna possa essere pronunciata solo quando siano stati addotti elementi tali da escludere nel caso concreto la ricorrenza delle condizioni da cui ex art. 34 deriva il riconoscimento della particolare tenuità del fatto.

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